Giorgia Di Fabio
La costituzione del setting con l’adolescente, quindi, non può che subire l’influenza della soggettività del terapeuta, della sua posizione personale, della sua formazione, con la sua propria costellazione di difese ed angosce, con una sua “insatura sensibilità/curiosità” (Maltese, 2005, p. 113) verso la sua stessa adolescenza, con l’esperienza acquisita (Roussilion, 1995), professionalmente e non.
Quella della mobilità e della flessibilità del setting nella psicoterapia con gli adolescenti è una questione quanto mai attuale ed urgente su cui confrontarsi. Infatti nella progettazione della cura con un adolescente diviene sempre più cruciale intendere una pluralità di possibili scelte rispetto ai dispositivi disponibili, quando uno degli obiettivi da porsi è favorire la soggettivazione del ragazzo/a.
Per soggettivazione si intende, nell’accezione fornita da Cahn (2000), il processo continuo ed interrotto di appropriazione soggettiva della propria realtà psichica. Tale processo che implica l’acquisizione graduale di un proprio modo di essere e di sperimentarsi in modo vitale e creativo, va incontro ad una svolta cruciale in adolescenza, quando la posta in gioco è la capacità, o l’incapacità, di accedere alla posizione di soggetto della propria vita.
Allora entrano in gioco variabili nuove ed anche gli ingredienti, che, di norma, definiscono la relazione con l’adolescente, devono fare i conti con la necessità che il setting non sia rigido. Dato che il rapporto con il paziente giovane implica necessariamente l’incontro con tutto quello che la famiglia rappresenta e che questo coinvolgimento intensifica la trama del racconto e ne arricchisce l’intreccio, il concetto di duttilità diviene una caratteristica intrinseca e fondativa del lavoro di cura.
La variabile soggettiva del terapeuta, nella posizione di persona e rispetto alla propria adolescenza, si configura come condizione necessaria per la definizione di una geografia del campo terapeutico in cui si installa la cura e di cui il setting è espressione, fino all’ampliarsi dello scenario a vantaggio della cura stessa.
La costituzione del setting con l’adolescente, quindi, non può che subire l’influenza della soggettività del terapeuta, della sua posizione personale, della sua formazione, con la sua propria costellazione di difese ed angosce, con una sua “insatura sensibilità/curiosità” (Maltese, 2005, p. 113) verso la sua stessa adolescenza, con l’esperienza acquisita (Roussilion, 1995), professionalmente e non.
Si definisce quindi un percorso-processo che si sviluppa a partire dal progetto terapeutico per poi scorrere parallelamente ad esso e che riguarda anche il terapeuta ed il suo modo di pensare il setting, di realizzarlo o di modificarlo nel corso della cura.
La natura dinamica del concetto di setting, specie con adolescenti, modulato sulle richieste e sulle possibilità del ragazzo ma anche della sua famiglia, si fonda sulla capacità del terapeuta di avere dentro ben saldo il proprio setting, per cui ben oltre i vincoli di spazio, tempo e presenza di terapeuta-paziente, oltre i confini della stanza di terapia, il setting diviene “l’area generativa del discorso d’aiuto” (Baldini, 2005, p. 107).
In tal senso è, esso stesso, sede di processi trasformativi, area di scambio, di transito in cui co-determinare un campo comune (Baranger, 1990), dove si incontrano gli attori della terapia con i loro affetti passati e presenti. L’idea di setting, inteso come condizione preliminare che consente l’esistere di un campo mentale, matura da una riflessione antropologica: esso affonda le radici in un terreno socio-culturale e germoglia in un ambiente fisico-umano che definisce con le sue caratteristiche, il margine per cui il disagio psicologico può risolversi oppure cronicizzarsi.
In questa prospettiva il lavoro terapeutico viene concepito come “presa in carico della multi-appartenenza” del paziente ai diversi campi di vita e ai differenti luoghi e tempi fondativi della sua personalità: famiglia, gruppo sociale ristretto e allargato (D’Elia, 1988).
Se rendere più complesso il setting per semplificare il percorso di terapia può suonare come una contraddizione in termini, oppure un facile gioco di parole, in realtà è solo un buono spunto di riflessione nato dal pensiero delle difficoltà e delle insidie che si incontrano se si procede, nel tracciare le coordinate di un progetto terapeutico, ignorando che l’esistenza psichica è garantita anche dall’appartenenza attuale alle relazioni familiari.
Al contrario se si intende il paziente come una persona nel suo “essere-in-relazione”, la cui identità è anche il frutto dello scambio tra generi, generazioni e stirpi, è necessario ammettere che esiste un’ “anteriorità ontologica dei legami di appartenenza familiare e culturale rispetto al mondo rappresentazionale” (Cigoli, 2006, p. 35). Per questo può diventare cruciale, nel pensare la terapia con un adolescente, rivolgersi al mondo dei legami, creare spazi di rappresentazione scenica che permettano l’accesso al corpo familiare (Cigoli, 2006).
Inoltre, più che fermarsi all’intreccio delle trame e degli scambi generazionali, o al riconoscimento della loro verità affettivo-etica, diventa utile mettersi alla ricerca di una pluralità di senso (Cigoli, 2006), rifigurare le relazioni, restituire loro la complessità, agire in favore del legame, andando alla riscoperta, nella praxis familiare, delle ritualità, della mitologia, per costruire uno spazio transizionale.
In questo senso la scelta di utilizzare setting di cura diversi e mobili, cui far corrispondere, attraverso la matrice di interconnessione tra campo gruppale familiare e campo terapeutico, una nuova possibilità di mobilitazione delle risorse del paziente, come dei suoi familiari, può permettere di recuperare un organizzatore mentale della gruppalità verso il sociale.
Così anche il setting diviene, in questa nuova luce, un dispositivo che “deve essere mobile ed aperto a rapide variazioni a seconda dell’emergere della necessità di coinvolgere persone significative del mondo relazionale del paziente […]” perché “[…] il significante mentale <mobilità> diventi operatore psichico di nuove connessioni” (Pontalti, 1998, p. 19).
Ogni possibilità terapeutica richiede il suo progetto e soprattutto “una estrema duttilità di gestione sull’interfaccia del campo terapeutico e del campo familiare” (Pontalti, 2000, p. 47), nutrendosi della complessità di un itinerario che deve continuamente ripensare se stesso interrogandosi sulla pensabilità dei passaggi e dei movimenti psichici proposti al paziente.
Sintonizzarsi sulle possibilità della rappresentabilità psichica del paziente o dei familiari che entrano nel campo terapeutico significa marcare psichicamente i transiti evolutivi e co-evolutivi che la terapia dovrebbe preparare. Significa individuare i punti di ancoraggio, andando alla scoperta dei codici di significazioni che consentano di collocarsi, in modalità mobile, nell’interspazio di connessione tra un qui e un altrove, definendo nuovi codici di trasduzione tra una territorialità psichica e l’altra.
Questa prospettiva risulta vantaggiosa specie nel caso di adolescenti ‘separati’, ovvero figli di genitori separati, spaccati a metà e spesso, incapaci di ricomporre la scissione, paralizzati tra un prima e un dopo temporale cui facilmente corrisponde un blocco tra un dentro e un fuori geografico-spaziale, oltre che psicologico. Nel caso di questi adolescenti e delle loro famiglie, simbolicamente e fisicamente separate all’inizio e poi “sparpagliate” tra case, città e/o famiglie diverse, diviene necessario salvaguardare la cura del legame anche in presenza di un patto coniugale violato, attraverso la presentificazione di corpi familiari, non solo delle loro valenza rappresentazionali, e, con essi, delle loro storie di legami intergenerazionali.
A volte può essere fondamentale, allora, il recupero di luoghi e tempi passati, di volti in un altrove che è anche la storia delle ultime generazioni della famiglia. Inoltre ripensare i possibili transiti verso appartenenze del passato permette anche di lavorare su altre transizioni: per i genitori, dalla propria storia coniugale di coppia ad altre possibili storie di relazione; per l’adolescente, dal gruppo familiare ad altri gruppi nel sociale, dalla stanza di terapia, al mondo fuori.
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BIBLIOGRAFIA:
- Baldini, T., (2005). La costruzione del setting. In P. Carbone (a cura di). Adolescenze. Roma: MaGi.
- Baranger, W., e Baranger, R., (1990). La situazione psicoanalitica come campo bipersonale. Milano: Raffaello Cortina.
- Cahn, R., (2000). L’adolescente nella psicoanalisi. Roma: Borla.
- Cigoli, V., (1992). Il corpo familiare. Milano: Franco Angeli.
- Cigoli, V., (1998). Il legame disperante. Una ricerca psicosociale sulla famiglia divorziata. In M. Andolfi, C. Angelo, C. Saccu, (a cura di) La coppia in crisi. Roma: ITF.
- Cigoli, V., (2000). Relazione tra generazioni e disturbi di personalità: quale legame? in Gruppi. 2, 25-33. Roma: Franco Angeli.
- Cigoli, V., (2006). L’albero della discendenza. Clinica dei corpi familiari. Milano: Franco Angeli.
- D’Elia, L., (1998). La comunità psicoterapeutica residenziale e il suo campo mentale, in Interazioni. 2 (2) -12, Roma: Franco Angeli.
- Maltese, A., (2005). Controtransfert e setting. in P. Carbone, (a cura di). Adolescenze. Percorsi di psicologia clinica. Roma: Edizioni Magi.
- Pontalti, C., (1998). I campi multipersonali e la costruzione del progetto terapeutico. In M. Ceruti, G. Lo Verso (a cura di). Epistemologia e psicoterapia. Complessità e frontiere contemporanee. Milano: Raffaello Cortina.
- Pontalti C., (2000). Campo familiare-campo gruppale: dalla psicopatologia all’etica dell’incontro. In Gruppi. 2(2): 35-50, Roma: Franco Angeli.
- Roussillon, R. (1995). Il setting psicoanalitico. Roma: Borla.