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Psiche & Legge #10: L’ espressione di disprezzo rivolta al partner vale come maltrattamento?

Le espressioni di disprezzo del coniuge, certamente lesive della dignità umana, possono talora costare anche una condanna per il reato di maltrattamento.

Di Selene Pascasi

Pubblicato il 27 Dic. 2013

PSICHE E LEGGE #10

    Quando la mente criminale “scrive” il processo penale.

Può l’espressione di disprezzo rivolta al partner, valere come maltrattamento in famiglia?

 

Psiche & legge#10. - Immagine:  © Rudie - Fotolia.comLe espressioni di disprezzo del coniuge, certamente lesive della dignità umana, possono talora costare anche una condanna per il reato di maltrattamento in famiglia, di cui all’art. 572 del Codice Penale.

Vediamo, però, in quali casi ciò è ipotizzabile, e quali sono i presupposti che il legislatore richiede ai fini della configurazione del delitto. Va precisato, in primo luogo, come i maltrattamenti in famiglia si delineano, nel codice, alla stregua di una risposta punitiva tesa a sanzionare la condotta di chi “maltratti” una persona della famiglia.

Così, analizzando con maggiore attenzione la nozione di maltrattamenti, verrà spontaneo ricondurre a tale alveo, non solo gli atti di violenza fisica – quali percosse o lesioni – ma altresì ogni condotta in grado di arrecare alla vittima sofferenze, anche soltanto psichiche. E’ noto, difatti, come la serenità psicologica sia elemento integrante della salute umana, intesa nel senso più ampio di benessere psicofisico. Di qui, la rilevanza, per l’integrazione del reato, sia delle aggressioni al corpo del familiare, che delle ingiurie, minacce, privazioni o umiliazioni idonee a violarne la tranquillità quotidiana. A tal fine, inoltre, il giudice dovrà riservare adeguata attenzione – come del resto precisato, di recente, dalla Cassazione con sentenza n. 44700/13 – agli atti “di disprezzo e di offesa alla sua dignità che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali”.

Ma quando, allora, un comportamento teso a mortificare le persone vicine diviene reato? Non sempre, è evidente. Si pensi all’agire, obiettivamente spiacevole, di chi rivolga espressioni atte a mortificare il valore altrui, o all’abitudine, purtroppo frequente, di svilire il partner durante una lite. Ebbene, entrambe le azioni, seppur riprovevoli sotto il profilo personale, non vanno certamente qualificate come delitti, ove singolarmente considerate. Scatterà il reato, tuttavia, nell’ipotesi in cui detti modi di fare assumano un’abitualità tale da sottoporre i familiari a continue vessazioni. Vessazioni che, però – va precisato – vestiranno valenza penale esclusivamente ove espressione di una condotta abituale del soggetto, che risulti mosso dall’intenzione di porre in essere un programma criminoso, caratterizzato dalla volontà unitaria di ledere la vittima.

L’abitualità, pertanto, quale elemento connotante i maltrattamenti in famiglia, inquadrati, proprio per tale ragione, tra i reati abituali, la cui consumazione coinciderà con l’ultimo degli atti perpetrati. È la natura abituale del crimine, dunque, a comportare la possibilità di punire il comportamento complessivamente valutato, a nulla rilevando che i singoli segmenti dell’agire siano, o meno, penalmente perseguibili. Potrebbe accadere, ad esempio, che isolate frasi ingiuriose – seppur in se lecite – si trasformino in reato, ove inserite in un contesto di vita caratterizzato da una serie costante di vessazioni, fonte di sofferenza psichica per la persona offesa.

Preme sottolineare, ancora, come il giudice potrà emettere sentenza di condanna anche nell’evenienza in cui sia stata riscontrata l’abitudine dell’imputato a proferire espressioni di disprezzo nei confronti del familiare, tali da ridurlo in stato di sofferenza, nonostante il suo atteggiarsi venga ad innestarsi, come di sovente accade, in una situazione di conflittualità familiare, reciproca e permanente. A segnare la responsabilità penale, pertanto, sarà solo il formarsi della cosiddetta serie “di minima rilevanza” di atti vessatori, sufficiente a procurare lesioni psicologiche alla vittima.

Altro aspetto meritevole di analisi, è quello attinente le vicende in cui il reo sia separato dalla consorte.

In tale evenienza, occorre domandarsi se lo stato di separazione consente di ritenere le parti ancora legate da quel vincolo di familiarità che il Codice Penale richiede per la sussistenza del reato. La soluzione, alla luce dei principi giuridici generali, non può che essere positiva. Del resto, ma è palese, la separazione dei coniugi sospende – e non interrompe – i doveri assunti con la celebrazione del matrimonio. Restano intatti, perciò, almeno fino alla pronuncia di divorzio, gli obblighi di rispetto e di assistenza, morale e materiale. Di conseguenza, i maltrattamenti in famiglia potranno configurarsi anche nelle ipotesi in cui il comportamento del reo – dunque le vessazioni, le offese e gli atti di disprezzo rivolti al partner – sia iniziato durante la vita coniugale, e si sia protratto durante lo stato di separazione, sia essa legale, o solo di fatto. Assunto, questo, immediatamente collegato al concetto di familiare, quale soggetto passibile di restare vittima del reato di maltrattamenti. Ebbene, familiare – secondo costante giurisprudenza – è senz’altro il convivente, nel caso in cui la coppia abbia comunque progettato una vita basata sulla reciproca solidarietà e sostegno. Che la stabile convivenza sia ormai equiparata alla famiglia fondata sul matrimonio, almeno ai fini in esame, lo si deduce altresì dal mutamento del titolo della rubrica normativa, oggi non più rubricata “maltrattamenti in famiglia” ma “maltrattamenti contro familiari e conviventi”.

Ecco che il delitto in lettura, potrà scattare quando le continue vessazioni siano rivolte, non solo al coniuge, ma ad ogni soggetto legato al reo da obblighi assistenziali, seppur non connessi a specifici vincoli di parentela, naturale o giuridica.

Di conseguenza, laddove i comportamenti tenuti dall’agente – volgari, irriguardosi, umilianti o ingiuriosi – siano tali da costringere il familiare a vivere in un contesto quotidiano avvilente e mortificante, il giudice, accertata l’esistenza di un programma criminoso volto a vessare la vittima, potrà senz’altro emettere sentenza di condanna ai sensi dell’art. 572 del Codice Penale.

 

LEGGI LA RUBRICA: PSICHE & LEGGE 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Lusa, V. & Pascasi, S. (2011). La persona oggetto di reato. Torino: Giappichelli Editore.
  • Pascasi, S. (2013). Ciò che caratterizza la sussistenza del crimine è l’abitualità di fatti che procurano sofferenza. Nota a Cass. Pen. n. 44700-13, in Guida al Diritto (Il Sole 24 Ore) n. 47/13, pagg. 83-86
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Selene Pascasi
Selene Pascasi

Avvocato, Giornalista Pubblicista e Scrittrice

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