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L’addio silenzioso di Clotilde. Di fronte al suicidio di un paziente – Centro di Igiene Mentale – CIM Nr.14 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

Centro di Igiene Mentale: Il senso di colpa, la rabbia e la tristezza di fronte al suicidio di un paziente si mescolano a meccanismi di autoinganno

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 04 Nov. 2014

– CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #14

L’addio silenzioso di Clotilde 

 

 

– Leggi l’introduzione –

Nonostante la discrezione di Clotilde nell’andarsene come se si trattasse di uno sfortunato incidente Biagioli si rendeva conto che quel corpo sul tavolo di marmo indicava inesorabilmente che qualcosa non aveva funzionato. I meccanismi consolatori dell’autoinganno stentavano ad attivarsi, quella morte lo pervadeva e lo accusava.Era la terza volta nella sua carriera ma la prima durante una psicoterapia così lunga.

Il senso di colpa, la rabbia, la tristezza e persino un po’ di ansia si mescolavano nella sua testa in quella domenica pomeriggio tutta sbagliata. Era confuso. Il dottor Biagioli non avrebbe mai creduto di assistere personalmente a quello che Clotilde aspettava da tutta una vita, sul quale tanto avevano lavorato insieme: il riconoscimento da parte della madre.

Non era ciò che avevano auspicato. Non era quello il riconoscimento tanto inutilmente agognato. La fredda luce al neon non rendeva giustizia all’ambrato della sua pelle, ai suoi riccioli biondi con iniziali spruzzate d’argento. I tratti del volto irrigiditi e taglienti la assomigliavano ai profili decisi di certi eroi greci nelle illustrazioni dell’Iliade su cui Carlo aveva preparato la stentata maturità. Aveva l’impressione che gli sorridesse beffarda con una complicità che escludesse la madre che cantilenava singhiozzi, domande tardive e maledizioni all’universo intero e inumidiva di lacrime il maglione di Carlo cui aggrappata voleva estorcere un assoluzione delegata e tardiva.

Era lui ora a custodire i segreti che credeva indicibili. Biagioli dal momento che a casa aveva appreso la notizia per la solerzia di un infermiere del pronto soccorso che conosceva la vicenda per aver sostituito al CIM per tre mesi Luisa Tigli in maternità era certo che si trattasse di un suicidio. Clotilde in un’estrema attenzione per non disturbare e creare imbarazzo, forse soprattutto a lui, aveva scelto quel metodo inconsueto, incerto nel risultato (verrebbe da dire pericoloso, se non suonasse comico, dal punto di vista di un candidato al suicidio) per archiviare la sua dolorosa esistenza. Si era semplicemente esposta lungamente al pericolo correndo a manetta con la sua Honda 750 sulla pedemontana via dei laghi, contando sul fatto che la statistica prima o poi fa giustizia dei comportamenti estremi. Il contachilometri era fracassato sui 180km/h.

Per ironia della sorte involontari complici del progetto furono i signori Pace che riaccompagnavano la nonna Assunta alla casa di riposo dopo la libera uscita domenicale. Quest’ultima, seduta a fianco del figlio conducente, fu la più contrariata al pensiero fuggevole che la accompagnò, prima ancora di Clotilde dinanzi a San Pietro, della soddisfazione che avrebbe regalato alla odiata nuora con il risparmio della retta dell’ospizio. Il pensiero estremo di Clotilde era stato invece per Carlo, l’ultimo dei numerosi psichiatri che avevano cercato di raddrizzare la sua indole storta. Un altro che avrebbe deluso, era la sua specializzazione. Un altro che aveva idealizzato e disprezzato. Povero Carlo(aveva imposto il “tu” dalla prima seduta) in quasi tre anni di psicoterapia era stato un amorevole e rispettoso compagno di viaggio sopportando le sue intemperanze, gli dispiaceva essere un suo fallimento e ciò era la prova di quanto poco fosse guarita.

Clotilde era tecnicamente una borderline. Donna del tutto o niente. Di grandi passioni: amori estremi ed altrettanto assoluti e improvvisi odi. Il contatto con il CIM era avvenuto 5 anni prima dopo un ricovero in SPDC per avere, completamente ubriaca e strafatta di cocaina, quasi ucciso di botte la sua coinquilina, una ventottenne calabrese, rea di aver lasciato il formaggio scartato nel frigo o, più probabilmente, di averla provocata per poi negarsi all’ultimo momento.

 

Quella pericolosa dinamica relazionale che Eric Berne chiama il gioco di “violenza carnale”. Si, perchè il difetto essenziale di Clotilde era la sua omosessualità confinante e sconfinante con un disturbo dell’identità di genere. Era fallata sin dalla nascita, un pezzo di seconda scelta da gettare o svendere. Tutti i quarantacinque anni dell’esistenza di Clotilde erano stati un continuo tentativo di essere accettata, riconosciuta e amata nonostante questo difetto originario che lei stessa non riusciva a nominare. Nonostante le numerose terapie che aveva fatto sin da bambina per i problemi più diversi quel suo desiderio rimaneva inconfessabile e ribaltato nella coscienza in una intransigente omofobia.

Dopo le sue tre sorelle maggiori la sua nascita era stata una vera delusione. Il corredino preparato era rigidamente azzurro e “Massimo” il nome scelto per colui che avrebbe dovuto dare prosecuzione al glorioso cognome dei Visani. Invece la sua presenza nefasta aveva dato l’avvio alle disgrazie. Il padre Ottavio, burbero e stimatissimo professore di greco al liceo classico di Terni era morto d’infarto prima che lei compisse un anno,forse per il dolore del maschio mancato. La sorella maggiore si era fatta mettere incinta da un figlio dei fiori e viveva in casa con i due gemellini dei fiori. La madre era dovuta andare a lavorare alle poste per sfuggire all’assedio della miseria. Coltivava un rancore ovviamente inconfessabile per quelle figlie che l’avevano costretta a lasciare il suo piccolo regno casalingo. In particolare per Clotilde, quel maschio mancato che, anche secondo lei, aveva ucciso Ottavio.

Ufficialmente non sapeva dell’omosessualità della figlia ma non perdeva occasione per vomitare disprezzo verso tutte le diversità e specificamente verso gay e lesbiche ( meglio un figlio morto che frocio era il suo slogan, quando veniva a conoscenza di una di queste situazioni). Clotilde aveva corso tutta la vita per riscattarsi fino alla curva in cui aveva incontrato l’incolpevole mercedes dei signori Pace.

Nella famiglia materna le apparenze sociali contavano più di tutto. Da grande si rese conto che ciò era probabilmente dovuto al fatto che la nonna materna ricca e temuta moglie del podestà aveva messo al mondo due figli, la madre e suo zio, che tutti sapevano essere bastardi, figli del farmacista cui somigliavano come due gocce d’acqua. L’importante signora dunque se ne andava impettita e altezzosa per il corso del paese con quei due ragazzini per mano che per i loro 4 anni di differenza di età testimoniavano una cornificazione tutt’altro che passeggera del signor eccellentissimo podestà.

In quella famiglia l’immagine sociale era tutto e la vergogna da fuggire a tutti i costi. Ci mancava sola una figlia lesbica! Fino alla pubertà molti la scambiavano per un maschietto per l’aspetto e gli interessi che coltivava..Mai un vestito o una gonna, sempre sudata per i giochi sfrenati e polverosi. Aveva imparato a fare pipì stando in piedi e ricercava lo scontro fisico con i coetanei, esclusivamente maschi con cui giocava. Con lo sviluppo puberale aveva assistito disgustata alla femminilizzazione del suo corpo. Quei rigonfiamenti che lievitavano di mese in mese non le appartenevano e li camuffava in tutti i modi con abiti informi. A tredici anni era stata iniziata all’amore saffico dalla sua insegnante di pianoforte, una sessantenne amica della madre che le confesso, forse per eccitarla, i particolari di una relazione sessuale con suo padre. Di quel pomeriggio estivo ricordava la confusa miscela di vergogna, colpa, piacere e soprattutto la sensazione di essere finalmente arrivata a casa. Aveva incontrato la sua identità: non era un maschio, era lesbica. Da quel momento, forte di una bellezza ambigua tra l’eroe omerico e la femminilità botticelliana si avventurò con il fragile battello del suo animo alla ricerca di quell’amore che non l’aveva accolta al suo arrivo in questo mondo. Desiderava le donne con un impeto assolutamente maschile.

Tra i 18 e i 22 anni visse quella che avrebbe chiamato con una nostalgia inestinguibile “la mia scintillante primavera”. Pur rimanendo nascosta conobbe tutto l’universo gay del paese avviando alla loro vera natura che intuiva infallibilmente , come un espertissimo talent scout, numerosissime ragazzine, senza disdegnare le donne mature e persino le vecchie. Diceva che quello era stato il suo periodo bulimico.

Le passioni si avvicendavano rapidamente sempre con la cifra della drammaticità. Clotilde era infatti convinta di dare il meglio di sé nella fase del corteggiamento e traeva sollievo dal conquistare. Ancora non erano conclusi i festeggiamenti per il successo che già batteva in ritirata per evitare una sconfitta che sentiva sicura. Le altre che si innamoravano di lei o si sbagliavano. o non la vedevano realmente,o erano stupide. In questo modo riusciva a mantenere saldamente deficitaria la sua autostima Era certa che ad una intimità più stretta e duratura il bluff che sentiva di essere non avrebbe retto. Lasciava o, più spesso, faceva in modo di essere lasciata per non correre il rischio di vedere sul viso dell’altra quella delusione che, nonostante i suoi sforzi non era mai riuscita a cancellare dal volto della madre e che immaginava essere stata l’espressione che l’aveva accolta in questo mondo.

Di sforzi ne aveva fatti moltissimi. Diplomatasi all’istituto tecnico per geometri con il massimo dei voti, aveva iniziato a lavorare da subito nei cantieri contribuendo al mantenimento della famiglia. Si era fatta strada in un ambiente tipicamente maschile. Biagioli, di fronte alla preoccupazione che la sua omosessualità venisse scoperta le aveva suggerito l’ipotesi che fosse un segreto di pulcinella considerate le sue frequentazioni esclusivamente femminili, il suo abbigliamento militare e i suoi hobby (motociclismo, pugilato).

Parlarne con la madre, obbiettivo primo di tutti i suoi sforzi di essere accettata, era improponibile e persino in seduta usava giri di parole per non usare la parola “omosessualità”. Cosa avrebbe detto oggi se avesse visto la madre salutare Biagioli stringendogli le mani unite tra le sue e dicendogli con fare consolatorio “dottore, non se ne faccia una colpa….non aveva mai accettato la sua omosessualità”. Effettivamente era lei la prima a non accettarsi e proiettava questo rifiuto sugli altri.

Dopo il primo episodio per cui era stata ricoverata c’erano stati altri agiti di di impulsività incontrollata, una costanza di abuso di sostanze e numerosi gesti autolesivi soprattutto a carattere dimostrativo. Insomma quanto basta per una diagnosi di borderline ed una presa in carico. Questi ultimi con tagli e bruciature di sigarette,si manifestavano in seguito alla rottura dei legami affettivi, anche se da lei stessa provocati. In un caso al dolore assoluto si mescolava umiliazione e rabbia. Nell’altro colpa e autodenigrazione. Non sapeva dire quale fosse peggiore.

 

In quelle situazioni Biagioli si sentiva impotente, schiacciato da un dolore che riconosceva fin troppo anche suo per esserne la cura. Ora avvertiva la colpa di non essersi fatto aiutare. Clotilde precipitava in uno stato simile alla morte. Senza un altro che le rimandasse un immagine di sé positiva si percepiva disgustosa, indegna di esistere e tutti gli appetiti vitali si assopivano. Gli richiamava alla mente l’immagine dell’urlo di Munch. Un dolore assoluto, eterno ed inconsolabile come di madre che vede il figlio morire e implora di scambiare di posto. Smetteva di mangiare, trascurava la sua persona e se non fosse stata per la solerzia con cui le infermiere del CIM l’accudivano, si sarebbe trasformata in una barbona inavvicinabile. Quell’essere disgustoso era l’immagine di se stessa che aveva se uno specchio esterno non gliene rimandava un altra. Da sola ogni istante doveva convivere con quel mostro che era se stessa. Da sé non si può andare in vacanza diceva disperata.

Nonostante la discrezione di Clotilde nell’andarsene come se si trattasse di uno sfortunato incidente Biagioli si rendeva conto che quel corpo sul tavolo di marmo indicava inesorabilmente che qualcosa non aveva funzionato. I meccanismi consolatori dell’autoinganno stentavano ad attivarsi, quella morte lo pervadeva e lo accusava.Era la terza volta nella sua carriera ma la prima durante una psicoterapia così lunga.

Seduto nella panchina del cortile antistante la sala settoria rifletteva sugli errori senza neppure il conforto di quelle sigarette che aveva di recente ripudiato (un fioretto di cui, da razionalista militante, si vergognava moltissimo). Forse era stato presuntuoso a non condividere la gestione di un caso così grave con la dottoressa Mattiacci che avrebbe potuto seguire l’aspetto farmacologico e costituire un altro punto di riferimento soprattutto nei momenti in cui l’alleanza con lui vacillava esposta alle tempeste borderline. Si chiedeva cosa, in fondo, avesse fatto e soprattutto dove avesse sbagliato. La prima accusa era di non aver condiviso con gli altri, di non essersi confrontato.

Ora quel cadavere era soltanto suo, del dottor Biagioli definito ironicamente “ghe pensi mi” per l’incapacità a delegare. Si sforzò di riordinare le idee. Il filone principale della terapia era stato il sostegno all’autostima o, meglio, la stabilizzazione di una identità personale che non dipendesse esclusivamente dalle incostanti conferme altrui. L’accettazione del mancato riconoscimento materno non attribuendosene la responsabilità. Non colpevole ma vittima di una madre distratta dal lutto del marito. Si chiese se non avesse avuto paura di entrare davvero in quel dolore esistenziale assoluto che terrorizzava anche lui e se non l’avesse lasciata sola con lui.

Forse si era disperso troppo su quei problemi che rendevano difficile la quotidianeità di Clotilde ed inerivano le grandi strategie che metteva in atto per ottenere riconoscimento e, magari, amore. La prima l’aveva imparata tornando a casa alle elementari con la lode sul quaderno o la coccarda tricolore che suscitava abbracci e sorrisi soddisfatti. Si era dunque prefissata di essere semplicemente perfetta in tutto. La cura dei dettagli era meticolosa. Su ogni piccolo compito si giocava tutto il suo valore trasformandolo in una montagna da scalare ed allungando enormemente i tempi. Aveva ben chiaro quanto il “meglio fosse nemico del bene”, ma per lei il meglio ed anzi la perfezione era il minimo che dovesse fare (nient’altro che il suo dovere, come diceva la madre). C’era sempre un amichetta che poteva essere presa da modello che aveva fatto meglio. Un passetto in più era sempre possibile, non bisogna mai accontentarsi.

Una seconda strategia consisteva nell’essere totalmente accondiscendente alle richieste dell’altro. I suoi diritti sembravano non esistere, solo quelli degli altri contavano. A furia di non ascoltare i suoi bisogni non si rendeva più conto di averli ed anche in seduta era difficilissimo farle esprimere una preferenza figuriamoci un desiderio. Aveva smesso di volere appaltando all’altro il compito. Aveva sviluppato una capacità naturale di percepire i desideri dell’altro prima che li esprimesse, li assecondava spontaneamente mettendo ciascuno a proprio agio. L’altro fatalmente era indotto ad approfittare di questa sua disponibilità fino a quando Clotilde, magari per un particolare secondario e irrilevante, non si vedeva oggetto di un sopruso ed esplodeva violentemente. Si era conquistata l’etichetta di matta imprevedibile. Il lavoro fatto, soprattutto attraverso la relazione terapeutica, era orientato all’assertività con l’indispensabile premessa dell’ascolto dei propri bisogni e desideri.

La terza strategia, già in precedenza accennata, era la fuga dall’intimità per evitare che fosse scoperto quel bluff che sentiva di essere. Questa dinamica più volte evidenziata nelle relazioni affettive e professionali non era stata purtroppo presa sufficientemente in considerazione nella relazione terapeutica. Anche con lui era stata agita. Forse questo era stato l’errore più grave, rimuginava Biagioli sulla panchina.

Lei era una paziente perfetta e faceva di tutto per accontentare il suo terapeuta che, a sua volta, la gratificava. Si rispecchiavano vicendevolmente. Forse aveva pensato di non poter rovinare questo idillio con la merda che sentiva di avere dentro. E lui l’aveva lasciata fare per paura di affogare in quell’oceano livido di dolore. Anche con lui l’intimità si era arrestata per non deluderlo.

Aveva preferito stare al servizio dei presunti bisogni di Carlo piuttosto che dei suoi. E lui non se ne era accorto. Perchè non parlargli dei suoi propositi suicidi se non per non disturbare come faceva con tutti? Perchè altrimenti scegliere quel modo camuffato e discreto per andarsene. Carlo la immaginò che stesse scusandosi con la vecchia Assunta Pace che aveva trascinato con sé a miglior vita e forse si sarebbe scusata anche con i gestori dell’al di là per l’arrivo anticipato causa di disagi organizzativi.

Tra poco, nonostante fosse domenica di campionato, lo avrebbero raggiunto gli altri colleghi del CIM per portare conforto, come si usa in questi casi, al curante come se fosse un familiare. Sarebbero state dette le solite frasi “era un caso gravissimo”, “non potevi fare altro”, “e’ il nostro lavoro”, “non c’erano segnali evidenti, non potevi prevederlo”, “se volessimo star tranquilli dovremmo ricoverare tutti”, “non è detto sia un suicidio”.

Quando la madre di Clotilde lo raggiunse, per rassicuralo a sua volta, aveva gli occhi umidi di pianto e ciò gli valse il riconoscimento di quella grande sensibilità umana che Clotilde, diceva la madre. Gli aveva sempre accreditato e ne aveva fatto il suo terapeuta più importante, ma anche l’ultimo. Quando, visto il circolo singhiozzante dei signore Pace, si sentì attanagliare da un ulteriore senso di colpa per la dipartita della vecchia nonna ruppe gli indugi e chiese una sigaretta alla madre. Lui, in fondo, non credeva ai fioretti.

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