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La rappresentazione della Psicosi in Roman Polanski: L’inquilino del terzo piano (1976)

L'inquilino del terzo piano illustra il processo dello scompenso psicotico con grande raffinatezza e una potenza visiva a tratti difficile da sopportare...

Di Gianluca Frazzoni

Pubblicato il 02 Nov. 2011

Aggiornato il 19 Mag. 2016 13:58

L’inquilino del terzo piano di Roman Polanski: sull’onda di ciò che è stato detto e scritto riguardo a Carnage, certamente un film straordinario, vorrei parlarvi di un altro film dello stesso regista, pardon dello stesso Maestro, che affronta il tema della malattia mentale in modo quantomai chirurgico e sconvolgente.

Si tratta de L’inquilino del terzo piano, che insieme a “Repulsion” e a “Rosemary’s baby” completa la trilogia dedicata da Polanski al lato oscuro, ai meandri orrorifici della mente umana, sebbene gran parte della sua produzione possa a mio avviso ricondursi ad inquietudini sottili e morbose che l’essere umano sperimenta nella propria esperienza.

L’inquilino del terzo piano inizia e termina con la stessa scena, un paio di occhi che spuntano da un corpo quasi interamente bendato e ingessato. E l’urlo di chi riconosce il proprio carnefice ma non può indicarlo. Nella prima scena il letto d’ospedale è occupato da una ragazza, l’inquilina del terzo piano precedente all’arrivo di Roman Polanski – il regista dà il volto al proprio personaggio – che precipitando da una finestra in circostanze incomprensibili lascia la vita e l’appartamento. Polanski va a trovarla in ospedale, un’impeccabile visita di cortesia che il film ci suggerisce essere l’incontro tra un assassino e la sua vittima. Agli antipodi del film, quando cala il sipario, è Polanski a giacere immobile sul letto dopo essersi buttato per due volte dalla finestra maledetta ed è… Polanski ad osservare gli occhi che urlano.

 

La psicosi ne L’inquilino del terzo piano

Tra i due fotogrammi, una pellicola che illustra il processo dello scompenso psicotico con una straordinaria raffinatezza concettuale unita ad una potenza visiva a tratti difficile da sopportare. Polanski, il suo personaggio, che non sappiamo quanto sia distante dal padre artistico data la sconcertante precisione di ogni dettaglio e l’interpretazione a dir poco diabolica, si insedia nell’appartamento e inizia un progressivo ritiro nella follia: allucinazioni e deliri sono dapprima accennati allo spettatore sotto forma di piccoli dubbi, impercettibili perdite di controllo dinanzi ad un ambiente che sembra modificarsi per ragioni che il protagonista non comprende, poi prende forma sempre più consistente il ruolo dei vicini, irritati per i rumori sempre più intollerabili che provengono dall’appartamento del terzo piano.

Sono i rumori della follia, di Polanski, barricato in casa per sventare l’attacco dei persecutori che si moltiplicano; nulla è sufficiente, nemmeno trascinare i mobili contro la porta e rifugiarsi negli angoli più remoti della psiche. Gli occhi iniettati d’odio dei nemici entrano dappertutto e il protagonista può solo fuggire in un baratro sempre più profondo. La disperazione diventa quasi satanica e si avventa sull’identità sessuale del protagonista, Polanski inizia a travestirsi, a truccarsi e osserva con sanguigno compiacimento la propria opera notturna mentre la compie. Il risveglio, nelle vesti di una signora allo sbando, è terrificante e incomprensibile. Nella sua vestaglia l’uomo si trascina alla finestra, aprendola per l’ultimo rimedio. L’impatto è tremendo ma non fatale, Polanski si rialza con le poche ossa che possiamo immaginare siano rimaste sane e risale le scale davanti allo sguardo attonito dei vicini. Il secondo schianto, pochi istanti dopo, lo ridurrà sul letto d’ospedale ad osservare la propria agonia.

Si è rimproverato a molti film sulla patologia mentale di non essere realistici, di non trattare il tema con la dovuta accuratezza concettuale. L’inquilino del terzo piano va oltre il valore di una pellicola ben fatta, perché descrive i passaggi clinici di una patologia psichiatrica ma non li pone al centro della vicenda in modo didattico; si serve in primo luogo della pazienza narrativa, senza rifilare alla platea la figura immediata e grezza del matto Napoleone-dipendente. La mente folle è una mente travolta da emozioni insopportabili, da occhi che si infilano dappertutto, come il dolore che al contempo percepisce. E la realtà normale diventa nel film una delle diverse realtà possibili; bastano alcuni oggetti fuori posto, alcuni sguardi strani a modificarla di un frammento, generando nel protagonista un malessere al quale egli riesce ad attribuire significato solo elaborando un delirio.

Come spettatori del film e come addetti ai lavori della salute mentale assistiamo alla medesima scena, la sottile perdita di controllo di una diade spirito-materia che non si riconosce più. La mia seconda visione del film di Polanski, nel minuscolo e buio cinema Azzurro Scipioni – storica sala romana di cinema e di cultura in cui mi sono ritrovato in totale solitudine durante la proiezione – è stata qualcosa che Freud avrebbe incluso nel concetto di perturbante. Ma poiché siamo cognitivisti basterà il commento di un collega entrato nel cinema a pochi minuti dall’epilogo:

“L’ho visto un sacco di volte e ogni volta mi mette la stessa paura”.

 

L’inquilino del terzo piano (1976) di Roman Polanski, TRAILER:

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