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Le pillole della felicità. Dal Miltown al Prozac, di David Herzberg (2014) – Recensione

Questo volume racconta la nascita e lo sviluppo degli psicofarmaci, a partire dagli anni 50, con un occhio di riguardo agli aspetti sociali del fenomeno

Di Gaspare Palmieri

Pubblicato il 13 Mar. 2015

L’intento di base dell’autore è quello di fare comprendere la complessità del fenomeno psicofarmacologico, che esce dai confini dei laboratori, degli ambulatori e delle cliniche psichiatriche, coinvolgendo aspetti commerciali, sociali e addirittura politici.

Questo volume, scritto da uno storico della medicina e che ha la prefazione di Paolo Migone, racconta la nascita e lo sviluppo degli psicofarmaci, partire dagli anni 50, con un occhio di riguardo agli aspetti sociali del fenomeno.

Nella prima parte del libro viene analizzata la grande diffusione tra gli anni Cinquanta e Settanta di farmaci ansiolitici come il Miltown (meprobamato) e il Valium (i cosiddetti farmaci blockbuster) e la loro conseguente decadenza causata dai problemi della dipendenza. Nella seconda parte si parla degli inibitori selettivi del reuptake della serotonina (SSRI) e in particolare del celeberrimo Prozac, che negli anni Ottanta portò una ventata di fiducia nella psichiatria biologica, con un modello di individuo rampante e produttivo, molto funzionale a quel periodo.

Fanno riflettere a questo riguardo le pubblicità degli psicofarmaci riportate nel libro, che hanno quasi sempre come protagoniste donne bianche e sorridenti del ceto medio, principale obiettivo di mercato e che consumavano psicofarmaci in misura doppia rispetto agli uomini. Mentre tra i maschi lo psicofarmaco poteva mettere in discussione un’immagine di virilità, le casalinghe americane sono state tra le principali consumatrici di ansiolitici, proprio per tollerare la frustrazione della vita domestica e questo causò forti campagne di critica da parte dei movimenti femministi, che sostenevano che la risposta al disagio doveva comprendere il cambiamento del ruolo sociale femminile e non poteva essere l’assunzione di pillole.

L’analisi storica del libro contiene un parallelismo interessante tra diffusione degli psicofarmaci e delle droghe d’abuso. All’inizio l’ansia era considerata un segno di complessità psicologica e di intelligenza, che colpiva i ceti più alti della società, in particolare i colletti bianchi e che quindi legittimava un uso molto disinvolto degli psicofarmaci. Questo si contrapponeva al crescente fenomeno della diffusione delle droghe illegali, che interessava invece soprattutto le categorie sociali più disagiate. I due fenomeni trovarono un punto d’incontro quando gli ansiolitici come il Valium vennero inclusi nella lista delle sostanze d’abuso dalla Food and Drug Administration.

L’intento di base dell’autore è quello di fare comprendere la complessità del fenomeno psicofarmacologico, che esce dai confini dei laboratori, degli ambulatori e delle cliniche psichiatriche, coinvolgendo aspetti commerciali, sociali e addirittura politici (interessante l’aneddoto del coming out sulla dipendenza da ansiolitici da parte di Betty Ford, moglie del presidente degli Stati Uniti).

L’immissione sul mercato di una nuova molecola pare avere una sorta di schema ripetitivo, che non si ritrova con i farmaci non psichiatrici, che prevede una fortissima aspettativa iniziale (quasi miracolosa) a cui segue un progressivo ridimensionamento della sostanza, fino ad arrivare alla demonizzazione con tanto di crociata popolare. D’altra parte, al giorno d’oggi è davvero difficile trovare qualcuno che per esperienza diretta o indiretta non abbia una sua opinione personale sulle pillole della felicità…

 

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