Recentemente sulla New York Review of Books si è parlato degli effetti –positivi e negativi- che ebbe il consumo di cocaina sulla produzione creativa di Sigmund Freud. L’occasione è la recensione di un libro di Howard Markel che racconta meticolosamente un fatto noto ma spesso taciuto: che Freud fu per circa 15 anni assiduo consumatore di cocaina.
Markel suggerisce che parte delle più audaci elaborazioni di Freud, quali le inferenze più acrobatiche sul significato metaforico dei sogni, la propensione a percepire le sue meditazioni in coppia con Wilhelm Fliess come illuminazioni messianiche, e anche la sua tendenza a giudicarsi circondato da nemici, tutte derivino dal consumo alto, forte e continuo di cocaina.
Nonostante alcuni tratti irritanti delle argomentazioni del recensore Crews, dalle quali emerge una certa antipatia verso la psicoanalisi (argomentazioni non sempre condivise dall’autore del libro, Markel, più prudente e benevolo verso Freud), alcuni punti fanno pensare. A quanto pare, in concomitanza con il consumo di cocaina, a un certo punto degli anni novanta dell’ottocento Freud comincia a mostrare segni di pensiero magico: strani giochi di numerologia con Fliess, applicazioni della numerologia di Fliess al timing delle mestruazioni maschili (avete letto bene: maschili; si tratta di un’idea un po’ fantasiosa di Fliess).
E’ vero che mentre fa questo Freud continua a scrivere anche sull’afasia in maniera scientificamente inappuntabile. Non ha perso completamente la testa, ma è di questo periodo anche una modalità di pensiero “associativa, autoconfermativa, visionaria e capace di spiegare tutto” che si allontana dai fondamenti del pensiero scientifico dell’epoca. “Nel 1894 comincia a sentirsi un eroe solitario” e questi stati d’animo abbassano la severità del suo rigore empirico. Crews sostiene che la abbassano, ma non lo demoliscono perché Freud mantiene fino alla fine la capacità di muoversi da una modalità più scientifica all’altra più vaga e autoconfermativa. E sostiene che “l’altra” fu fortemente influenzata dalla cocaina.
Il pericolo di autoreferenzialità e ortodossia nel percorso del sapere scientifico
Ci interessa tutto questo a noi che non siamo psicanalisti e non abbiamo riferimenti teorici ai quali richiamarci o da proteggere? Sì, ci interessa perché una certa abitudine all’isolamento autoreferenziale nel mondo psicanalitico è rimasta, una certa compiacenza a isolarsi tra vicini di pensiero, a non confrontarsi con il pensiero diverso, a richiamarsi all’ortodossia.
E paradossalmente è stata proprio l’ortodossia la lama che ha poi spezzettato il movimento psicoanalitico in tante frammentate correnti e movimenti: se la protezione del pensiero conforme diviene lo scopo privilegiato, allora se non sono d’accordo su alcuni punti devo andar via, devo fondare un’eresia. Questa chiusura sta diminuendo in questi anni proprio perché la psicoanalisi ha incontrato il pensiero moderno e scientifico e si sta mettendo in relazione con nozioni provenienti da mondi differenti: le neuroscienze, la ricerca in psicoterapia, e anche la scienza cognitiva e la psicoterapia cognitiva.
Ortodossia ed eresie nel mondo della psicoterapia cognitiva attuale
Lasciamo ora il campo psicoanalitico e parliamo un po’ di analoghi fenomeni avvenuti nel mio mondo cognitivo. Forse un certo tipo di personalità debordante è tipica dei padri fondatori. Il triste commiato professionale di Albert Ellis ci dice quanto sia difficile uscire di scena, dover scomparire. Arte di pochi in ogni campo.
Anche in Italia non sempre il nostro padre fondatore, Vittorio Guidano, si dimostrò capace di essere un buon nutritore di giovani seguaci e talvolta mostrò la propensione a concentrarsi troppo su di sé e a divorare, come Crono, chi non seguiva il suo dettato. Ma lasciamo da parte questi tristi racconti e torniamo al presente. Le ultime evoluzioni del cognitivismo clinico hanno visto un fenomeno nuovo: l’emergere improvviso di personalità di padri fondatori che, invece di rimanere nel solco del lavoro già fatto per svilupparlo, tendono a fondare nuovi inizi rinnegando il passato.
Sono dei Maestri con la maiuscola, fondatori di nuove scuole: Hayes con la sua ACT, Wells con la sua Metacognition Therapy, Young con la Schema Therapy. Tutti e tre non si sono accontentati di essere solo terapeuti cognitivi, come del resto a suo tempo Guidano volle essere, aggiungendo l’aggettivo “post-razionalista” al suo cognitivismo. Ripeto: forse una certa componente narcisista e perfino paranoica è necessaria e inevitabile per indicare nuove direzioni. Fatto sta che però si paga anche un prezzo.
Il punto interessante è il nascere in persone creative, nel bel mezzo di una vita di studio e idee, di tratti di pensiero sconcertanti. Si comincia a sentirsi più unici, ma anche più splendidamente isolati. Insomma, gli altri ci invidiano. Le nostre idee sono le più importanti, e chi non è d’accordo è uno sciocco, un invidioso, forse perfino un immorale. Le critiche fatte al nostro pensiero sono risibili. Ci si sente bene solo nel gruppo di devoti che sono sempre d’accordo con noi. Scompare il dovuto rispetto alle idee dell’altro, scompare la curiosità. Diventa difficile un dibattito su cose concrete: “solo nel mio gruppo mi trovo veramente al sicuro e non vedo minacciate le mie idee”. E, per finire, è dunque giusto che io fondi un movimento, con un suo nome che cambierà per sempre e in modo radicale la storia della psicoterapia.
In realtà questa tendenza a rifondare sempre tutto è il problema della psicoterapia. Se smetto il confronto nutrendo disprezzo verso gli altri sono destinato nel tempo a ritrovarmi lontano dai luoghi dove il nuovo accade. E così le idee divengono marmoree, fissate in uno spazio atemporale. Ma se non ho il coraggio di una discussione franca e dura, emargino automaticamente le persone creative che se ne vanno, mi lasciano, per andare a discutere altrove.
Questi sono i cattivi maestri. Che con la loro brillantezza creano, ma generano anche problemi nel tempo. Ne parla George Steiner in “La lezione dei maestri”. Invece il vero maestro lascia crescere e maturare come Socrate e accetta l’indipendenza di giudizio nel quadro di una relazione che dura nel tempo.