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Differenze di genere in ambito scientifico: natura vs cultura

Pinker e Spelke si confrontano rispetto alle differenze di genere in ambito scientifico e riportano studi sui fattori biologici e sociali che le determinano

Di Diego Moriggia

Pubblicato il 05 Gen. 2015

Aggiornato il 27 Ago. 2019 12:36

Diego Moriggia, OPEN SCHOOL.

 

L’articolo mette a confronto il punto di vista di 2 studiosi, Pinker e Spelke rispetto alle differenze esistenti tra maschi e femmine in particolare rispetto alle abilità scientifiche e si riporta una serie di evidenze scientifiche a supporto dell’idea che siano i fattori biologici o quelli culturali e sociali a determinare tali differenze, ma la risposta risulta ancora controversa. 

Il 22 gennaio 2005, Lawrence Summers – rettore dell’Università di Harvard – si espresse, in maniera piuttosto netta, sul perché posizioni di vertice accademico in ambito scientifico siano occupate maggiormente da uomini; ebbene, Summers dichiarò che non v’è alcuna ragione da attribuire ad eventuali discriminazioni delle carriere e la causa principale, invece, dev’essere cercata nelle differenze genetiche presenti tra maschi e femmine nel ragionamento scientifico. In altre parole, i maschi sono naturalmente più portati delle femmine nell’avere successo in ambito scientifico.

Com’è possibile immaginare, la dichiarazione portò con sé numerose polemiche di carattere discriminatorio; tuttavia, se da un lato le discussioni erano floride sul solo tema della discriminazione di genere, dall’altro regnava silenzio proprio nella comunità scientifica, restia a spendere opinioni al riguardo.
Pertanto, pochi mesi dopo la stessa Università di Harvard organizzò un dibattito di approfondimento, con protagonisti due tra i più autorevoli pensatori della psicologia contemporanea: Steven Pinker, docente alla facoltà di psicologia di Harvard e grande studioso dell’acquisizione del linguaggio nell’uomo, ed Elizabeth Spelke, anch’essa docente ad Harvard ed eminente ricercatrice nell’ambito dello sviluppo cognitivo. I punti di vista dei due studiosi, come avremo modo di vedere, si riveleranno simili in alcuni punti (è opportuno precisare che entrambi appartengono alla corrente idelogica chiamata “innatismo”, la quale sostiene che gli esseri umani nascano già con un corredo di abilità primordiali e predisposizioni specifiche allo sviluppo) e distanti in altri.

Pinker

Possiamo considerare, secondo Pinker, tre posizioni che ci aiuterebbero a spiegare l’esigua rappresentanza femminile nelle posizioni di vertice accademico in materie scientifiche. Secondo l’ottica naturalista, solamente i maschi posseggono talento e temperamento necessario per lavorare in ambito scientifico; in ottica culturalista, maschi e femmine sono biologicamente indistinguibili, le differenze rilevanti sono prodotto dell’ambiente circostante; per concludere, l’ottica intermedia direbbe che la differenza può essere spiegata da discrepanze biologiche che, in ogni caso, interagiscono con il sistema ecologico.

Ma quali sarebbero esattamente queste differenze tra i due generi? Possiamo immaginare anche delle somiglianze? Rispondendo a questa ultima domanda, sicuramente sì: maschi e femmine non mostrano differenze per quanto riguarda l’intelligenza generale (altrimenti chiamata fattore g) e riferendosi alle categorie base della cognizione (rapporto con il mondo circostante, concezione dei numeri, rappresentazioni degli oggetti, delle persone) è ugualmente possibile non osservare alcuna disparità. Osserviamo differenze – invece – in altri ambiti: l’andamento è comunque variabile, avendo occasioni in cui i maschi sono leggermente meglio delle donne (rotazione mentale degli oggetti) e viceversa (memoria visiva); ancora, le femmine sono più abili nel calcolo matematico e gli uomini nel problem solving.

Tuttavia, possiamo elencare alcune differenze che giocano un ruolo chiave nel dato in oggetto:
Uomini e donne differiscono nei cosiddetti obiettivi di vita; in altre parole, è più probabile che i maschi possano inseguire obiettivi lavorativi sacrificando la famiglia, mentre le femmine mostrano un comportamento più equilibrato. Lo studio di Benbow e collaboratori (Benbow et al., 2000), basato su un campione di 1729 giovani (maschi e femmine) con abilità matematiche particolarmente spiccate e seguiti in follow-up per più di vent’anni, dice che, a parità di talento, risultati ottenuti e soddisfazione percepita, le femmine prestano maggior attenzione ad aspetti come vicinanza ai propri genitori e famigliari e qualità di amicizie e legami; i maschi, d’altro canto, son sembrati più orientati verso scopi carrieristici, remunerativi ma anche creativi.

Interessi lavorativi. Lavorativamente parlando, si è più interessati alle persone o alle cose? La grande mole di dati proveniente dagli studi sugli interessi professionali dice che la percentuale di donne interessate ad un lavoro che implichi lungo contatto con cose fisiche è significativamente minore rispetto a quella degli uomini, pur essendo, in assoluto, molto aumentata negli ultimi quarant’anni; la differenza è osservabile persino tra le diverse specializzazioni scientifiche, per ulteriori informazioni si vedano i lavori di Goldin (1990) e Browne (2002).

Assunzione di rischi. Il genere maschile è quello più spericolato. Byrnes, Miller e Schafer (1999) hanno condotto al riguardo una meta analisi su 150 studi e osservando che i maschi sono sovra-rappresentati in quattordici, su sedici totali, categorie che definiscono l’assunzione di rischi (nelle due rimanenti i generi sono equamente rappresentati, una di queste è relativa al fumo).

Trasformazioni mentali di oggetti a tre dimensioni. Una meta analisi condotta su 286 campioni di dati evidenzia consistenti e stabili differenze tra i generi. Come si è già detto, in alcuni compiti di abilità spaziale le donne sono avvantaggiate, mentre i maschi recuperano in altri (rotazione mentale, percezione dello spazio, visualizzazione dello spazio; Voyer, Voyer, & Bryden, 2005). Potremmo chiederci: che attinenza hanno questi risultati con la capacità di raggiungere risultati in ambito scientifico? Studi psicometrici (Geary, 1996) mostrano una correlazione significativa di queste abilità con il problem solving matematico. Inoltre, brillanti abilità di manipolazione mentale degli oggetti sono rintracciabili negli scritti di alcuni dei più prolifici pensatori: Faraday, Maxwell e Tesla hanno sostenuto di esser giunti alle loro scoperte per mezzo di quest’abilità, trascritte solo successivamente in forma di equazione.

Ragionamento matematico: ragazze e donne hanno migliori voti scolastici in matematica, ma anche in altre materie; in più, sono maggiormente abili nel calcolo matematico, mentre i maschi totalizzano punteggi più alti nei compiti di ragionamento matematico. Per meglio chiarire la questione, ci appelliamo ancora ai risultati di una meta analisi, con 254 studi e più di tre milioni di partecipanti (Hyde, Fennema, & Lamon, 1990): le differenze tra genere sono nulle nell’infanzia, aumentano lievemente nella pubertà per poi ampliarsi in adolescenza ed età adulta. [Nota: parte di questi risultati sono ottenuti confrontando i risultati ottenuti al test SAT (Scholastic Assessment Test); l’attendibilità di questi test è tuttavia criticata da alcuni ricercatori, tra cui la stessa Spelke.]

Ora, aver accennato all’esistenza di queste differenze tra generi non implica l’assunzione a priori della loro origine innata; del resto, quantificare il reale contributo di uno o più fattori biologici nello sviluppo di abilità matematiche è decisamente complesso. Pinker, tuttavia, considera l’esistenza di dieci evidenze scientifiche di difformità intergenere, che potrebbero costituire una base (seppur labile) di differenziazione biologica.
Esiste, tra uomini e donne, una grande differenza a livello di ormoni sessuali, specie nel periodo prenatale, nei primi sei mesi di vita ed in adolescenza (per i quali il cervello umano dispone di una moltitudine di specifici recettori, anche nella corteccia); differenze più piccole sono riscontrate, a livello anatomico, nella dimensione globale dell’encefalo, nella densità neuronale della corteccia, nella dimensione dei nuclei ipotalamici e parecchi altri.

Gran parte delle differenze tra genere sono universali; Donald Brown, nel suo Human Universals (1991), sottolinea che in tutte le culture le femmine sono più direttamente coinvolte nella cura della prole, mentre i maschi mostrano maggior inclinazione alla competitività (in varie misure).

Le differenze sono stabili nel tempo: revisioni della letteratura su temi come personalità ed interessi di vita hanno evidenziato piccoli o nulli cambiamenti nelle due generazioni che hanno raggiunto la maggiore età durante la seconda ondata femminista (Feingold, 1994; Browne, 2002). In compiti di rotazione mentale degli oggetti, Voyer (2011), nella sua meta-analisi, non riscontra nessun cambiamento nel tempo; mentre Hyde, Fennema & Lamon (1990) rilevano, nel ragionamento matematico (e nel corso del tempo), minor differenza tra maschi e femmine.
Alcune delle differenze sopracitate (tendenza alla cura della prole nelle femmine e tendenza all’aggressività nei maschi) sono riscontrabili in altre specie di mammiferi; all’interno dell’ordine dei primati, alcune specie prediligono interazioni con oggetti anziché con conspecifici.

Alcune delle diversità emergono entro la prima settimana di vita: le femmine reagiscono con maggior distress agli stimoli acustici e sono capaci di mantenere contatto visivo più a lungo dei maschi (Baron-Cohen et al., 2004). Più avanti nello sviluppo, alcune differenze divengono vieppiù robuste; si parla dei già citati stili di gioco e d’interazione con gli oggetti, ma anche della capacità di considerare la mente altrui (le femmine sembrano più abili nella soluzione del “false belief task”, ma anche più inclini a comprendere gli stati mentali di personaggi inventati; Baron-Cohen, 2003).

 

Bambini cresciuti come bambine: il caso “John/Joan” (Colapinto, 2000).

Negli anni ’70, un bambino (membro di una coppia di gemmelli omozigoti) perse il proprio pene in seguito ad un approssimativo intervento di circoncisione; i genitori, forti del parere di un luminare dell’epoca, decisero di castrarlo e che gli venissero somministrati specifici ormoni sessuali femminili, perché potesse essere cresciuto come una bambina. Questo caso è stato a lungo citato per rafforzare la teoria che vede i ruoli di genere come socialmente acquisiti. In realtà, il ragazzo (ormai cresciuto) venne intervistato anni dopo e si scoprì che nella sua infanzia, comunque, esibiva stili di gioco propri del genere maschile, rigettando attività “femminili” e mostrando molto più interesse negli oggetti piuttosto che nelle cose.
Gli insegnanti, a lungo imputati di promuovere differenze di considerazione e riconoscimento tra maschi e femmine, in realtà hanno un’idea equilibrata della loro performance scolastica (Lytton & Romney, 1991); anzi, pare che la percezione sui propri studenti derivi proprio dalla loro (degli studenti) motivazione allo studio e dalle loro prestazioni (Jussim & Eccles, 1995).

Il ruolo degli ormoni prenatali: vi sono evidenze, invero un po’ deboli in alcune parti, relative al fatto che differenze quantitative di ormoni sessuali prenatali determinano, nel corso dello sviluppo, significative discrepanze intragenere. Si pensi, ad esempio, alle femmine affette da iperplasia surrenale congenita: viene loro somministrato un trattamento a base di androgeni quando ancora sono nell’utero e, anni più avanti, le medesime bambine esibiscono un comportamento più orientato alla sfera maschile rispetto a quella femminile (Berenbaum, 1999; Collaer & Hines, 1995).

Il ruolo degli ormoni sessuali: nonostante la letteratura sia piuttosto confusa, è stato possibile osservare che, nei maschi, livelli di testosterone medio-bassi sono predittivi di maggiori abilità spaziali, come la rotazione mentale di oggetti (Kimura, 2000; Hines, 2004).

L’imprinting genetico e il ruolo del cromosoma X. Nello specifico quadro clinico chiamato Sindrome di Turner, la bambina (la sindrome ha incidenza sulla sola popolazione femminile) possiede un solo cromosoma X che può essere trasmesso sia dalla madre che dal padre; in accordo con la teoria dell’imprinting genetico (Haig, 2011), quando ella eredita un cromosoma X dalla madre, avrà mediamente un lessico più ampio, migliori abilità sociali e migliore capacità di leggere emozioni.

In definitiva, Steven Pinker vuole, quindi, portarci a considerare l’effetto incrociato della componente biologica e dell’ambiente sullo sviluppo di un individuo, avendo però cura di sottolineare che, alla base, esistono delle diversità intergenere ben specifiche, che tuttavia non indirizzano in alcun modo lo sviluppo in una direzione piuttosto che in un’altra; concetto che, trasposto all’oggetto del contendere (sottorappresentaione femminile nel mondo scientifico) vuol significare medesima possibilità di sviluppare abilità specifiche pur partendo da un biologismo leggermente diverso in alcuni casi e parecchio diverso in altri.

 

Spelke

L’argomentazione di Spelke muove dal presupposto per cui la forza che genera questa discrepanza è da attribuirsi principalmente a questioni sociali, preoccupandosi prima, però, di discutere due affermazioni coinvolte nella credenza che tratteggia gli uomini come naturalmente predisposti alle materie scientifiche.

“I maschi, a partire dalla nascita, sono maggiormente interessati agli oggetti, le femmine alle persone: ciò spinge i maschi verso la scienza e le femmine verso obiettivi sociali.”
Questo punto di vista, precedentemente menzionato da Pinker, sta guadagnando credito dopo il lavoro pubblicato da Simon Baron-Cohen (2004) e con titolo “The essential difference: the truth about the male and female brain”: all’interno, l’autore distingue due abilità specifiche per maschi e femmine. I maschi, parrebbero presentare innate predisposizioni per apprendere il funzionamento degli oggetti e coglierne l’aspetto meccanico; questo li porterà ad essere quelli che lui chiama “sistematizzatori”.
Dall’altra parte, le femmine sembrerebbero innatamente avvantaggiate ad apprendere emozioni umane e ciò le porterà ad essere “empatizzatrici”. Poiché la sistematizzazione è al centro del pensiero matematico e scientifico, i maschi saranno più propensi a sviluppare abilità scientifiche e matematiche.

Spelke, tuttavia, non concede grande rilievo a questo articolo (“è una vecchia idea, solo proposta in un nuovo linguaggio”), procedendo invece a chiarire quanto gli studi sulle differenze di genere hanno esplicitato nel corso degli ultimi decenni; a partire dal fondamentale lavoro di Maccoby e Jacklin (“The psychology of sex difference”, 1974) fino ai giorni nostri, essi hanno evidenziato peculiari proprietà cognitive nei bambini, relative al riconoscimento di caratteristiche di oggetti. Si scopre così che i bambini percepiscono gli oggetti fin dalla nascita, dove ne finisce uno e ne inizia un altro; a 5 mesi sono in grado di creare rappresentazioni interne dell’oggetto anche dopo la sua scomparsa, confutando i dati ottenuti da Piaget sulla costanza dell’oggetto; sono capaci di produrre inferenze sul movimento degli oggetti e sulle loro interazioni meccaniche. In nessuno di questi ambiti, i ricercatori hanno rilevato significative differenze di genere: maschi e femmine sono ugualmente interessate agli oggetti, producono le medesime inferenze sul loro movimento e nelle stesse fasi dello sviluppo (Baillargeon, 2004; Spelke, 1990). In altre parole, maschi e femmine apprendono le stesse cose allo stesso tempo; inoltre, le conclusioni di Maccoby e Jacklin sono tutt’ora attuali e veritiere.

“I maschi sono naturalmente portati per matematica e scienze”
Le ricerche convergenti di varie aree quali neuroscienze, neuropsicologia e psicologia dello sviluppo cognitivo hanno evidenziato 5 domini chiave che stanno alla base del ragionamento matematico:

Gli umani sviluppano, a partire dai 5 mesi di vita, un sistema che rappresenta piccole quantità: in altre parole, la differenza tra uno, due e tre.
Sempre in prima infazia (4/5 mesi), si acquisisce la capacità di cogliere la differenza di numerosità tra grandi gruppi di oggetti.
Tra i due anni e mezzo di vita e i quattro, i bambini apprendono una capacità cruciale (e, probabilmente, unica in tutto il regno animale): associare la numerosità alla forma verbale.
Non appena i bambini acquistano autonomia di spostamento, osserviamo la nascita di sistemi di supporto all’orientamento: riescono a rappresentarsi la conformazione dell’ambiente circostante, nonché la possibilità di distinguere i confini degli oggetti.

Tutti i sistemi soprastanti sono stati studiati largamente in ampie quantità di maschi e femmine e, ancora, in nessuno di questi è stata notata alcuna differenza di genere.
Aiutiamoci con i dati provenienti da due studi. Nel primo (Condry & Spelke, 2008), i ricercatori ci mostrano che, a fronte di una grande variabilità nella capacità di concettualizzare i numeri naturali entro i due ed i quattro anni di vita, non vi appartiene alcuna superiorità dimostrabile dei maschi, nei confronti delle femmine.

Nel secondo (Lee, Shustermann & Spelke, 2006), una sorta di corrispettivo prescolare del compito di rotazione mentale, si testava nei giovani partecipanti la capacità di ri-orientamento in seguito ad un apposito disorientamento. Anche qui, nessuna differenza di genere. Questi risultati ci portano a concludere che gli umani sono innatamente dotati di specifici sistemi che governano il ragionamento matematico e, in particolare, che questi sistemi si sviluppano equamente in maschi e femmine. Le differenze emergono più avanti nello sviluppo; ma di che tipo di differenze si parla? Le differenze, per quanto di eziologia sconosciuta, sono state rilevate in ambito verbale (maschi più forti nelle analogie verbali, femmine nella fluenza), matematico (femmine più portate nel calcolo, maschi nel ragionamento) e spaziale (femmine più dotate nel riconoscimento degli oggetti nello spazio, maschi più abili nella rotazione mentale. Potremmo chiederci, a questo punto: le peculiarità cognitive dei maschi garantiscono un migliore apprendimento matematico? Non precisamente. Gallagher e Kaufman (2005) scrivono che nell’arco dell’high school (l’equivalente delle nostre scuole superiori) le femmine scelgono quasi la metà dei corsi di matematica, ottenendo migliori voti. Nel percorso universitario, il 47% di lauree triennali in matematica vengono assegnati a femmine, ottenendo voti equiparabili a quelli dei maschi. Citando Halpern (2000): “Maschi e femmine hanno pari talento in matematica; le differenti strategie cognitive di un genere rispetto all’altro non conducono ad alcuna sostanziale differenza.”

Spelke, avendo fornito argomentazioni sufficienti a mettere in dubbio la nostra convinzione relativa ad una differente predisposizione biologica, si sofferma sui fattori sociali implicati, secondo lei ben più incisivi nell’ aver creato il supposto divario prestazionale.
Uno di questi fattori è attinente al modo in cui i genitori percepiscono i loro figli; emerge da alcuni studi (Rubin et al., 1974; Karraker et al., 1995) che i genitori di maschi “vedono” i propri figli come più forti e vigorosi rispetto ai genitori di femmine (a parità di salute globale, controllata dai ricercatori servendosi dei referti medici). Un altro studio di Mondschein (2000), condotto su bambini di 12 mesi e relativi genitori, rivela che i genitori di maschi mostravano più sicurezza dei genitori di femmine nel prevedere il successo del proprio figlio/a in un test di locomozione (anche in questo caso la letteratura conferma che a 12 mesi le capacità locomotorie sono affatto equiparabili). Salendo con l’età, studi diretti a genitori di ragazzi di 11-12 anni di vita confermano aspettative parentali più rosee verso i maschi, i quali sono idealizzati dai propri genitori come più naturalmente portati per matematica e scienze (Eccles et al., 1990; Tenebaum & Leaper, 2003).
A questo punto, abbiamo una chiara disarmonia tra quanto percepiscono i genitori dei propri figli e ciò che le ricerche testimoniano. Sarebbe lecito chiedersi: i genitori riescono a cogliere qualche aspetto che le tecniche di rilevazione sperimentale, invece, tralasciano? Per fugare questo dubbio, Spelke porta a sostegno della sua tesi uno studio (Condry & Condry, 1978) su credenze relative ai bambini e percezione degli stessi: in questo caso, si mostrava ad un gruppo di genitori un bambino sconosciuto, avente età e tratti somatici tali per cui non era possibile determinarne il genere a prima vista. A metà campione genitoriale era stato fatto credere che l’infante era un maschio (“David”), all’altra metà che era una femmina (“Jessica”). I risultati ci dicono che in caso di comportamenti non ambigui del bambino, la credenza di genere non influenzava le risposte mentre, in casi di comportamenti ambigui (es. pianto in seguito ad uno spavento) il genere aveva un effetto sulla percezione del bambino; i genitori che osservavano “Jessica” la definivano spaventata, quelli che osservavano “David” lo consideravano arrabbiato. Ciò che Spelke ritiene pregnante nel commentare questi risultati è che, nonostante un genitore possa avere le migliori intenzioni nel trattare maschi e femmine allo stesso modo, sicuramente lo stesso genitore non tratterà allo stesso modo un bambino arrabbiato e un bambino spaventato: tutto ciò porta, inevitabilmente, a far sì che maschi e femmine attiveranno diverse reazioni dal mondo circostante, diversi schemi di sostegno e incoraggiamento.
Per concludere, Spelke cita un ulteriore studio sull’etichettamento di genere (Steinpreis et al., 1999), questa volta condotto su adulti e con destinatari un campione di docenti di psicologia. A metà di questi veniva fatto pervenire un curriculum vitae di un candidato ideale, perfetto, brillante e di genere maschile; all’altra metà, stesse caratteristiche ma genere femminile. Quindi veniva fatto pervenire anche un CV di livello medio, di un candidato non improduttivo ma nemmeno eccellente; anche qui, per metà campione il genere era maschile e per l’altra metà, femminile. I risultati ci comunicano che nel caso del CV brillante non abbiamo alcun effetto di genere, ovvero un curriculum brillante è giudicato tale sia che rechi il nome di un maschio o di una femmina; nel secondo caso, invece, il candidato maschio – si noti, a parità di pubblicazioni, lezioni, corsi – è sempre considerato in maniera positiva e il candidato femmina in maniera meno positiva. Aspetto piuttosto importante dei risultati, è che i giudizi sono più o meno identici per professori maschi e professori femmine: la diversità di percezione è pari sia in maschi che in femmine, persino in persone assolutamente rispettose dell’equità tra generi.

Come è stato possibile leggere, i punti di vista dei due luminari sono – in alcune parti – piuttosto discordanti, nonostante le tesi dell’uno e dell’altro siano avvalorate da corpose evidenze scientifiche. La vena fortemente evolutiva che caratterizza questo confronto, tuttavia, lascia un “finale” indefinito, e che esprime la grande indecisione del mondo scientifico (non esclusivamente psicologico) rispetto ad uno dei temi più controversi e dibattuti: il contributo di natura e cultura allo sviluppo umano.

 

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