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La sindrome del bianconiglio, il tempo che fugge e il tentativo di controllarlo oltremisura

Oggi è possibile controllare il tempo con le risorse che abbiamo ma rischiamo di arrivare ad un momento in cui ci si accorge di essersi persi qualcosa

Di Chiara Manfredi

Pubblicato il 28 Ott. 2015

Aggiornato il 23 Giu. 2016 09:55

Avere il controllo di qualcosa implica anche il rischio di romperla. La possibilità di scegliere porta con sé la possibilità di sbagliare. Così, può capitare che si definiscano priorità opinabili, che si investa il tempo in una certa direzione, senza avere presente che abbiamo delle scadenze, o quanto meno dei momenti in cui dobbiamo fare un consuntivo.

Il tema del tempo è una cosa che ci portiamo dietro da molto (tempo). L’unica cosa che non si può comprare, che non si può rallentare o accelerare, che va avanti a prescindere da ciò che facciamo. In un periodo storico in cui i mezzi di comunicazione ci permettono di annullare le distanze, i mezzi di trasporto ci aiutano a limare il tempo, a favore di un’operatività sempre maggiore. Possiamo minimizzare tutti i cosiddetti “tempi morti”.

Parallelamente, ci siamo sempre più resi indipendenti dal tempo scandito dalle stagioni e dalle giornate. Possiamo decidere di passare un dicembre a 30 gradi migrando in Paesi diversi dal nostro; con l’allargamento a macchia d’olio del lavoro in remoto e delle collaborazioni in differita, possiamo lavorare di notte e dormire di giorno, gestendo quasi completamente il nostro tempo e ribaltandone la concezione a nostra discrezione. Se un secolo fa la vita dei contadini era scandita dal ritmo delle stagioni e le giornate da quello del sole, ora possiamo fare più o meno tutto ignorando questa alternanza.

Avere il controllo di qualcosa però implica anche il rischio di romperla. La possibilità di scegliere porta con sé la possibilità di sbagliare. Così, può capitare che si definiscano priorità opinabili, che si investa il tempo in una certa direzione, senza avere presente che abbiamo delle scadenze, o quanto meno dei momenti in cui dobbiamo fare un consuntivo.

Sono le storie che sentiamo poi in terapia, ma non solo, di persone che hanno imposto la loro impronta sul tempo e sugli anni, senza considerare che gli anni non sono tutti uguali e che davvero “c’è un tempo per ogni cosa”. Sono le storie di grandi manager che si risvegliano a 50 anni e si sentono molto soli, di grandi donne che a un certo punto hanno chiaro e lampante che il tempo scorre e che alcuni progetti non sono più percorribili. Persone molto in gamba, che vivono con questa “sindrome del Bianconiglio” fino a una certa età, in cui divorano tutto, ottengono tutto, raggiungono tutto, spuntano ogni obiettivo sulla lista. E poi? E poi sono passati 20 anni e alcune porte si sono chiuse senza che neanche se ne accorgessero.

La fregatura spesso è proprio quella, la necessità di dirigere la propria vita al 100% dove si vuole, e la capacità di farlo. Essere bravi a dirigere le cose, essere bravi a gestirle, spesso ti porta a non renderti conto che per alcuni aspetti, soprattutto quelli personali e relazionali, uno dei fattori di buona riuscita è la quotidianità, è proprio quel tempo perso. Perdere tempo insieme, conoscersi insieme, stare nelle situazioni senza dirigere nulla. Perdere treni, spostare confini, spegnere le sveglie.

Sicuramente, la cosiddetta “cultura occidentale” che promuove produttività e tempestività facilita questa corsa continua verso il prossimo obiettivo. Forse anche a partire da questo, negli ultimi tempi abbiamo assistito a un buon successo di tutte quelle tecniche o quegli approcci che prevedono una visione più globale dell’esistenza e del ruolo del tempo in essa, come l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT; Hayes, Strosahl & Wilson, 1999), in cui si parla sì di disturbi e di problematiche specifiche, ma si parla anche di direzionalità, di ambiti di vita, di investimento. Paradossalmente, in un contesto come quello attuale in cui possiamo muoverci in ogni direzione e in cui possiamo teoricamente essere ovunque e fare qualunque cosa, quello che dobbiamo imparare a fare è semplicemente stare fermi.

Come quando un secolo fa ci si alzava con l’idea di seminare ma si doveva restare a casa perché pioveva e in inverno, comunque, alle 16 si smetteva di lavorare perché non c’era più luce a sufficienza. Abbiamo capito come smontare il giocattolo, con il rischio di non saperlo rimontare. Allora forse, dopo aver capito come renderci indipendenti dal tempo, la soluzione per trovarci coerenti con noi stessi è lasciare che il tempo ci vincoli un po’ di più, rimanere fermi mentre sentiamo che i 50 anni non sono più i 40, che i 40 non sono più i 30 e che alla fine va benissimo così. Smettere di combattere e di sbatterci in ogni direzione, rimanere fermi nella consapevolezza che in un generalizzato caos, il tempo è una delle variabili che possono darci sicurezza, perché comunque in una giornata le ore sono 24. E, anche se non ci piace, sono 24 lo stesso.

Spesso quello che facciamo è anticipare quello che sarà, per poi avere nostalgia di quello che avrebbe potuto essere. E quello che è, è l’unica cosa che ci rifiutiamo di considerare.

Il futuro, il futuro! È la nostra cultura, basata su ciò che potremmo essere, compreso l’Evangelio (sia detto con il dovuto rispetto) perché di noi sarà il Regno dei Cieli, tempo futuro, insomma, l’avvenire, visto che il passato è un disastro e il presente non ci basta mai. E niente, sai, davvero niente basta, nemmeno le ginestre che fioriscono a maggio per chi sa vederle e che io guardavo senza vedere, come di solito facciamo tutti, fino a cadere nella nostalgia dell’irreversibile, che è la tomba definitiva di tutti quelli come noi. (Tabucchi, 2009)

Allora forse la saggezza sta nella capacità di riprenderci il vincolo del tempo e delle stagioni, e stare felicemente imbrigliati in una cosa che invece di darci dei limiti ci dà una struttura.

[blockquote style=”1″][…] e per riaddormentarmi penso che ti scriverei che non sapevo che il tempo non aspetta, davvero non lo sapevo, non si pensa mai che il tempo è fatto di gocce, e basta una goccia in più perché il liquido si sparga per terra e si allarghi a macchia e si perda. […] E poi ti direi di certe notti in cui parlavamo, di quella casa sul mare, di certi momenti a Roma, dell’Aniene, e di altri fiumi che abbiamo guardato insieme pensando che essi scorressero soli, senza accorgerci che noi scorrevamo con loro.[/blockquote] (Tabucchi, 2009).

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SCRITTO DA
Chiara Manfredi
Chiara Manfredi

Teaching Instructor presso Sigmund Freud University Milano, Ricercatrice per Studi Cognitivi.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Hayes, S. C., Strosahl, K. & Wilson, K. G. (1999). Acceptance and Commitment Therapy: An experiential approach to behavior change. New York: Guilford Press.
  • Tabucchi, A., (2009). Il tempo invecchia in fretta. Milano: Feltrinelli.
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