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L’Errore fondamentale di attribuzione

Errore fondamentale di attribuzione: la generalizzazione di un comportamento non oggettivamente riscontrabile, che induce conclusioni non veritiere.

Di Francesca Fiore

Pubblicato il 11 Mar. 2015

Aggiornato il 10 Mar. 2017 16:11

Comunemente capita di formulare delle valutazioni generali su comportamenti e gesti osservati in assenza di dati oggettivi. In questo modo possono essere elaborati dei modelli generali di funzionamento, stereotipi o pregiudizi, che aiutano a spiegare la realtà. Il più delle volte nell’effettuare questo processo si compiono degli errori di ragionamento, ovvero generalizzazione di un comportamento non oggettivamente riscontrabile, che inducono a conclusioni non veritiere. Questo processo è chiamato errore fondamentale di attribuzione.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

L’errore fondamentale di attribuzione, noto in psicologia sociale anche come “errore di corrispondenza“,  rappresenta la tendenza sistematica ad attribuire la causa di un comportamento, di un altro individuo, tendenzialmente alla sua personalità o al modo di essere (attribuzione disposizionale), sottostimando l’influenza che l’ambiente o il contesto potrebbe avere nel determinare tale comportamento (attribuzione situazionale).

Quindi, l’errore fondamentale di attribuzione consiste nel far corrispondere in maniera sistematica le cause di un comportamento umano alle caratteristiche personologiche del singolo individuo piuttosto che alle condizioni esterne. Per questo, se osserviamo una persona agire in un determinato modo siamo portati a pensare che quel gesto attuato sia frutto del suo temperamento o carattere, dei suoi pregi o dei suoi difetti.

Chiaramente, le circostanze esterne giocano sempre un ruolo attivo nell’influenzare le azioni e i comportamenti comunemente utilizzati. L’attribuzione della causa di un fenomeno dipende sempre dal punto di vista che si assume nell’osservare quel determinato fenomeno.  Quindi, se il giudizio è espresso da chi agisce l’azione, allora si pone l’attenzione sul pubblico e sulle condizioni esterne, se invece è una persona esterna che formula un giudizio allora si traggono conclusioni basandosi sulla persona senza considerare il contesto.

Tendenzialmente, le attribuzioni interne o disposizionali, sono volte a mantenere alta l’autostima in caso di successo personale, al contrario se si ottenesse un insuccesso si attribuirebbe la causa alla situazione.

Ad esempio, se Maria osserva Michele cadere dalla bici, lo considera non capace di guidarla (attribuzione disposizionale). Se invece fosse lei stessa, Maria, ad andare in bici e cadere tenderà ad attribuire la causa dell’accaduto alla bici che non funziona adeguatamente o alla strada che è troppo dissestata (attribuzione situazionale).

 

L’Attribuzione causale secondo Fritz Heider

Fritz Heider per primo studiò i processi di attribuzione.  Egli partì dalla psicologia del senso comune o psicologia ingenua, per individuare i principi, utilizzati per rappresentare l’ambiente sociale, che guidano le azioni. Secondo la psicologia del senso comune l’uomo è in grado di padroneggiare la realtà compiendo delle previsioni sulle situazioni. Per questo ogni individuo può riprodurre comportamenti specifici, in determinate condizioni, dotandoli di una certa stabilità. I comportamenti stabili regolano la messa in atto delle azioni e dei rapporti con gli altri. Il riuscire a raggiungere la stabilità, dunque, induce alla ricerca delle cause di quanto si verifica intorno a noi compiendo delle attribuzioni di causalità.

L’attribuzione causale consiste nell’individuare le spiegazioni del proprio o dell’altrui comportamento, da cui inferire e generalizzare le cause che sono alla base di specifiche azioni.

Per comprendere le ragioni di un determinato comportamento bisogna, in primis, individuare qual è la natura della causalità distinguendo fra cause personali o interne – come la motivazione o l’abilità- e cause ambientali o esterne – come la difficoltà del compito o la fortuna. Entrambi i tipi di cause possono essere determinati da fattori transitori o permanenti.

Colui che deve individuare la causa di un determinato avvenimento o comportamento effettua una  ricostruzione dello stesso tramite delle deduzioni logiche che partono da premesse per giungere alla constatazione su un fatto (inferenze). L’attribuzione causale è un insieme di schemi e processi cognitivi che gli individui utilizzano per spiegare la causa del comportamento proprio ed altrui.

 

La teoria dell’inferenza corrispondente di Jones e Davis

Secondo Jones e Davis una certa azione messa in atto da un individuo è causata da tratti di personalità (disposizioni) specifici di colui che agisce. Le caratteristiche di personalità sono considerate stabili e durature, quindi conoscerle adeguatamente potrebbe permettere di prevedere il comportamento agito da persone che presentano specifici tratti.

Dunque,  il comportamento messo in atto da una persona è sicuramente influenzato dal carattere e dalla personalità, ma bisogna prestare attenzione anche ad altre variabili intervenienti che potrebbero comprometterne gli esiti: la volontarietà, se è un gesto è spontaneo o imposto; gli effetti non comuni, se ci possono essere delle conseguenze positive o negative rispetto all’azione esercitata; la desiderabilità sociale, se si violano alcune norme sociali; le aspettative non solo di chi produce l’azione ma anche di chi la riceve.

Dopo aver messo in atto un comportamento o azione è possibile, di conseguenza, ricavarne dei modelli di funzionamento generale che regolano e spiegano il comportamento specifico. Questo processo prende il nome di inferenza.

 

Il modello della covariazione di Kelley: ANOVA (Analysis of Variance)

Le inferenze, generalizzazioni di comportamenti, dipendono da fattori come la vicinanza, la contiguità tra causa ed effetto, la percezione della forza delle connessioni causa ed effetto e la loro specificità; queste condizioni portano l’individuo a indicare, in maniera oggettiva, in una azione sia l’agente sia le conseguenze. Secondo Kelley un osservatore trarrebbe delle inferenze, su un determinato comportamento, osservandone la frequenza e la modalità di presentazione dello stesso.

Quindi, nel momento in cui si posseggono informazioni provenienti da più fonti, l’osservatore le analizzerà attraverso il principio della covariazione, verificare come variabili interne e esterne variano insieme. Il numero di volte in cui si verificano le osservazioni consente di stabilire se, e con quale probabilità, le informazioni covariano tra loro.

Kelley riferendosi alla procedura statistica analisi della varianza (ANOVA) formulò l’ipotesi secondo la quale i cambiamenti di una variabile dipendono (l’effetto) dalle modificazioni della variabile indipendenti (condizioni)

Quindi, le informazioni saranno valutate riferendosi a tre dimensioni:

1. distintività: quando si verifica l’effetto tra variabile dipendente e indipendente

2. coerenza nel tempo e nelle modalità: quali sono le caratteristiche dell’effetto tra le due variabili

3. consenso: riproducibilità dell’effetto a parità di condizioni.

 

Bias

Le persone comuni, però, al di là delle teorie citate non utilizzano per trarre conclusioni dei modelli dettagliati e formali, ma giungono rapidamente a conclusioni servendosi di poche informazioni e di scorciatoie mentali. Chiaramente questa modalità porta, inevitabilmente, a compiere degli errori di attribuzione.

Gli errori fondamentali di attribuzione, dunque, o bias sono delle modalità di giudizio distorte in maniera sistematica, che consentono di descrivere le azioni o comportamenti.

Questi bias sono molto utilizzati per spiegare delle dinamiche sociali o di gruppo derivanti da errori di ragionamenti che alla lunga portano alla formulazione di veri e propri pregiudizi o stereotipi.

Quindi, un comportamento negativo di un individuo appartenente al proprio gruppo sociale è, tendenzialmente, attribuito a fattori situazionali. Mentre, i fattori disposizionali sono ritenuti imputabili al comportamento negativo di un membro di un gruppo sociale a cui non si appartiene. Secondo Pettegrew, in questo caso, si parla di errore di attribuzione per eccellenza ed è compiuto dai membri di categorie appartenenti a specifici gruppi sociali.

Così facendo è possibile formulare un vero e proprio pregiudizio o stereotipo, generalizzazione di preconcetti sociali che possono condizionare la percezione della realtà e produrre comportamenti coerenti con le aspettative che si hanno su se stessi e che, a loro volta, influenzeranno i comportamenti sociali. A esempio, le differenze di genere nell’assunzione di ruoli di potere o di rilievo sociale, sono attribuiti principalmente agli uomini, perché si ritengono più abili e capaci rispetto alle donne.

Per capire meglio cosa porta alla formulazione di uno stereotipo è necessario parlare della profezia che si autoavvera: un’aspettativa o profezia, razionale o meno, che può suscitare nel soggetto un comportamento in grado di trasformare la realtà e confermare le attese. A esempio pensare che il proprio compagno/a possa tradire induce a compiere una serie di comportamenti controllanti che faranno sentire l’altro ingabbiato e sicuramente, alla lunga, cercherà fuori dalla relazione qualcosa di più leggero da fare. Per questo, le azioni compiute  per prevenire un comportamento, in alcune situazioni, portano alla manifestazione proprio del comportamento temuto, che induce alla formulazione di un giudizi generali di funzionamento sociale.

Quindi, prima di formulare un giudizio è necessario sempre considerare lo scarto tra osservatore ed attore e utilizzare la logica per evitare di attuare dei preconcetti o scorciatoie mentali che portano a offuscare la mente e confermare teorie fallaci.

 

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Castelli, L. (2004). Psicologia Sociale Cognitiva. Editori Laterza, Bari.
  • Heider F., (1958) The Psychology of Interpersonal Relations. Wiley, New York.
  • Kelley H.H., Michela J.L., Attribution Theory and Research. Annual Review of Psychology, 1980, 31, 457-501.
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