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Dipendenze patologiche: nuove prospettive e tecniche metacognitive – Congresso SITCC 2014

Congresso SITCC 2014 - Report dal seminario: Dipendenze patologiche: nuove prospettive e tecniche metacognitive, Chairman: Raffaele Popolo

Di Redazione

Pubblicato il 29 Set. 2014

 IL PROGRAMMA DEL CONGRESSO

Dipendenze patologiche- nuove prospettive e tecniche metacognitive - sitcc 2014

L’esperienza di craving non è qualitativamente diversa dall’esperienza del desiderio ed è è molto simile tra le diverse persone dipendenti, indipendentemente dal tipo di sostanza implicata. Il craving risulta quindi essere l’estremizzazione di una normale esperienza di desiderio che tutti possiamo provare: quale è allora la differenza tra chi prova una normale esperienza di desiderio e chi prova un’esperienza di craving? 

Il simposio che vede il Dr. Popolo nel ruolo di Chairman e il Dr. Caselli nel ruolo di Discussant si apre con la presentazione di quest’ultimo, che introduce il tema delle dipendenze e del craving, inserito nel recente DSM-5 come criterio diagnostico.

L’esperienza di craving non è qualitativamente diversa dall’esperienza del desiderio ed è è molto simile tra le diverse persone dipendenti, indipendentemente dal tipo di sostanza implicata. Il craving risulta quindi essere l’estremizzazione di una normale esperienza di desiderio che tutti possiamo provare: quale è allora la differenza tra chi prova una normale esperienza di desiderio e chi prova un’esperienza di craving?

La differenza sembra farla il modo in cui le persone rispondono cognitivamente quando le immagini legate al desiderio giungono alla coscienza: questa esperienza può diventare transitoria se decidiamo che non è il momento di soddisfare quel desiderio oppure può diventare pensiero desiderante se la persona vi si sofferma in modo attivo.

 

Il pensiero desiderante ha due componenti (una verbale e una immaginativa) e anche se nel breve periodo può essere appagante, nel lungo termine porta a frustrazione e produce un’escalation di craving e senso di deprivazione. Infatti, mentre da una parte pensando in modo desiderante aumento il craving, dall’altra scelgo consapevolmente di non agire e questo mi porta ad una continua e faticosa soppressione del desiderio stesso. Desiderare può diventare disfunzionale se è un’attività perseverante, scarsamente regolata e relativa a scopi che non voglio in coscienza perseguire.

Secondo il modello di Wells, ci sono credenze metacognitive che spingono le persone a reagire in modi diversi davanti al desiderio. Queste credenze possono essere negative (relative al pericolo e all’incontrollabilità del pensiero desiderante) o positive (rispetto ai benefit percepiti nel pensiero desiderante, a situazioni e condizioni in cui pensare in modo desiderante “aiuta”).

Il modello presentato (Spada, Caselli & Wells, 2013) comprende tutte queste credenze eè stato validato su 4 campioni diversi di dipendenti da alcol, gamblers, dipendenti da internet e fumatori. Secondo questo modello, le intrusioni attivano credenze metacognitive positive, che portano all’attivazione del pensiero desiderante, che può avere un effetto di sollievo nell’immediato ma passando per le credenze negative sul pensiero desiderante stesso arriva a sostenere un’esperienza di craving. Il fatto di cedere alla fine viene percepita come l’unica strategia che il paziente adotta per uscire da una situazione di stress crescente che valutato come intollerabile.

Impulsi e desideri non sono allora un problema, ma il problema sembra essere il modo in cui vi rispondiamo. “Non possiamo sentire meno desiderio se pensiamo di più al desiderio, e pensare molto a desideri che non vogliamo realizzare non è una buona idea”.

In seguito, la Dr.ssa Gemelli presenta un lavoro in cui sono stati confrontati due interventi attentivi: uno di abituazione e uno di applicazione della SAR (Situational Attentional Refocusing) su un campione di 8 pazienti con diagnosi di abuso di alcool, valutando le ricadute di questi due interventi sulla percezione del craving e sulle credenze metacognitive a 1, 3 e 5 minuti di tempo.

I risultati delle analisi dei dati mostrano che l’intervento SAR riduce le credenze metacognitive sull’incontrollabilità e riduce sia il craving che la sensazione di perdita di controllo. Per questa condizione il tempo sembra non avere importanza: quello che importa è la condizione, cioè il compito a cui il soggetto è sottoposto. Al contrario, nella condizione di abituazione la riduzione di tutti i parametri raccolti è più lenta e il tempo diventa significativo.

La terza relazione è presentata dalla Dr.ssa Pasinetti del Centro TMI e tratta degli schemi interpersonali maladattivi in pazienti in doppia diagnosi (con utilizzo di sostanze e concomitante disturbo di personalità). Viene inizialmente sottolineata la difficoltà ad assegnare ai pazienti una doppia diagnosi, e si prosegue mostrando come la correlazione tra disturbo di personalità e uso di sostanze sia intorno al 90%.

 

Interessante l’approfondimento sulla necessità di approfondire l’uso e l’abuso di sostanze nel Cluster C di personalità: i disturbi di personalità e l’uso di sostanze si rinforzano a vicenda, e le caratteristiche del disturbo di personalità da una parte portano il paziente a essere più sensibile alle ricadute, dall’altra aumentano le difficoltà nella relazione terapeutica. In questo senso, la TMI considera come focus preferenziale dell’intervento le disfunzioni metacognitive, gli schemi maladattivi e i cicli interpersonali problematici.

La relatrice prosegue sottolineando come le sostanze siano la prima forma disfunzionale di auto-terapia che questi pazienti usano per non sentire una rappresentazione del sé dolorosa e approfondisce con esempi clinici il modo in cui gli schemi relazionali di base innescano cicli interpersonali disfunzionali.

L’ultima relazione della Dr.ssa D’Urzo del centro TMI si apre con un caso clinico di un paziente con dipendenza da eroina e in seguito riporta il percorso di trattamento che inizia dal tentativo di fare evocare al paziente memorie autobiografiche chiare, che lui fa a fatica, con conseguente impossibilità da parte della terapeuta e del paziente a esplorare gli stati mentali.

La terapeuta decide allora di sospendere l’esplorazione degli stati interni e spostare il focus sulla relazione terapeutica per creare un’atmosfera cooperativa e all’interno di episodi narrativi andare a individuare pensieri e emozioni, arrivando a identificare gli stati che lo portano a usare sostanze.

Il terzo passo è la ricostruzione dei nessi psicologici di causa-effetto tra eventi, pensieri, emozioni e comportamenti. Il quarto punto è l’evocazione delle memorie autobiografiche che siano simili psicologicamente a quelle raccolte finora, e a partire dalle quali (quinto passo) si va a ricostruire lo schema sulla base dei diversi episodi raccontati. La promozione del cambiamento arriva dopo la restituzione dello schema e inizia con la differenziazione (tra i suoi schemi e la realtà), e con l’assunzione di prospettive differenti per avere accesso alle parti sane del paziente.

In chiusura, il discussant sottolinea le differenze tra le prime due relazioni e le ultime due, proponendo come le prime vadano a intervenire sui mediatori del cambiamento (attraverso un intervento preciso ma che rischia di essere puntiforme) mentre le ultime cerchino di intervenire sui moderatori (portando ad una visione più ricca e a tutto tondo di quello che può intervenire sul disagio ma con il possibile svantaggio di perdersi nella vaghezza che può non modificare in modo specifico i punti che mantengono la psicopatologia). 

In un’ottica cooperativa e di auspicabile integrazione, si chiude il simposio nell’accordo di tutti rispetto all’interesse clinico e di ricerca a confrontarsi e confrontare i diversi modelli di trattamento in particolare sui pazienti con doppia diagnosi. Ci aggiorniamo tra due anni.

 

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