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The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese (2014)- Recensione

The Wolf of Wall Street - Scorsese porta sul grande schermo il ritratto di un inferno amorale, grottesco negli eccessi di cui si nutre senza sosta.

Di Gianluca Frazzoni

Pubblicato il 04 Mar. 2014

 

 

The Wolf of Wall Street

di Martin Scorsese (2014)

 

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The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese (2014)

Ascesa e caduta di Jordan Belfort, agente di Borsa che debutta a Wall Street nel lunedì nero del 19 Ottobre 1987.

Scorsese porta sul grande schermo il ritratto di un inferno amorale, cinico, irreversibilmente grottesco negli eccessi di cui si nutre senza sosta, nel culto onanistico del denaro che si impadronisce dell’identità umana.

Sesso con prostitute divise con metodo accurato per fasce di prezzo, orge in ufficio al suono della campanella di fine contrattazioni, nani imbracati lanciati come freccette contro un bersaglio carico di dollari, droghe consumate fino a sfinimento per non esaurire il propellente del delirio.

Il film non ha ricevuto consensi unanimi perché l’epopea illegale che vi è rappresentata è sembrata ad alcuni un’apologia dell’arrivismo corrotto che ha messo in croce la società contemporanea, in realtà lo sguardo di Scorsese è impietoso pure se passa da un’ironia leggera nei tratti.

Uno straordinario Di Caprio ha dato luce e movenze ad un personaggio talmente surreale da arrivare allo spettatore in tutta la verità della sua irreparabile idiozia, e gli eccessi che riempiono molte scene del film sono il pietoso tentativo di un sistema indifendibile di autolegittimarsi attraverso il potere del lusso, il prestigio della sopraffazione, l’estasi del plateale e dell’effimero.

Non solo non vi è alcuna giustificazione del ladrocinio perpetrato da Jordan Belfort prima ai danni di poveri disperati cui vende azioni di nessun valore, poi nei confronti di ricchi inetti trascinati verso affari catastrofici, ma la raffigurazione dello sfascio morale ha il pregio di avvenire da dentro, senza doversi nobilitare di princìpi necessari: come dire, sono i personaggi stessi a distruggersi, è sufficiente mostrarli senza aggiungere nulla e l’abisso in cui precipita la loro dignità contiene in sé le domande e le risposte.

Pur affaticato nel finale dal vizio inguaribile delle opere di Scorsese, una durata infinita che costituisce un pericolo e non un’estensione per il valore contenutistico, The Wolf of Wall Street riesce a staccarsi radicalmente dagli altri film che negli ultimi anni hanno affrontato il tema delle truffe globalizzate condotte dall’alta finanza; la parola viene data al lupo e l’obiettivo del lupo, il suo bisogno non è essere un duro, sbranare gli affari, bensì portare sempre più in alto il tendone del circo, lo scempio di una vita che se non può essere vissuta per dei valori accettabili – e il protagonista ne soffre ma soffre il proprio degradante e ignobile vuoto, non certo la condanna di un destino che invero si è scelto e ha perseguito con tutte le forze disponibili – deve essere ipertrofica nella sua sconsolante inutilità.

Gli affari sono un mezzo per sostenere l’edonismo da teatro dell’assurdo, l’epica ostentazione di ciò che fa vibrare gli organi meno coscienti del corpo, e negli occhi di Jordan, che dallo yacht di 52 metri accompagnano il mastino dell’Fbi capace di lì a poco di far aprire la cella di una prigione, passa un’ombra fugace, pesante come un macigno, la consapevolezza dell’impotenza di fronte a quello che non si può comprare.

L’ironia più riuscita di The Wolf of Wall Street è la scelta degli eroi, uomini di ridicola incapacità che trasformano le loro vite imparando il mestiere della truffa ma rimangono gli stessi figuranti inaccessibili al bello e al degno, solo con molti più soldi, con una quantità di soldi che permette loro di teorizzare il nulla.

Un ricco stupido è un ricco, un povero stupido è uno stupido, sembra dirci Scorsese non senza un’evidente considerazione sul genere umano, o almeno su una fetta delle umanità possibili; saper vendere una penna, far sentire al compratore il bisogno di quella penna così da inchiodarlo alle sue stesse indeterminatezze, è il valico che separa un uomo di successo da un rassegnato padre di famiglia della provincia americana oppresso dai debiti, e che insieme fissa il confine tra il diritto all’onnipotenza e l’ergastolo dell’infelicità.

E’ un gioco, tremendo e inarrestabile, come le smorfie dei cortigiani di Jordan assiepati alle sue spalle per seguire con eccitazione da maschi sborniati da libido il raggiro telefonico che il loro dioscuro porta a termine, o l’ebbrezza drogata del suo più fidato consigliere che si masturba in pubblico durante una festa perché i capricci di un milionario sono godimento e indifferenza. The Wolf of Wall Street fa centro, come i nani imbracati: allo spettatore l’onore e l’onere di un piacere da uomo comune.

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