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Il contratto con la persona con disturbo borderline di personalità come atto terapeutico: linee guida e riferimenti teorici

Nelle Linee guida per il trattamento dei Disturbi Gravi di Personalità dell'Emilia Romagna sono inserite indicazioni sul contratto col paziente borderline. %%page%%

Di Giulia Citarelli

Pubblicato il 21 Ott. 2015

Aggiornato il 09 Mar. 2016 16:02

La formalizzazione di un contratto terapeutico nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità (DBP) è prevista all’interno delle Linee di indirizzo per il trattamento dei Disturbi Gravi di Personalità emanate dalla Regione Emilia Romagna nel 2013, ispirate, ed altresì riadattate alla realtà operativa locale, alle Linee Guida NICE (National Institute for Health and Clinical Excellence) del 2009.

Nelle priorità chiave per l’implementazione di tali linee guida, nonché all’interno dei “Principi generali per lavorare con persone con un disturbo borderline di personalità”, viene fatto esplicito riferimento al principio di scelta ed autonomia declinato come un lavoro in collaborazione con la persona con disturbo borderline di personalità finalizzato a promuoverne l’autonomia e la possibilità di scelta attraverso il richiamo all’assunzione di un ruolo attivo da parte di quest’ultima nel ricercare una soluzione ai propri problemi, inclusa la gestione delle crisi, e l’incoraggiamento a considerare le differenti opzioni di trattamento e le scelte di vita disponibili unitamente alle loro possibili conseguenze.

L’adattamento di tali linee guida alla realtà locale della Regione Emilia Romagna, ha comportato l’adozione del Contratto terapeutico inteso come un atto scritto e proceduralizzato che viene redatto in triplice copia e sottoscritto dagli attori e nel quale sono compresi:

la descrizione degli obiettivi di cura (di lungo e medio termine) ed i relativi tempi di verifica;
le competenze attivate dall’equipe;
le competenze richieste all’utente (ed alla sua famiglia);
le condizioni specifiche che possono orientare verso un passaggio di setting (inteso sia come modalità operativa che come servizio);
i comportamenti non negoziabili;
il piano di gestione delle crisi.

Il contratto è [blockquote style=”1″]l’estensione di quello che si definisce progetto di cura, ma ne differisce in modo sostanziale perchè è elaborato insieme al paziente e posizionato al livello effettivo della possibile motivazione verso il cambiamento[/blockquote] (M. Sanza, 2015).

La valenza terapeutica del contratto per la persona con disturbo borderline di personalità

La questione oggetto di attenzione nella presente trattazione riguarda l’ipotesi che la negoziazione e formalizzazione di un contratto (o accordo) terapeutico con la persona con disturbo borderline di personalità possa di per sé avere degli effetti terapeutici per la persona stessa, e non solo, possa altresì svolgere un ruolo di orientamento e supporto alla gestione di aspetti critici per l’equipe curante e per il/i Servizio/i coinvolto/i.
Vediamo in che termini il contratto può svolgere una funzione terapeutica concentrandoci innanzitutto sui possibili risvolti sulla persona con disturbo borderline di personalità alla luce delle dinamiche caratterizzanti il DBP stesso. Per prima cosa l’atto in sé di chiamare in causa la persona nel definire gli obiettivi del proprio percorso di cura, uno dei punti chiave del contratto stesso, determinerebbe un immediato riposizionamento degli attori nella relazione terapeutica: l’equipe (o il clinico in questione) da esperta del paziente diverrebbe esperta dei processi di cambiamento, lasciando alla persona il ruolo di principale esperto di sé, della propria storia e delle proprie problematiche; una dimensione maggiormente simmetrica, pertanto, senza implicare con ciò un disconoscimento della diversità dei ruoli e delle relative differenti responsabilità. Interrogarsi e condividere gli obiettivi a breve e medio termine del trattamento diverrebbe, così, un processo che responsabilizza il paziente riducendo il rischio della delega e favorendo l’ancoraggio delle aspettative ad un piano il più possibile realistico, predefinito, negoziato e verificabile nel tempo.

Un tale coinvolgimento attivo della persona potrebbe avere una valenza di per sé terapeutica in riferimento, ad esempio, alla potenzialità di incrementare il senso di autodeterminazione ed i bisogni di autonomia del paziente, influenzandone positivamente la motivazione.
Ryan e collaboratori (1997), nella loro teoria della “Self Determination”, sostengono che alla base della motivazione umana e dell’autoregolazione del comportamento vi siano delle spinte innate verso la soddisfazione di tre bisogni psicologici fondamentali: il bisogno di competenza, di essere in relazione con altri significativi e di autonomia personale. Sulla scia di questa visione, la percezione da parte della persona di collaborare alla definizione del contratto terapeutico potrebbe svolgere un ruolo importante anche rispetto alla motivazione al trattamento favorendone l’evoluzione verso una connotazione sempre più autonoma e diminuendone gli aspetti estrinseci che, invece, sono preponderanti in una dimensione relazionale maggiormente asimmetrica all’interno della quale vi è il rischio da parte degli operatori di assumere una posizione sostitutiva nei riguardi del paziente. In altri termini, riteniamo che la prassi del contratto terapeutico possa essere uno strumento per incrementare il senso di empowerment dei pazienti nei confronti della propria salute, uno dei fattori più frequentemente associati alla compliance ed alla buona riuscita dei trattamenti; preferiamo, tuttavia, parlare di collaborazione piuttosto che di aderenza alle cure, termine che ci sembra rispecchiare meglio il ruolo attivo della persona.

Contratto terapeutico e gestione delle crisi

Un altro aspetto che riteniamo rilevante della prassi del contratto terapeutico riguarda la parte dedicata alla gestione delle crisi. Questo per via di diverse motivazioni: in primo luogo poiché riteniamo che l’ anticipare l’accadimento di possibili crisi possa essere un’operazione che di per sé comunica alla persona una comprensione della sua patologia, un riconoscimento delle sue difficoltà e legittima la crisi stessa come una fase gestibile e non come un evento ineluttabile e nei confronti del quale si è totalmente impotenti. Una sorta di “normalizzazione” della crisi, se vogliamo, che ricorda un po’ la fase della ricaduta del modello transteorico del cambiamento elaborato da Prochaska e DiClemente (1982), all’interno del quale quest’ultima viene concepita come uno stadio del cambiamento, che può rappresentare anche un’occasione di apprendere modalità adattive di gestione dei momenti di crisi e delle difficoltà personali.

E’ utile sottolineare, infatti, come nel contratto il piano di gestione delle crisi, al pari degli altri punti, venga condiviso insieme al paziente e pertanto implichi un’ autoriflessione da parte del soggetto su quali possono essere le situazioni ed i fattori scatenanti una crisi, un interrogarsi rispetto a quali possono essere le persone che per ciascuna situazione possono rappresentare un’idonea fonte di aiuto, ed una negoziazione con l’equipe rispetto a quando e come rivolgersi ai servizi, quando e come possono esser disponibili gli operatori che compongono l’equipe stessa.

Un punto interessante nella definizione del piano di gestione delle crisi, così come viene concepito anche nel “Good Psychiatric Management” (Gunderson J. G., 2015 ) è, inoltre, la possibilità di specificare quali sono le persone da non contattare; anche questa ci sembra un’operazione con dei risvolti terapeutici in quanto richiamerebbe il soggetto ad incrementare la sua competenza, oltre che nell’identificare fonti adeguate di supporto limitando gli acting; consente anche di riconoscere quali sono le persone e le situazioni che possono, invece, sortire degli effetti negativi ed incrementare la crisi stessa e, così facendo, accrescere la capacità di discernimento del paziente rispetto all’ambiente nel quale egli vive ed alle persone con le quali si confronta.

Entriamo, seguendo questa linea, nella sfera delle competenze, altro punto del contratto terapeutico: anche qui risalta a nostro parere la premessa che potrebbe esser alla base e orientare la prassi in questione, ossia: le competenze non sono solo ambito di pertinenza dell’equipe, degli operatori, dei Servizi ma riguardano anche la persona che, perciò, non è solo colui che soffre di una patologia bensì anche colui che possiede delle risorse che possono esser utilizzate e sviluppate e che, per di più, sono indispensabili alla riuscita del percorso di trattamento. Esser visti come persone che possiedono risorse e competenze, oltre che problemi e difficoltà, è anch’essa un’operazione con effetti terapeutici.

Quando parliamo di effetti terapeutici intendiamo non un effetto tout court ed immediatamente positivo di tali operazioni, quanto piuttosto le potenzialità evolutive insite nell’innescare e nel mantenere un processo di cambiamento, quindi l’aspetto di incremento della motivazione, ed i risvolti a livello relazionale intesi sul piano dell’empatia, della convalidazione, della percezione di sentirsi compresi nelle proprie difficoltà, anche questi parte di un processo graduale e che si interseca con svariati altri fattori implicati nel trattamento stesso.

Un altro aspetto che riteniamo significativo riguarda la dimensione del potere, che la formalizzazione di un contratto, a nostro parere, in qualche modo interseca: attraverso il contratto, infatti, si proporrebbe una trasformazione qualitativa del potere stesso: da un potere che deriva esclusivamente dal ruolo che si ricopre (operatori/paziente) e garantito dalla asimmetria intrinseca a questi due ruoli, a quello di un potere competente che si gioca su un piano di scambio e di definizione delle competenze da parte di ciascuno degli attori in gioco.

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Giulia Citarelli
Giulia Citarelli

Specialista in Psicologia della Salute Iscritta all'Ordine degli Psicologi della Regione Lazio

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