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Le sindromi culturalmente determinate: una classificazione obsoleta?

Le sindromi culturalmente determinate sono un insieme eterogeneo di disturbi cognitivi e comportamentali diffusi in specifici contesti geografici-Psicologia

Di Fiammetta Monte

Pubblicato il 24 Lug. 2015

Aggiornato il 29 Gen. 2017 13:54

Fiammetta Monte, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Il termine culture-bound syndrome, potrebbe essere tradotto con sindrome culturalmente determinata. Sta ad indicare un insieme eterogeneo di disturbi cognitivi e comportamentali, cosiddette sindromi, diffuse generalmente in specifici contesti geografici.

Come rileva Piero Coppo (Coppo, 1996), anche se recentemente alcuni autori hanno proposto di iscrivere nell’ambito delle sindromi legate alla cultura anche disturbi come l’anoressia nervosa, gli attacchi di panico e la depressione (in quanto patologie legate al contesto della cultura occidentale), i casi descritti in letteratura riguardano piuttosto sindromi non occidentali, non a caso prima che venisse introdotto il termine di sindromi reattive culture-bound (Yap, 1969), queste condizioni erano descritte come “esotiche” (termine eurocentrico ormai in disuso).
La psichiatria culturale in passato si è dedicata a scoprire analogie tra queste ed i principali disturbi generalmente riconosciuti dalla psichiatria (Yap, 1969).

Tra le sindromi culturalmente determinate, una delle più conosciute è l’Amok, individuato per la prima volta da Kraepelin. Si tratta di un improvviso attacco omicida che colpisce in particolare giovani uomini. L’individuo colpito da Amok inizia a correre armato e colpisce chiunque incontri sul suo cammino. Tale crisi si conclude con l’uccisione o la cattura del corridore il quale nel caso in cui sopravviva non ricorda nulla dell’accaduto. È stato identificato nell’Asia Sud-Orientale, Malaysia, Indonesia, Thailandia.

In Groenlandia, Alaska e nell’artico canadese è stato identificato “Pibloqtoq”: una smania incontrollabile di lasciare il proprio rifugio, strapparsi di dosso i vestiti ed esporsi all’inverno artico.

Presso alcune tribù amerindiane si crede che esista il Withigo, un gigantesco spirito cannibale fatto di ghiaccio, e sono frequenti le “psicosi da Withigo”, caratterizzate da un forte stato d’ansia e dalla paura di trasformarsi in Withigo, di poter mettere in atto atti cannibalici.
Il Koro fu inizialmente osservato in giovani uomini del Sud-Est asiatico; ma piccole “epidemie” si sono verificate più recentemente anche in alcuni paesi africani: esso comporta la convinzione delirante che il proprio pene si stia ritraendo nell’addome e la convinzione che, a ritrazione completata, sopravverrà la morte. Tentativi dettati dal panico di impedire al pene di ritrarsi possono provocare gravi danni fisici.

Tra le donne Malaysiane, quelle che manifestano il Latah presentano un comportamento imitativo incontrollabile e la tendenza della persona che ne è colpita a comportarsi in modo lontano da quello per lei abituale (per esempio dicendo oscenità).
Così come l’obesità e l’anoressia sono legate al modo in cui una donna (o un uomo) fa esperienza del proprio corpo in relazione alle immagini della forma del corpo che sono della nostra cultura, allo stesso modo queste sindromi costituiscono nelle rispettive culture una rete di significati peculiari e sono associate ad un insieme di stress individuali e di risposte dell’ambiente e della società agli stessi, nonché alle rappresentazioni del benessere ed agli ideali che prevalgono nelle stesse culture.

Ad esempio l’Amok, come afferma Carr (Carr, 1978) è una forma di comportamento violento imposto dalla cultura malese, sancito dalla tradizione come risposta adeguata ad un certo tipo di condizioni. Il malese è incoraggiato dalla stessa società a mettere in atto tale comportamento nel momento in cui si trova a sperimentare una sensazione di malessere ed umiliazione che può essere provocata da diverse cause, come ad esempio essere esposti ripetutamente ad insulti, vivere un’esperienza di scacco particolarmente frustrante, o avere la sensazione di condurre un’esistenza priva di significato. Nella cultura malese, in altre parole, quanto più un individuo è mortificato, tanto più deve essere plateale la risposta che porta al riscatto. Il Latah è invece spesso favorita da un “rumore inatteso, un tocco o un gesto sperimentato in presenza di persone che la vittima considera superiori o che desidera compiacere” (Murphy, 1976): fu individuato per la prima volta alla fine del 1800, quando si diffuse in proporzioni quasi epidemiche in Malesia, tra gli indigeni e vicino gli insediamenti dei coloni europei. Dal 1920 divenne sempre più rara tra i giovani, e tra gli uomini, mentre si concentrò soprattutto nei luoghi lontani dai centri abitati dagli europei e tra le donne che lavoravano come domestiche presso le case dei coloni. L’epidemiologia del Latah, come osserva Alex Cohen (Cohen, 1999) fa riflettere sul rapporto tra questa sindrome e fattori sociali come ad esempio il rapporto con gli europei ed il cambiamento dei ruoli sociali nelle donne.

Alcuni antropologi e psichiatri hanno cercato, in una prospettiva epidemiologica, di tradurre le categorie popolari delle malattie di particolari società, per cercarne la corrispondenza con la nosologia classica. Secondo il modello da loro costruito le malattie derivano da processi universali, il modo in cui si manifestano però, è modellato dalla cultura cui l’individuo appartiene, in base alla quale gli individui selezionano alcuni sintomi associati ad una condizione di malattia e ne mettono in ombra altri: di fronte cioè ad uno stesso insieme di sintomi, individui che appartengono a diverse culture cercheranno cura per alcuni di questi e non per altri (Cozzi e Nigris, 1996).

A tale posizione universalistica si è contrapposta in passato quella del relativismo culturale: quella cioè di coloro che ritengono che in ogni società esista una certa nosologia, in quanto ogni società distingue comportamenti normali e patologici in modo peculiare. Di conseguenza anche il disagio prodotto da ogni cultura è unico e non confrontabile con il disagio prodotto da altre culture. Mentre insomma per gli universalisti le sindromi culturali sono espressioni culturalmente elaborate di fenomeni neuropsicologici o psicopatologici, per i relativisti culturali, una sindrome legata alla cultura è espressione di costrutti specifici di quella cultura e non può essere appresa in modo acontestualizzato, al di fuori di quella cultura, le cui credenze sono costitutive della sindrome.

È oggi senz’altro necessaria in una società multietnica come la nostra, in cui i flussi migratori si fanno sempre più intensi, ricercare ed adottare approcci che tengano conto della diversità culturale e che rendano possibile il trattamento delle “psicopatologie dell’immigrazione”, purtroppo sempre più frequenti e legate a cause diverse: dalla nostalgia per il proprio paese alla incapacità di orientarsi in un universo di valori completamente nuovo all’ostilità a volte espressa dai membri del paese accogliente. È importante predisporre spazi (mentali e fisici) di cura ed assistenza dotati di maggiore sensibilità culturale.

D’altro canto è specularmente importante tenere conto nella pratica clinica che proprio i flussi migratori, la globalizzazione, la nascita di comunità on-line e la condivisione al livello mondiale di simboli e stili di vita propri inizialmente soltanto di una certa società, favoriscono lo sviluppo di un processo di omogeneizzazione delle culture, dovuto all’incremento della possibilità che persone appartenenti ad orizzonti culturali differenti si incontrino e procedano ad un interscambio di usi, costumi, credenze ed abitudini, mettendo pesantemente in crisi, come sostiene Mantovani (Mantovani, 1998) l’idea che possano esistere culture separate, immobili, legate ad un solo contesto e ad un solo territorio e di conseguenza il concetto di sindrome culture-bound, almeno nella sua accezione classica.

 

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