Diagnosi e prevalenza della vulvodinia
La vulvodinia è un disturbo complesso e debilitante caratterizzato da dolore vulvare cronico, con un impatto dannoso sulla qualità di vita del paziente.
La sua eziologia è multifattoriale e poco chiara, colpisce dal 7% al 15% delle donne. Si tratta di una condizione eterogenea contrassegnata da molteplici fattori scatenanti, il che rende difficile definire uno standard di riferimento per il suo trattamento. L’International Society for the Study of Vulvovaginal Disease (ISSVD) ha recentemente definito la vulvodinia come una sindrome cronica dolorosa, inerente la zona vulvare, non sostenuta da alterazioni clinicamente visibili e caratterizzata da sensazione di bruciore e dolore. Il disagio vulvare è spesso descritto come un dolore urente con assenza di cause visibili o di uno specifico disturbo neurologico identificabile a livello clinico, della durata di almeno tre mesi. È possibile classificare la vulvodinia in base:
- alla localizzazione del dolore nella vulva (circoscritto, generalizzato o misto)
- alle modalità in cui si manifesta (al contatto o provocato, spontaneo o non provocato, misto)
- al modello temporale (intermittente, costante, persistente, immediato o ritardato)
- all’insorgenza (primaria o secondaria)
La vulvodinia può interessare gran parte della regione vulvare, perineo e zona anale o l’intera regione innervata dal nervo pudendo, in questo caso si parla di vulvodinia generalizzata. Se invece i sintomi si focalizzano in una zona circoscritta dell’area vulvare, si tratta di una forma localizzata che descrive la vestibolodinia. Si parla di vulvodinia provocata quando è prodotta da stimolazione, contatto, sfregamento, penetrazione vaginale e allodinia. I fattori che contribuiscono alla vulvodinia provocata potrebbero includere infezioni vulvovaginali, bassi livelli di estrogeni e disturbo d’ansia sottostante. Nei casi in cui i sintomi sono quasi sempre presenti, eludendo le stimolazioni, si parla di vulvodinia spontanea. È presente una forma mista quando è sia provocata che spontanea.
Il trattamento della vulvodinia deve essere personalizzato in base all’anamnesi del paziente e ai risultati dell’esame obiettivo. Nel 2001 è stato condotto uno studio epidemiologico (Harlow., 2003) presso l’Harvard Medical School, con destinatari circa 5000 donne tra i 18 e i 64 anni appartenenti a una comunità del Massachusetts. E’ stato rilevato che il 16% delle donne che hanno risposto al questionario ha sofferto di dolore vulvare cronico e il 90% afferma che il disturbo è durato per molti anni. La comparsa dei sintomi ha un’incidenza per lo più rilevante nelle giovani donne, nella terza e quarta decade della vita. Ad oggi si registra una percentuale del 18% di donne colpite da vulvodinia, a conferma che questa non è una malattia rara, ma anzi, se non diagnosticata in tempi brevi e sottoposta a un corretto trattamento, si rischia la cronicizzazione.
Due sono i principali motivi che minimizzano l’incidenza della malattia: un numero significativo di medici non riconosce la patologia e tende a classificarla come un disturbo di natura psicologica e le donne hanno difficoltà nell’esprimersi a riguardo della loro sfera intima. Il dolore vulvare è stato evidenziato come una condizione altamente associata a disabilità sostanziale. Sebbene la vulvodinia sia una sindrome dolorosa plurifattoriale in cui interagiscono le funzioni psicologiche, sociali e sessuali, viene fatta una diagnosi di esclusione, in cui è possibile trattare cause quali dermatosi, infezioni, neoplasie e patologie neurologiche.
Eziologia della vulvodinia
Nonostante la sua prevalenza, l’onere economico e l’impatto personale (Chisari et al., 2021), non è ancora stato possibile stabilire una causa ben precisa che spieghi il manifestarsi della malattia. Si ritiene che sia una condizione a eziologia multifattoriale, con elementi organici e funzionali. La componente organica si basa principalmente su tre possibili cause:
- iperattivazione dei mastociti, ovvero cellule che danno risposta infiammatoria in difesa a un attacco da agenti esterni, in questo caso localizzati nella mucosa vestibolare. Se però questi attacchi si manifestano frequentemente, sotto forma ad esempio di infezione o irritazione, i mastociti ipersensibilizzati iniziano a svolgere la loro funzione anche in assenza di attacchi esterni determinando così infiammazione e dolore cronico.
- alterazione neurologica descritta dalla combinazione della sensibilizzazione periferica dei nervi sensoriali provocata anch’essa da infiammazione o trauma e dal cambiamento nella trasmissione sensoriale del dolore.
- fattore muscolare, si pensa alla disfunzione psicosessuale come il risultato di un’infiammazione cronica della mucosa vestibolare, provocando una contrattura della muscolatura pelvica accompagnata da dolore.
In merito alla vulvodinia intesa come disturbo funzionale si fa riferimento alla scarsa consapevolezza che le donne hanno del proprio corpo rispetto alle donne sane, condizione presente anche nelle donne che soffrono di vaginismo (Petersen et al., 2008).
La vulvodinia è stata associata a condizioni di dolore cronico tra cui vescica dolorosa, sindrome dell’intestino irritabile e fibromialgia (Gardella et al., 2008). L’origine più accreditata è un disturbo da dolore neuropatico. Il dolore neuropatico è definito come un dolore complesso causato da una lesione primaria o da una disfunzione del sistema nervoso ( Dieleman J.P et al., 2008). I pazienti lamentano un dolore bruciante che può essere costante ed esacerbato da alcuni fattori scatenanti. Gli studi suggeriscono risposte sia centrali che periferiche agli agenti neuromodulatori, supportando ulteriormente questa eziologia. La disfunzione del pavimento pelvico può essere una condizione predisponente o coesistente. La terapia fisica e il biofeedback possono migliorare il tono muscolare e i sintomi del dolore quando presenti.
Aspetti psicologici della vulvodinia
È importante considerare che la vulvodinia, in veste di malattia cronica, non incide solo a livello fisico ma rappresenta un vero e proprio pericolo per l’integrità psicologica, sociale, relazionale e identitaria della persona. Ricevere diagnosi di vulvodinia significa ritrovarsi travolti in una condizione che obbliga chi ne soffre a rimodellare i propri progetti futuri e ricreare una nuova immagine di sé. Il condurre una quotidianità limitante, interfacciarsi all’isolamento sociale, essere sminuita, avere restrizioni riguardanti la dieta, assumere farmaci, sentirsi un peso per gli altri, porta a continui paragoni circa il dislivello qualitativo rispetto la vita precedente.
Alla luce delle difficoltà e dei cambiamenti che la vulvodinia introduce nell’esistenza della persona, quest’ultima si trova a vivere un forte momento di fragilità, alla ricerca quasi maniacale di un equilibrio tra il voler essere sana e forte e l’essere malata e fragile.
Per tale motivo, dal punto di vista psicologico, ci si ritrova ad affrontare la malattia come fosse un lutto e lo si fa attraversando diverse possibili fasi: negazione o rifiuto quando la persona nega la possibilità di avere la malattia, rabbia o collera se la reazione si descrive con atteggiamenti aggressivi che vanno a simboleggiare una richiesta di aiuto, depressione un momento nel quale si inizia a prendere coscienza delle privazioni che la malattia causa con il suo avanzare, elaborazione e accettazione quando la persona raggiunge piena consapevolezza della propria condizione e l’accoglie. Negli anni varie ricerche si sono interessate allo studio dei vissuti emotivi di pazienti con vulvodinia, con l’obiettivo di individuare sia l’influenza della malattia rispetto la qualità di vita delle donne, sia fattori di rischio responsabili, che accomunati alla genetica e a componenti organiche possano determinare l’esordio della vulvodinia.
Tra gli aspetti psicologici individuati è importante considerare i seguenti.
La componente affettiva: il primo elemento da esaminare è legato alle emozioni. Queste non sono altro che manifestazioni dinamiche che hanno origine da meccanismi cerebrali, influenzate da esperienze esterne. Possono provocare delle alterazioni ai vari livelli psichici, somatici, vegetativi e rappresentano la principale considerazione che la persona fa rispetto al mondo esterno, decretando positività o negatività a un determinato evento. Si manifestano in diversi modi, attraverso il linguaggio, i gesti o con le espressioni facciali. Le emozioni più frequenti sono: ansia, rabbia, paura, depressione; possono insorgere anche disturbi psicosomatici, catastrofizzazione e ipervigilanza al dolore.
L’ansia è una variabile fondamentale nella vulvodinia, principalmente descrive l’ampia angoscia che pervade la perdita di controllo nel non sapere come e quando si manifesta il dolore che insorge mediante disturbi psicofisiologici (caratterizzati da tachicardia, iperventilazione, tensione muscolare), disturbi psichici (fobie, pericolo, preoccupazione, pessimismo), disturbi comportamentali (alterazione del sonno, disturbi dell’alimentazione, irritabilità). Si è soliti pensare che la sofferenza di una malattia cronica sia per lo più correlata alla depressione, ma vari studi hanno registrato che una percentuale del 35% di donne con vulvodinia soffre di ansia e solo 18% di depressione. In questi pazienti l’ansia è caratterizzata da comportamenti di catastrofizzazione e ipervigilanza, in grado di assumere le proprietà della paura della morte e del ricovero.
La rabbia rende la paziente suscettibile, non disponibile nel sottoporsi alle cure, alle visite, con tendenza a rinviare gli appuntamenti, mette a repentaglio le relazioni interpersonali, il rapporto con la famiglia e la fiducia nei confronti del personale sanitario, è causa di dispendio di energie e incremento di tensione e ansia.
La paura è descritta mediante tre fattori: la componente cognitiva rimanda al continuo pensiero della morte e del non trovare una cura, creando così uno stato di continua allerta nei confronti di ipotetiche minacce. La componente fisiologica riguarda l’attivazione del sistema nervoso. Il fattore comportamentale è mirato all’attuare soluzioni con lo scopo di protezione da possibili rischi. Nelle donne con vulvodinia si registrano principalmente tre conseguenze:
- La paura che la sintomatologia dolorosa possa interrompere negativamente lo svolgimento delle azioni quotidiane, contrastando il raggiungimento degli obiettivi prefissati; questo determina uno stato di iper-controllo anche nel programmare gli impegni, in quanto si va incontro alla paura di non riuscire a portarli a termine a causa del sopraggiungimento del sintomo doloroso.
- La paura che il dolore comprometta gli aspetti cognitivi più importanti come l’attenzione, la memoria, le prestazioni, aumentando gli ostacoli nelle relazioni sociali.
- La paura che il dolore pregiudichi l’identità e modifichi l’immagine di sé. La manifestazione della depressione può essere primaria o secondaria (Stewart De et al., 1994). Nel primo caso è antecedente alla vulvodinia quindi aumenta la reattività e abbassa la sopportazione; nel secondo caso, invece, sussegue la malattia, pertanto, il dolore è causa della depressione stessa. Alla depressione si lega un forte senso di colpa che nasce dall’interrogarsi spesso sul motivo dell’insorgenza della malattia e in molti casi si attribuisce quel dolore a sé stessi generando sentimenti di vergogna, inadeguatezza e bassa autostima.
L’impatto della vulvodinia sulla qualità di vita delle donne
La vulvodinia non fa irruzione all’improvviso. Le donne sono sottoposte per un lasso di tempo abbastanza lungo, a vari test diagnostici, analisi di approfondimento, interventi invasivi e fisioterapie, con l’obiettivo di trovare una soluzione alla loro sofferenza. In questa condizione sconfortante, in cui facilmente ci si sente incompresi e soli, le pazienti si abbandonano a sentimenti di rabbia e nervosismo, che le portano a perdere la fiducia negli specialisti e ad abbandonare la cura. Questo succede soprattutto quando avviene un ritardo diagnostico in media di quattro/cinque anni, periodo in cui il personale medico è messo in dubbio dal punto di vista professionale perché ritenuto impreparato nel comprendere la patologia. Imparare a convivere con una malattia cronica, nello specifico la vulvodinia, significa interfacciarsi ogni giorno con una miriade di sintomi che rendono la patologia invalidante e che riducono la qualità di vita delle donne. Diverse ricerche hanno dimostrato come la vulvodinia riporta significative conseguenze a più livelli:
- Livello fisico: provoca una diffusione del suo processo infiammatorio interessando altri organi e distretti e rendendo difficile una corretta e rapida diagnosi a causa della similarità sintomatologica con altre patologie.
- Livello psicosessuale: le donne con vulvodinia provano imbarazzo nel parlare della sintomatologia che la malattia provoca e spesso evitano un confronto con i dottori per paura di non essere credute o indirizzate a un colloquio psichiatrico. Questo le rende psicologicamente fragili, sperimentano un forte senso di colpa, subiscono un profondo calo dell’autostima, che si ripercuote nella sfera sessuale, essendo il dolore un importante inibitore del desiderio e dell’eccitazione, con impoverimento della risposta sessuale e conseguente insoddisfazione. Si raggiunge una piena frustrazione nei confronti dell’intimità e del proprio corpo. La donna si ritrova così in una condizione estenuante, senza energie, vulnerabile, scoraggiata nella prospettiva futura e nei casi più gravi con pensieri sul fin di vita.
- Livello relazionale: quando nella coppia uno dei due ha una patologia cronica, inevitabilmente si innescano delle complicazioni. Se la malattia in questione è la vulvodinia le difficoltà che insorgono interessano principalmente la sfera sessuale, in quanto ogni tipo di forma intima è limitata e questo con il trascorrere del tempo induce all’astinenza. Le risposte del partner di fronte al dolore genitale della donna possono essere principalmente di tre tipi: licenziose (danno cura e affetto), negative (con segnali di ostilità), facilitative (favorendo il coping adattivo) (Pukall et al., 2016). La percezione delle donne alle risposte negative del partner è associata a dolore insistente, sintomi depressivi, umore deflesso, insoddisfazione sessuale.
- Livello sociale: ad oggi gli esami per una visita specialistica e le varie terapie farmacologiche per il trattamento della patologia sono a carico della paziente, questo perché la vulvodinia non è ancora stata riconosciuta come malattia invalidante dal Sistema Sanitario Nazionale (SSN) e non è stata introdotta nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). Non avendo alcun aiuto a livello assistenziale, le spese risultano difficilmente sostenibili e così le pazienti sperimentano sentimenti di solitudine e frustrazione. In campo lavorativo le donne con vulvodinia riscontrano notevoli difficoltà: può diventare insostenibile assumere la posizione da seduta per tutto il giorno e quindi possono vedersi costrette ad assumere impieghi part-time o a licenziarsi, possono perdere giorni lavorativi per dedicarsi alle cure e alle visite, questo perché molto spesso i medici specialisti ricevono in città diverse. Anche nella comunità sanitaria si riscontrano implicazioni, poiché i medici hanno difficoltà a lavorare con pazienti con vulvodinia a causa di una mancata conoscenza e formazione della malattia, della gestione del dolore, delle metodiche per la valutazione dei sintomi. Diverse prove dimostrano come le donne con vulvodinia ricevono poca considerazione nelle strutture sanitarie, questo perché il loro dolore è considerato “invisibile”. Eppure, il rapporto medico-paziente è di fondamentale importanza per chi convive con una patologia cronica, in quanto può influenzare la capacità di gestione del dolore. Misurare il dolore non è semplice in quanto si tratta di una percezione soggettiva, un’esperienza in cui i concetti personali si addizionano e relazionano con l’intensità e la durata. Data l’eccezione prettamente personale, il dolore non può essere valutato in maniera neutrale, ma la valutazione dipende sia da quanto la paziente è in grado di comunicare, sia dalla capacità del medico di comprendere. Non esiste uno strumento ideale per la misurazione quantitativa del dolore vulvare ma è possibile utilizzare una delle scale self-report disponibili nel vasto panorama metrico (Molinari E., Castelnuovo G., 2010), ad esempio la Verbal Rating Scale (VRS), è formata da un elenco di parole che esprimono vari livelli di intensità di dolore, ai due poli opposti si trovano aggettivi che si riferiscono a dolore intenso e altri ad assenza di dolore; la Visual Analogue Scale (VAS), una linea lunga all’incirca 10 cm con gli estremi che indicano “nessun dolore” e “massimo dolore”. Si chiede alle pazienti di indicare sulla linea il punto in cui si colloca il dolore percepito nel momento della somministrazione. Nella Behavior Rating Scale si propongono una serie di comportamenti e le pazienti devono scegliere quelli che più indicano la loro condizione, quindi quanto il dolore interferisce con le proprie attività quotidiane; la Picture Scale utilizza otto immagini che raffigurano volti con espressioni facciali che descrivono vari livelli, le pazienti devono indicare quali rappresentano il loro dolore. Da un punto di vista qualitativo, la valutazione del dolore avviene con l’utilizzo di questionari che prendono anche in considerazione le conseguenze sulla qualità di vita, ad esempio il McGill Pain Questionare (MPQ), un test di valutazione verbale del dolore, con una lista di termini periodicamente utilizzati dalle pazienti nella descrizione della sintomatologia. Il test raggruppa queste parole in tre classi: 1) dimensione sensoriale, 2) dimensione affettiva, 3) dimensione valutativa. Inoltre nel questionario è presente la VRS e l’immagine di un corpo umano utile per identificare la localizzazione del dolore.