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Libertà di parola (2013), di Nigel Warburton – Recensione

Libertà di parola: Warburton ci offre una visione critica e analitica della valenza di una libertà tanto importante, quella di parola, nella società odierna

Di Selene Pascasi

Pubblicato il 25 Ott. 2013

Recensione del libro:

Libertà di parola

di Nigel Warburton

(2013)

 

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Libertà di parola . - Immagine @Forsthoff-B-927Libertà di parola: Il filosofo inglese Nigel Warburton – con il suo ultimo saggio, pubblicato da Raffaello Cortina editore – ci offre una visione critica, ed analitica dell’effettiva valenza di una libertà tanto importante, come quella di parola, nella società odierna

Disapprovo ciò che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”. Non è forse questa espressione, attribuita a Voltaire, che più di ogni altra sublima la radice della libertà di parola? “Certamente”, potrebbe sostenersi in prima battuta. “Forse”, verrebbe da pensare riflettendoci qualche minuto in più. “No”, azzarderebbero alcuni.

E allora, cosa vuol dire in realtà libertà di parola? E quanto influiscono gli schemi individuali, sociali o la situazione politica?

Il filosofo inglese Nigel Warburton – con il suo ultimo saggio, pubblicato da Raffaello Cortina editore – ci offre una visione critica, ed analitica dell’effettiva valenza di una libertà tanto importante, come quella di parola, nella società odierna. L’autore traccia, così, una sorta di percorso a mezzo del quale disegna, ad uso e consumo del lettore, una tela sulla quale prendono forma, pagina dopo pagina, molteplici e talora contrastanti riflessioni. Riflessioni che accompagnano in un viaggio che muove i primi passi sul selciato di casi pratici, noti alla cronaca, ed assai discussi, vertenti proprio sul delicato tema della libertà di parola, intesa come ampia gamma di comunicazione, scritta, verbale, fotografica, o cinematografica.

Ebbene, Warburton – nel richiamare, con immediatezza espositiva, peculiari vicende – ci ammonisce della difficoltà di individuare le eccezioni alla rivendicazione della libertà di parola, che consentano di leggere il principio in maniera coerente ed estranea ad indesiderabili censure. Così, egli ricorda come in quante occasioni, nel più recente trascorso, scrittori, politici, registi, abbiano dovuto bilanciare tale libertà – lungi dal poterne individuare una zona franca, scevra da limiti e confini – con l’esigenza di garantire alla società la protezione di rilevanti fattori, quali la sicurezza nazionale, o il pregiudizio al minore. Bilanciare senza censurare, si intende. Ecco che l’autore ricorda come il giornale Index on Censorship, per anni abbia relazionato di scrittori imprigionati, torturati o uccisi per aver espresso le loro idee.

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E ancora, si apre lo scenario sul memorabile verdetto emesso dal giudice Oliver Wendell Holmes Jr nella decisione “Schenck vs United States”, quando sostenne che la libertà di parola non includesse la libertà di urlare “Al fuoco!” in un teatro affollato. Il filosofo si sofferma, poi, sul caso del libro “Hit Man: A Technical Manual for Indipendent Contract Killers”, che – scritto come lavoro di finzione teso a fornire indicazioni sul come uccidere e disfarsi dei corpi – monopolizzò l’attenzione pubblica quando un certo Horn, seguendo le istruzioni contenute nell’opera, assunse un killer per uccidere l’ex moglie, il figlio e la sua infermiera, ed incassarne così l’assicurazione.

Ricordando, poi, la questione degli incriminati passaggi contenuti nel noto romanzo “I versi satanici” di Rushdie, lo studioso – nel secondo capitolo – ci introduce nel dibattito filosofico dominato dal “Saggio sulla libertà” di John Stuart Mill, a difesa della tolleranza di un vastissimo ambito di espressioni individuali, fermo il rispetto del cosiddetto “principio del danno”, ovvero della preservazione della libertà d’espressione, contenibile nei soli limiti della possibilità di arrecare pregiudizio ad altri soggetti.

E se la discussione di Mill – sostiene Warburton – “getta comunque luce sul problema della negazione dell’Olocausto” – tale caso, focalizzato sui fatti e dunque sulla circostanza che affermazioni specifiche potessero o meno essere veritiere, differisce nettamente da altre questioni. Si pensi alla prima messa in scena della commedia “Behzti” (disonore) interrotta da manifestanti sikh, che la reputarono offensiva. Di qui, lo scrittore torna sulla querelle inerente l’efficacia offensiva della parola, accendendo i riflettori sui limiti da porsi a detta libertà, nell’ipotesi in cui ne possa discendere un’offesa a terzi. Il riferimento, in particolare, è alla sensibilità religiosa. Il filosofo, in sintesi, si chiede se possa imbavagliarsi la parola a fronte del pregiudizio arrecato, o arrecabile, a questo o a quel credente.

Si percorrono – nel terzo capitolo – le vie della legge sulla blasfemia, della proposta legislativa avanzata da Tony Blair nel 2005 sulla proibizione dell’incitazione all’odio religioso, sul tragico omicidio del regista Theo van Gogh, ucciso da un uomo che appuntò sul petto della vittima una lettera che citava il Corano. L’opera si adagia, poi, sulla problematica sfida alla liberta d’espressione: la pornografia.

L’autore – richiamando il pensiero di Schauer, che la inquadra come mero ausilio sessuale, e non come vera e propria comunicazione – giunge a chiedersi se, assicurata l’assenza di lesioni a terzi, ed escluso il danno psicofisico per gli stessi attori che partecipano alla realizzazione delle scene, la si dovrebbe tollerale o meno. Pornografia messa in connessione, di seguito, con l’arte.

Interessante, sul punto, l’annotazione del processo “Lady Chatterley”, teso a stabilire se potesse consentirsi la pubblicazione del romanzo, o se, invece, dovesse propendersene per il veto alla stampa, alla luce dell’Obscene Publications Act.

Scorrendo oltre, la penna del Warburton si adagia sulle potenzialità legate all’avvento delle nuove tecnologie e del particolare sistema di interazione attraverso la chat room, o gli incontri virtuali. Ecco che lo scrittore, legandosi al pensiero di Richard Posner, elenca i pericoli, da questi individuati, e connessi all’uso di Internet (anonimato, mancanza di controllo di qualità, enorme pubblico potenziale, la comunicazione tra persone antisociali).

Non da ultimo, esamina le problematiche legate al web, ed agli ulteriori limiti alla libertà di parola imposti dalla legislazione sul copyright. Inciso nella mente del lettore, lo si deve ammettere, è il rilievo conclusivo per cui – se è vero che Internet “democraticizza la comunicazione” – allora nel futuro che ci apprestiamo a percorrere, la tolleranza della libertà di parola potrà inquadrarsi (più che come decisione di principio), quale mero “risultato della difficoltà pratica di ridurre al silenzio così tante voci espresse in così tanti modi intorno ai principali media”.

Si chiude, così, con un marcato input ad una coerente riflessione sugli odierni mutamenti, la pregiata opera di Warburton.

 

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Selene Pascasi
Selene Pascasi

Avvocato, Giornalista Pubblicista e Scrittrice

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