State of Mind presenta:
PSICOLOGIA A TEATRO
La nuova rubrica di State of Mind, a cura di Roberta De Martino
“Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri nella vita recitano male”. Eduardo de Filippo e la sensibilità di un genio indiscusso.
Questa semplice ma loquace espressione di Eduardo de Filippo racchiude, a mio avviso, tutta la complessità e la sensibilità di un genio indiscusso che con la sua penna ha saputo tratteggiare sapientemente spaccati di umanità. Ed è proprio la sua voce che torna in scena in questi giorni al Teatro Nuovo di Napoli in “Tà-Kài-Tà (Eduardo per Eduardo)”, spettacolo di Enzo Moscato, in scena fino al 4 novembre.
Sulle tavole del palcoscenico una strepitosa e intensa Isa Danieli accompagna Moscato nel racconto di un artista che, sensibile osservatore, ha amato talmente tanto la vita da soffrirne.
“Tà-Kài-Tà” letteralmente significa “un po’ questo e un po’ quello» e, a mio avviso, tale vocabolo ben racchiude il senso di questo riuscito testo teatrale che, potendo contare su due appassionati e bravi interpreti, con pochi elementi scenici, riesce a restituire tutta la complessità di un grande personaggio, severo quanto generoso, sensibile quanto duro.
La vita di Eduardo non è stata, infatti, per nulla semplice, inquieto e malinconico, il grande drammaturgo ha dovuto affrontare, durante la sua esistenza, numerosi dolori: il collegio, il rapporto controverso con il padre Scarpetta e con i fratelli Titina e Peppino (che per fargli uno sberleffo lo chiamavo spesso “o’ direttore”), fino alla morte, in tenera età, di Luisa, la sua secondogenita. Ed è proprio intorno a quest’ultimo dolore che ruota tutto lo spettacolo di Moscato sia nella scenografia che nei contenuti: alla luce della narrazione di tutti questi infelici avvenimenti, lo spettatore da ancora più vivo senso ai celebri versi delle commedie di de Filippo, rievocati in più di un’occasione dai due protagonisti delle pièce.
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E’ nel teatro, infatti, che quest’animo inquieto ha forse trovato quella serenità e “serietà” che tanto cercava nel quotidiano. Eduardo ha, infatti, da sempre visto nella finzione teatrale una maggiore verità di quanto riusciva a vederne nella vita ove spesso, incastrati nel portare tante maschere, si vive (per dirla alla Erich Fromm) più nell’ “avere” che nell’”essere”.
In effetti nella vita di tutti i giorni, bloccati in etichettamenti e ruoli ben definiti, finiamo con il non portare in scena tutte le parti più autentiche di noi stessi, e questo alla lunga, se esasperato, può portare alla separazione, alla patologia.
“I fantasmi non esistono. I fantasmi siamo noi, ridotti così dalla società che ci vuole ambigui, ci vuole lacerati, insieme bugiardi e sinceri, generosi e vili”, affermava a tal proposito Eduardo.
Paradossalmente, invece, il teatro, attraverso l’utilizzo di dichiarate maschere o ruoli, consente all’attore di potersi sperimentare in tutte le sfaccettature del proprio essere senza troppe difese o filtri e ciò gli consente di sentirsi maggiormente integro, intero, sano. Edward de Bono in “Sette cappelli per pensare” a tal proposito asserisce: “Recitare la parte di qualcun altro consente all’Io di oltrepassare i frequenti limiti della propria immagine. Nella vita di tutti i giorni gli attori sono spesso gente timida. La parte concede libertà … dato un ruolo ben definito possiamo godere della nostra abilità nel recitare tutte queste parti, senza che il nostro Io ne risulti danneggiato” (de Bono, 1997, p. 24). Viene così da pensare ai vari Domenico Soriano, Gennaro Jovine, Luca Cupiello, Sik, Sik da de Filippo prima immaginati e poi incarnati … La protezione di un ruolo formale consente all’interprete di esplorare parti di sé che altrimenti sarebbe più difficile mettere in gioco perché l’io smette di difendersi: “indossare un costume da pagliaccio ci autorizza a fare i pagliacci.” (de Bono, 1997, p. 32).
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La “maschera del personaggio” consente all’attore di lasciarsi andare e dare maggiore spazio ad aspetti di sé che probabilmente, difficilmente mostra sul “palco della vita”. Del resto anche Luigi Pirandello aveva saggiamente affermato: “Il teatro è il luogo ove si gioca a fare sul serio”.
Il teatro, come la psicoterapia, è dunque il luogo della possibilità: nell’atto stesso in cui un attore, guidato da un copione, interpreta un personaggio abita, attraverso quel ruolo, parti di sé che nella vita di tutti i giorni esplora raramente. Non è un caso, infatti, che tanti attori asseriscono di fare teatro perché ciò consente loro di vivere più vite, espressione che tra l’altro credo che, in qualche misura, ben si addice anche alla professione dello psicoterapeuta: perché cos’è la psicoterapia se non un modo di esplorare infinite storie possibili?
E’, dunque, forse necessario ricordarsi di portare sempre nuovi ruoli “in scena” nella propria esistenza se non si vuol rischiare, come affermava Denis Diderot, di “morire oscuri perché non si ha avuto un diverso teatro”. E questo rischio non l’ha corso senz’altro Eduardo perché lui ha avuto un suo diverso teatro, teatro da cui continua a comunicare con i suoi meravigliosi testi che gli hanno permesso di conquistare senza ombra di dubbio quella “pace senza morte” che tanto cercava in una sua nota poesia, perché di morto non vi è nulla in quest’uomo il cui pensiero e le cui emozioni continuano a vibrare tra un sipario e un altro tutti i giorni anche attraverso il riuscito lavoro di Moscato che, al calar della tela, riceve un fragorosissimo e prolungato applauso.
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BIBLIOGRAFIA:
- Edward de Bono, E. (1997). Sette cappelli per pensare. Milano: BUR Biblioteca Universale Rizzoli.