Le libere donne di Magliano (2023) di Mario Tobino – Recensione
Perché abbiamo paura di litigare? La chiusura emotiva
Il ruolo degli antiscopi nel mantenimento della sofferenza psicologica: “So quello che non voglio! Trascuro quello che vorrei”.
Sii te stesso a modo mio (2023) di Matteo Lancini – Recensione del libro
L’awake surgery: sottoporsi da svegli a un’operazione chirurgica
Perché alcune persone preferiscono ancora i prodotti fisici?
Overthinking: quando pensare troppo fa male
Il criminal profiling: un po’ di chiarezza sulla profilazione dei criminali
Il fenomeno del doomscrolling: cos’è e come smettere?
Tecniche di neuroimaging
Storia delle neuroscienze
Cosa si intende per catastrofizzazione
La catastrofizzazione è un’attività predittiva negativa focalizzata sulla realtà, ovvero su eventi oggettivamente minacciosi/pericolosi che potrebbero accadere.
Marta è a casa, è alle prese con le valigie per la partenza del giorno dopo. Il suo aereo decollerà nel primo pomeriggio. Pensa alla destinazione, è una vita che sogna quel viaggio a Tokyo. Per arrivarci pensa però dovrà affrontare un volo di più di 12 ore: “Il carburante sarà sufficiente? I piloti non sentiranno la stanchezza di tutte quelle ore? E se l’aereo cade?”, la gioia del viaggio svanisce, lascia il posto all’ansia. Marta sente il suo cuore batterle forte in petto, suda, le manca quasi il fiato. Si chiede se forse non sarebbe meglio rinunciare al viaggio dei suoi sogni.
Nella storia appena esposta troviamo un esempio di catastrofizzazione. La catastrofizzazione è la tendenza ad anticipare gli eventi futuri attraverso una catena di previsioni negative (“Il carburante sarà sufficiente? I piloti non sentiranno la stanchezza di tutte quelle ore? E se l’aereo cade?”). Essa fa quindi riferimento al prevedere una serie di minacce e pericoli, una sciagura in qualche modo oggettiva.
La catastrofizzazione come credenza irrazionale
Nell’esempio di Marta troviamo:
- una situazione (A): Marta è a casa, prepara le valigie;
- un pensiero (B): “Il carburante sarà sufficiente? I piloti non sentiranno la stanchezza di tutte quelle ore? E se l’aereo cade?”;
- una conseguenza emotiva (C): prova una forte ansia (e forse anche una conseguenza comportamentale se Marta rinuncerà al viaggio)
Secondo l’approccio cognitivo comportamentale, in ognuno di noi, in determinate situazioni, insorgono particolari pensieri, di cui spesso non siamo consapevoli, che possono dar vita a emozioni e comportamenti problematici e fonte di malessere.
In particolare secondo Albert Ellis, uno dei fondatori della terapia cognitiva e il padre della Rational Emotive Behavior Therapy (REBT), i pensieri possono dividersi in pensieri – o credenze – razionali, chiamati rational beliefs, e pensieri – o credenze- irrazionali chiamati irrational beliefs.
Le credenze irrazionali, secondo la REBT, si possono dividere in quattro categorie:
- Doverizzazioni o Pretese
- Valutazione Globale (di Sé, del Mondo e/o degli Altri)
- Catastrofizzazione
- Intolleranza alla Frustrazione
Se si fa esperienza di un evento attivante (A) e si dà spazio alla credenza irrazionale (B), questa provoca emozioni disfunzionali (C), come ansia, rabbia, depressione, senso di colpa.
Dunque la catastrofizzazione è una delle credenze irrazionali alla base della sofferenza emotiva, in particolare essa predispone ad emozioni intense di ansia e paura.
Catastrofizzazione e terribilizzazione: quale differenza?
Sebbene si tratti di due termini poco utilizzati nel linguaggio comune, nel linguaggio specialistico catastrofizzazione e terribilizzazione sono spesso usati come sinonimi. In realtà tra loro esiste una differenza che è importante sapere: ciò consente, ai non esperti, di riconoscere meglio il motivo della propria sofferenza e, ai più esperti, di intervenire in modo più efficace con pazienti che presentano questa tipologia di pensieri irrazionali.
Mentre la catastrofizzazione è un’attività predittiva negativa focalizzata sulla realtà, ovvero su eventi oggettivamente minacciosi/pericolosi che potrebbero accadere, la terribilizzazione si riferisce a una valutazione più soggettiva del pericolo (si etichetta qualcosa in termini assolutamente negativi).
Facciamo un esempio: riferendoci all’episodio di Marta, un aereo che cade è un evento oggettivamente spaventoso/minaccioso (allo stesso modo un incidente, un lutto, un cataclisma, ecc.). Dunque il pensiero “L’aereo potrebbe cadere” è una previsione negativa di una sciagura oggettiva. In questo caso parliamo di catastrofizzazione.
“Sarebbe terribile se venissi lasciata dal mio fidanzato” – La fine di una storia d’amore è un evento spiacevole, molto triste, ma non rappresenta un pericolo. È la persona, in questo caso, a definire ed etichettare come “terribile” un evento non oggettivamente minaccioso e/o pericoloso. Si parla in questo caso di terribilizzazione.
Come rendere la catastrofizzazione “meno catastrofica”?
Abbiamo detto che la catastrofizzazione è una credenza irrazionale alla base della nostra sofferenza emotiva. Quali caratteristiche rendono un pensiero “irrazionale”?
Un pensiero è irrazionale quando non si basa sulla realtà verificabile dei fatti conosciuti. Quindi un pensiero irrazionale implica valutazioni che derivano da premesse non empiriche (non osservabili), ignorando la realtà in favore di ciò che la persona ritiene dovrebbe esistere. Queste valutazioni sono espresse in un linguaggio assolutistico: contengono parole come “mai”, “sempre”, “assolutamente” oppure “devo”, “deve”, “ho bisogno”, che implicano un bisogno incondizionato.
Per gestire la tendenza alla catastrofizzazione è utile:
- riconoscere il pensiero catastrofico: cosa temiamo in particolare?
- sottoporre il pensiero catastrofico a un’analisi della sua fondatezza, chiediamoci: in base a cosa pensiamo questo? Quali prove abbiamo che l’evento temuto si verificherà? Quanto è probabile che si verifichi davvero?
- ricordare che un pensiero non è necessariamente un dato di realtà: il più delle volte le previsioni catastrofiche si presentano sotto forma di immagini che ci spaventano e non riusciamo a distinguere tra pensiero e realtà, ci è sufficiente pensare a qualche guaio per stare male. Ma pensare a un pericolo non corrisponde all’effettiva esistenza del pericolo.
E per la terribilizzazione? Anche in questo caso torna utile:
- riconoscere il pensiero e riconoscere che siamo noi in realtà ad etichettare come “terribile” qualcosa che oggettivamente non lo è;
- ricordarsi che definire una cosa come terribile, implica dire che questa è la peggior cosa che possa accadere, a cui non si può porre rimedio. Ma chiediamoci: davvero non c’è rimedio?;
- comprendere che doloroso non significa terribile: per quanto uno scenario ritenuto terribile possa essere per noi fonte di sofferenza emotiva, queste emozioni dolorose non sono indicative del fatto che l’evento è la cosa peggiore che mi possa accadere (anche se sarò estremamente triste, ci sarà un rimedio);
- ridefinire l’evento temuto: definire ciò che temiamo come “triste”, “brutto”, “negativo”, anziché come “terribile”. Anche se di poco, questa ridefinizione ci aiuterà a stare lievemente meglio.
Queste indicazioni prendono spunto dagli interventi di disputing utilizzati in terapia, dove vengono condotti ovviamente in modo più preciso, attento e completo rispetto a quanto si possa fare in un articolo. Pertanto vanno lette come dei suggerimenti utili a capire meglio l’irrazionalità di quella catastrofizzazione fonte spesso di preoccupazioni e ansia. Laddove la sofferenza emotiva provata fosse percepita come ingestibile, raccomandiamo sempre di rivolgersi a un professionista della salute mentale.
Meme e psicologia culturale: contesti e valori dietro a semplici immagini
I meme che troviamo su Internet sono assimilabili a unità di informazione culturale che vengono trasmesse da una mente all’altra (Iloh, 2021). Essi riflettono contesti e significati specifici, maggiormente percepibili da alcuni e meno percepibili da altri.
La prima definizione di meme
Mentre in molti tra i più giovani sarebbero certamente in grado di identificare un meme qualora ne scorgessero uno, chiedere a questi ultimi di definirlo si rivelerebbe probabilmente un compito molto più arduo. Nonostante la popolarità dei meme, in realtà si sa sempre meno su cosa siano effettivamente e da dove derivi l’etichetta utilizzata per identificarli (Aslan, 2018). Il termine “meme” risale storicamente ai contributi di Richard Dawkins (1976) che nel saggio intitolato “Il gene egoista” utilizza la parola “meme” come sostitutivo del termine “gene”, in quanto assonanti, allo scopo di riflettere la locomozione e la diffusione di un gene da un organismo all’altro. Dawkins definisce dunque un meme come un’unità di trasmissione culturale o una mera unità di imitazione (2006, p. 192). Stando alla definizione elaborata da Dawkins alcuni esempi di meme potrebbero essere gli slang, ovvero quelle parole che utilizziamo per essere maggiormente espressivi rispetto a quanto potremmo esserlo utilizzando soltanto il gergo comune, oppure le tendenze nel campo della moda, per esempio quella delle chunky sneakers (Johnson, 2007). La popolarità di un meme è ciò che ne garantisce la sopravvivenza. I meme lottano l’uno contro l’altro per attirare l’attenzione degli individui; ciò che li rende “egoisti” è proprio la loro competitività con altri meme dovuta alla lotta per prevalere (Wiggins & Bowers, 2015). Di conseguenza, i meme vivono e muoiono grazie alla cultura e alla società che li adotta o li rifiuta.
I meme di Internet
I meme che troviamo su Internet si ispirano alla natura di quelli individuati da Dawkins, anche se vengono (nell’accezione comune) più spesso considerati come scherzi o battute che guadagnano visibilità attraverso la loro diffusione nel mondo digitale (Marwick, 2013). Invece di mutare in maniera casuale e di diffondersi attraverso una forma di selezione darwiniana come accade per quelli di Dawkins, i meme di internet vengono modificati costantemente e deliberatamente dalla creatività umana (Solon, 2013). Questi ultimi sono pertanto assimilabili a unità di informazione culturale che vengono trasmesse da una mente all’altra (Iloh, 2021). Indubbiamente, i meme di internet sono estremamente eterogenei e in costante evoluzione. Questi ultimi spaziano da un breve testo abbinato a un’immagine, a un’illustrazione, a una gif, a un video, a sequenze di immagini e via dicendo. Un noto esempio è la cosiddetta content image meme composta da una o più immagini con un testo sovrapposto, dove il testo trasmette il contenuto e l’immagine dà il tono (Majumder et al., 2017, p. 2). Questa forma di meme è caratterizzata dalla relativa facilità con cui viene creata o alterata e apre alla possibilità di modificare dei meme esistenti per generarne di nuovi. Tuttavia, è opportuno sottolineare che il solo fatto di unire un testo a un’immagine non è condizione sufficiente per la creazione di un meme. È la trasmissione, la diffusione e, in particolare per i meme di Internet, la rapidità della condivisione a qualificare un contenuto digitale come un meme (Gleik, 2011).
Meme e psicologia culturale
In psicologia, i meme possono essere intesi come unità e indicatori culturali (Wang & Wang, 2015). In particolare, i meme sono unità che riflettono contesti e significati specifici, maggiormente percepibili da alcuni e meno percepibili da altri. Jackson (2019) e Williams (2020) affermano persino che molte sfaccettature della cultura e dell’estetica popolare contenute nei meme non possano essere comprese senza la conoscenza pregressa del contesto da cui esse derivano. Questa ipotesi si sposa perfettamente con il noto esempio di Geertz (1973), secondo cui un individuo avrebbe bisogno di un più ampio contesto culturale per distinguere un ammiccamento da un semplice battito di ciglia. Allo stesso modo, alcuni conoscono il significato culturale contenuto e riflesso nei meme, mentre altri potrebbero non conoscerlo. Secondo gli psicologi culturali esistono delle caratteristiche specifiche che consentono ai meme di funzionare come delle unità culturali (Dawkins, 1976). Queste ultime includono: la fecondità, la fedeltà e la longevità (Jan, 1999; Marwick, 2013; Percival, 1994; Shifman, 2013, 2014). La fecondità descrive la velocità con cui un meme viene replicato (Jan, 1999). L’immagine del meme di Michael Jordan che piange, per esempio, è stata scattata alla cerimonia di ritiro dell’atleta statunitense ed è stata rapidamente modificata, rendendola virale sui social network. La fedeltà indica invece la riconoscibilità e la capacità di un meme di essere copiato accuratamente (Marwick, 2013; Voelkl & Noë, 2010).
La riproducibilità dello stesso meme di Jordan che piange è favorita dal fatto che esso prenda la forma di uno dei formati di meme più popolari, ovvero la content image meme, consentendo al pubblico di abbinare quella determinata foto ai testi più disparati.
La longevità incarna infine la durata, la persistenza e il progresso di un meme (Voelkl & Noë, 2010). Ancora una volta il meme del pianto di Jordan costituisce un ottimo esempio di questa caratteristica, in quanto esso è stato diffuso dalla cerimonia di ritiro dell’atleta, dove l’immagine ha avuto origine, fino ai giorni nostri. Attualmente, il meme in questione ha più di 12 anni e l’NBA ha persino commemorato il suo 10° anniversario nel 2019 (NBC Sports, 2019). Il meme di Jordan che piange costituisce peraltro un perfetto esempio di alta memorabilità, poiché anche quando l’atleta vi ha fatto riferimento durante il memoriale di Kobe Bryant nel 2020, il pubblico ha capito immediatamente il suo riferimento al meme e ha prontamente accennato una risata. In quell’occasione Jordan disse che le lacrime che stava piangendo per l’amico deceduto sarebbero probabilmente diventate un altro “meme di Jordan che piange”.
In conclusione, grazie alla loro stessa identità e al loro formato, i meme riflettono al meglio la cultura in cui essi vengono prodotti; sono distinguibili, adattabili e duraturi. In quanto tali, i meme hanno il potenziale di amplificare le rappresentazioni dei nostri valori, contesti, comunità e ambienti, incarnando tali dinamiche e offrendo alla ricerca qualitativa un terreno fertile per ulteriori approfondimenti su queste tematiche.
Imm. 1 – Il meme di Micheal Jordan per i lettori di State of Mind
Filosofia della Mente
Che rapporto c’è tra la mente e il cervello? Come fa la mente a rappresentarsi la realtà̀ esterna? È possibile spiegare i fenomeni mentali dal punto di vista delle scienze naturali? Questo articolo, che non ha certamente la pretesa di essere esaustivo, vuole spiegare in modo sommario e semplice di cosa si occupa la filosofia della mente e come questa interagisce con le scienze psicologiche.
Introduzione
La mente umana è un territorio complesso e ancora sconosciuto. La filosofia della mente affronta i problemi tradizionali riguardo alla comprensione e alla definizione della mente, il suo funzionamento e il suo rapporto con il corpo e il mondo. Questi interrogativi sono stati dibattuti per secoli, spesso all’interno di altre branche filosofiche, come la metafisica e la gnoseologia. Con lo sviluppo delle neuroscienze, le problematiche si sono specificate nel dualismo mente-cervello.
Ci sono diverse posizioni sulla natura della mente, che vanno dalla considerazione delle proprietà mentali come qualcosa di separato e oggetto di indagine specifica, alla riduzione della mente all’attività cerebrale e all’approccio computazionale, che vede la mente come una macchina simile a un computer. Alcuni sostengono che la mente sia un fenomeno complesso che non può essere ridotto semplicemente alla fisiologia o alle analogie con le scienze computazionali.
La ricerca scientifica e sperimentale, unita alla riflessione filosofica, contribuisce a fornire nuove indicazioni per l’indagine nel campo dei processi mentali più complessi, come i sentimenti e le emozioni.
La filosofia della mente svolge il ruolo di base concettuale per la psicologia. Prima di studiare i processi mentali, gli psicologi affrontano domande filosofiche sul significato e la natura stessa di ciò che si intende per “mente” o per uno specifico processo di pensiero. La filosofia della mente fornisce quindi i fondamenti teorici necessari per comprendere i fenomeni mentali e per formulare ipotesi scientifiche che possano essere indagate tramite metodi empirici.
La filosofia della mente offre strumenti concettuali per affrontare le sfide concettuali e teoriche che sorgono nel campo della psicologia. Inoltre, questa disciplina stimola il pensiero critico e la riflessione su questioni etiche e morali legate alla comprensione e all’utilizzo delle conoscenze sulla mente umana.
Cos’è la filosofia della mente
La filosofia della mente è un ramo della filosofia che si occupa di esplorare e comprendere la natura della mente umana.
Ma cosa si intende quando si parla di “mente”?
La mente può essere considerata come quella dimensione interiore della nostra esperienza che ci permette di pensare, sentire, percepire e avere consapevolezza di noi stessi e del mondo che ci circonda. È ciò che ci caratterizza come esseri umani, consentendoci di avere esperienze soggettive e di riflettere sulle nostre emozioni, pensieri e intenzioni.
Tra gli aspetti centrali della mente che la filosofia si propone di esplorare, vi sono la coscienza, l’intenzionalità e l’identità personale.
La coscienza rappresenta la nostra capacità di essere consapevoli di ciò che accade sia dentro di noi che fuori di noi. È quel senso di essere presenti al mondo, di avere esperienze percettive e di essere consapevoli di noi stessi come individui.
L’intenzionalità riguarda la capacità della mente di essere rivolta verso qualcosa, come contenuto della propria attività mentale. Ciò significa che possiamo avere pensieri, desideri e credenze che si riferiscono a qualcosa di interno o esterno a noi stessi. Questo aspetto della mente solleva importanti questioni filosofiche riguardo alla natura della rappresentazione mentale e alla relazione tra la mente e il mondo esterno.
L’identità personale riguarda tutto ciò che rende una persona la stessa entità nel corso del tempo. La filosofia della mente si domanda se l’identità personale sia basata su caratteristiche fisiche, come il corpo, o su aspetti psicologici, come la continuità di memoria e di esperienze. Ciò spinge a riflettere sulla natura dell’identità individuale e su come essa sia collegata alla nostra esperienza soggettiva.
Principali teorie
La filosofia della mente si è sviluppata nel corso dei secoli attraverso l’elaborazione di diverse teorie che cercano di spiegare la natura della mente umana. Tra le principali teorie filosofiche sulla mente vi sono il dualismo, il materialismo e il funzionalismo, ognuna delle quali presenta differenze concettuali e implicazioni significative.
Il dualismo propone una visione secondo cui mente e corpo sono entità separate e distinte. Secondo questa teoria, la mente è un’entità non fisica che esiste indipendentemente dal corpo. Questo dualismo sostiene che la mente può influenzare il corpo e viceversa, ma le due sono considerate sostanzialmente diverse nella loro natura. La posizione del dualismo può sollevare questioni filosofiche complesse, come la natura dell’interazione tra la mente e il corpo e la possibilità di una sopravvivenza della mente dopo la morte del corpo.
Il materialismo, al contrario, sostiene che la mente è strettamente collegata al corpo e alle sue attività fisiche. Secondo questa prospettiva, tutte le esperienze mentali possono essere spiegate attraverso processi neurali e biologici nel cervello. Il materialismo considera la mente come il prodotto delle interazioni fisiche del cervello e del sistema nervoso. Questa teoria solleva questioni riguardo alla natura delle esperienze soggettive, dell’identità personale e della relazione tra mente e corpo.
Il funzionalismo è un approccio che si concentra sulle funzioni e sui processi mentali piuttosto che sulla loro sostanza specifica. Secondo questa posizione teorica, ciò che rende qualcosa una mente non è la sua composizione fisica, ma le sue capacità e le sue relazioni funzionali. Il funzionalismo pone l’accento sulle attività mentali e sul modo in cui esse interagiscono con l’ambiente. Questa prospettiva può offrire un modo di comprendere la mente che va oltre la sua manifestazione fisica, consentendo di esplorare il ruolo dei processi mentali nella nostra interazione con il mondo.
Le differenze concettuali tra queste teorie hanno profonde implicazioni non solo in ambito filosofico, ma anche in psicologia. La concezione che abbiamo della mente influenza la nostra comprensione dei processi mentali, delle malattie mentali, della consapevolezza e della natura dell’esperienza umana.
Contributi della filosofia della mente alla psicologia
La filosofia della mente e la psicologia sono due discipline che si intersecano in molteplici aree, contribuendo reciprocamente alla comprensione dei fenomeni mentali e ad ampliare la conoscenza della mente umana.
Una delle principali aree di sovrapposizione tra la filosofia della mente e la psicologia riguarda l’oggetto dell’indagine: i fenomeni mentali. La filosofia della mente si occupa di analizzare e definire concettualmente la natura e le caratteristiche della mente, tra cui la coscienza, l’intenzionalità, l’identità personale e l’esperienza soggettiva. Queste sono tematiche centrali anche nella psicologia, che studia i processi mentali e il comportamento umano. La filosofia della mente fornisce una base concettuale, contribuendo a definire e a chiarire i fenomeni mentali oggetto di studio della psicologia.
La filosofia della mente offre alla psicologia un approccio critico e analitico per indagare la natura dei concetti e delle categorie fondamentali utilizzati della disciplina stessa, come l’identità personale, la coscienza e l’intenzionalità, offrendo una definizione e una comprensione concettuale di tali fenomeni. Ad esempio, concetti come “mente”, “mente conscia” e “mente inconscia” richiedono una riflessione approfondita per comprendere le definizioni precise e le implicazioni che ne derivano. Questa branca della filosofia si occupa di esaminare le questioni ontologiche, epistemologiche e semantiche legate a tali concetti, offrendo le basi concettuali per molte teorie psicologiche, come la psicoanalisi di Freud o la psicologia cognitiva contemporanea. La filosofia della mente aiuta a definire i concetti chiave della psicologia, consentendo una maggiore precisione teorica e una migliore integrazione dei risultati empirici.
Inoltre, la filosofia della mente contribuisce alla psicologia fornendo un quadro teorico e concettuale che può essere applicato nello studio delle malattie mentali e nella terapia psicologica. Ad esempio, l’approccio filosofico del funzionalismo, che enfatizza le funzioni e i processi mentali piuttosto che la loro sostanza specifica, può fornire spunti preziosi per comprendere i disturbi psicologici e sviluppare interventi terapeutici. La filosofia della mente, dunque, aiuta a definire i confini e le caratteristiche dei fenomeni mentali, consentendo così alla psicologia di identificare i problemi, di analizzarli criticamente e di sviluppare modelli di intervento coerenti.
La filosofia della mente influisce anche sull’etica e sulla morale nella pratica psicologica. Riflette sulle questioni etiche riguardanti l’autonomia del paziente, il rispetto della dignità umana e il trattamento etico dei disturbi mentali. Ad esempio, la concezione filosofica della persona come un essere dotato di coscienza e intenzionalità implica una considerazione etica del paziente come un individuo con una sfera di esperienza e di volontà che va considerata e rispettata. La filosofia della mente contribuisce a sviluppare linee guida etiche per i professionisti della salute mentale, promuovendo un approccio rispettoso, consapevole e moralmente responsabile nei confronti dei pazienti.
Affrontando i problemi filosofici che la psicologia incontra lungo il suo cammino, la filosofia della mente contribuisce a formulare soluzioni e a far avanzare la comprensione della mente umana. Ad esempio, il problema del libero arbitrio, la natura dell’identità personale nel tempo o il rapporto tra mente e corpo sono tematiche che richiedono un’analisi filosofica approfondita. La filosofia della mente aiuta a chiarire le questioni concettuali e a offrire prospettive teoriche che possono essere integrate nella pratica e nella teoria psicologica. Attraverso la sua natura critica e analitica, la filosofia della mente favorisce il progresso della psicologia, incoraggiando la riflessione e la ricerca di soluzioni ai problemi filosofici che sorgono nell’ambito della comprensione della mente umana.
Riassumendo
La filosofia della mente è un affascinante campo di indagine che si interroga sulla natura e sulla comprensione della mente umana, sul rapporto mente-corpo, individuo-ambiente e tra le menti degli individui, combinando elementi di filosofia e scienze cognitive (come la psicologia e le neuroscienze). Attraverso il dialogo con le scienze cognitive, la filosofia della mente contribuisce a definire i fondamenti teorici utili per lo studio dei processi mentali e a raggiungere una comprensione più profonda dei meccanismi che sottendono il funzionamento mentale e il benessere psicologico.
La felicità nella teoria delle emozioni di base e spunti dalle neuroscienze affettive
La teoria delle emozioni di base postula l’esistenza di esperienze ed espressioni universali, innate e a prescindere dalle diverse culture. Tali emozioni vengono definite “primarie” e comprendono: la rabbia, la paura, la gioia o felicità, la tristezza, la sorpresa e il disgusto (Ekman, 1992).
La felicità nella storia della psicologia
Fin dai tempi di Aristotele, la felicità è stata considerata come la somma di due aspetti: l’edonia, ovvero il piacere, e l’eudaimonia, lo scopo di condurre una vita degna di essere vissuta (Annas, 1998). Il legame tra piacere e felicità, in particolare, ha una lunga tradizione nella storia della psicologia. Sigmund Freud, per esempio, sosteneva che gli individui “si sforzano di essere felici; vogliono diventare felici e rimanere tali. Questo sforzo avrebbe due componenti. Da un lato, l’essere umano mira all’assenza di dolore o dispiacere e, dall’altro, a provare forti sentimenti di piacere” (Freud & Riviere, 1930, p. 76). Una prospettiva divergente è che la felicità dipenda unicamente dall’eliminazione del “dolore e del dispiacere” così da consentire all’individuo di perseguire liberamente i propri scopi. Questa visione conferisce infatti un ruolo marginale all’edonia nella generazione della felicità, ma si adatta perfettamente alle parole di William James che, quasi un secolo fa, afferma: “La felicità, ho scoperto di recente, non è un sentimento positivo, bensì una condizione negativa di libertà da una serie di sensazioni restrittive di cui il nostro organismo sembra di solito la sede. Quando queste vengono eliminate, la chiarezza e la limpidezza del contrasto costituiscono la felicità” (James, 1920, p. 158).
Felicità come emozione universale
Nell’ambito delle neuroscienze affettive, le teorie delle emozioni di base si configurano tra quelle maggiormente accreditate da un punto di vista scientifico. Queste ultime postulano l’esistenza di emozioni universali, ovvero esperienze ed espressioni uniche, innate e condivise tra le culture. Tali emozioni vengono definite “primarie” e, in laboratorio, sono state associate a particolari espressioni facciali rintracciabili in individui di generi ed etnie differenti. Le emozioni primarie comprendono: la rabbia, la paura, la gioia (o felicità), la tristezza, la sorpresa e il disgusto (Ekman, 1992). Le teorie delle emozioni di base affondano tuttavia le proprie radici nella prospettiva evoluzionistica introdotta da Charles Darwin, il quale fu il primo a suggerire che le espressioni affettive costituissero delle mere risposte adattive alle situazioni ambientali in cui si trovava l’individuo. Secondo le teorie evoluzionistiche, le emozioni provate dall’essere umano sono state selezionate e conservate nel corso dei secoli, in quanto segnali efficaci nel garantire la sopravvivenza della specie (Plutchik, 1980). In effetti, sia le emozioni positive, per esempio la felicità, che quelle negative, come la tristezza, presentano lampanti funzioni adattive (Nesse, 2004). Per esempio, la felicità ci segnala che abbiamo raggiunto uno scopo e che quindi possiamo concentrarci su altro obiettivo o goderci un momento di meritato riposo. La tristezza ci segnala invece il fallimento di un nostro scopo e ci spinge a riorganizzare il nostro comportamento qualora volessimo continuare a perseguirlo (Castelfranchi, 2022).
Verso le basi neurobiologiche della felicità
Dato il potenziale contributo dell’edonismo alla felicità, è opportuno dedicare uno spazio alla comprensione dei meccanismi cerebrali associati al piacere, i quali sono peraltro presenti e similari nella maggior parte dei cervelli dei mammiferi.
Le evidenze scientifiche sul tema suggeriscono che i circuiti neurali coinvolti nel piacere derivante dalla soddisfazione di bisogni fondamentali, come dal cibo e dal sesso, si sovrappongano a quelli coinvolti nel piacere associato alla soddisfazione di bisogni secondari, per esempio denaro, arte, musica o altruismo (Kringelbach 2010).
All’interno di questi circuiti, un neurotrasmettitore in particolare costituisce la fonte primaria dei segnali di piacere provati dall’organismo: si tratta della dopamina. La via dopaminergica maggiormente coinvolta nei meccanismi di ricompensa è il cosiddetto sistema mesolimbico. Quando facciamo esperienza di stimoli gratificanti, questo circuito si attiva e provoca il rilascio di dopamina (Small et al. 2003; Cameron et al. 2014). Dai piaceri derivanti dall’utilizzo di droghe a quelli associati alla vincita di somme più o meno cospicue di denaro, alla vista di un quadro o all’ascolto di una canzone sembrano tutti coinvolgere i medesimi sistemi cerebrali. È dunque probabile che anche il piacere derivante dalla soddisfazione di bisogni di natura sociale, come trascorrere del tempo in compagnia di altri esseri umani, attinga alle stesse radici neurobiologiche che regolano i piaceri sensoriali.
Questa possibile sovrapposizione tra circuiti neurali offre senz’altro l’opportunità di ipotizzare dei principi cerebrali più ampi del piacere che possano contribuire alla comprensione del fenomeno della felicità.
Eziologia ed eziopatogenesi dei disturbi mentali
I modelli di eziologia e patogenesi cercano di spiegare i processi causali (eziologia) e di sviluppo (patogenesi) di un determinato disturbo. La fusione dei due termini dà vita al modello di eziopatogenesi, ossia lo studio delle cause e dello sviluppo della condizione patologica.
I disturbi mentali e le loro cause
Il disturbo mentale è una condizione caratterizzata da una compromissione del pensiero, dei sentimenti, dell’umore, del comportamento o delle interazioni sociali, accompagnata da un disagio clinicamente significativo.
Le cause dei disturbi mentali sono molto complesse e variano a seconda del disturbo specifico e dell’individuo. I ricercatori hanno identificato una varietà di fattori biologici, psicologici e ambientali che possono contribuire allo sviluppo o alla progressione dei disturbi mentali, la maggior parte dei quali deriva da una combinazione di diversi fattori piuttosto che da un singolo fattore (Clark et al., 2017).
Le scienze che si occupano di spiegare i processi che generano e mantengono un determinato disturbo sono rispettivamente l’eziologia e la patogenesi. I termini “eziologia” e “patogenesi” sono dunque strettamente correlati alle domande sul perché e sul come si sviluppa una certa patologia.
Eziologia
L’eziologia, composta da due termini greci aitía “causa” e -logía “studio di”, si riferisce allo studio delle cause del disturbo. In relazione a ciò, gli studi epidemiologici analizzano quali fattori associati rendono per una popolazione più o meno probabile avere una condizione o un disturbo, contribuendo così a determinarne l’eziologia.
Come parte dell’eziologia di una determinata sindrome, sono considerate fattori eziologici solo le cause che avviano direttamente il processo patologico (e quindi devono necessariamente precedere temporaneamente l’insorgenza della sindrome). I fattori eziologici possono quindi essere considerati come condizioni necessarie per lo sviluppo di un disturbo. L’eziologia di una certa patologia è per lo più definita non solo da una, ma piuttosto dall’interazione di molti elementi diversi, tra cui la predisposizione genetica o i fattori ambientali. La predisposizione genetica si riferisce alla suscettibilità intrinseca di una persona a un particolare disturbo. I fattori ambientali possono includere l’educazione, lo status socio-economico, nonché l’esposizione a fattori di stress (per esempio, maltrattamento infantile) o sostanze (Witthöft, 2013).
Eziopatogenesi
Prima di introdurre il concetto di eziopatogenesi, è necessario definire cosa si intende per “patogenesi”. Derivante dal greco pathos “sofferenza, malattia” e genesis “creazione”, la patogenesi è lo studio di come si sviluppano i disturbi. La patogenesi è il processo attraverso il quale la sindrome si sviluppa, progredisce e alla fine diventa clinicamente evidente. La patogenesi di un disturbo può essere suddivisa in tre fasi principali: iniziazione, progressione e manifestazione clinica. Gli eventi iniziali sono quelli che pongono le basi per lo sviluppo della patologia. Questi eventi possono essere, come abbiamo visto precedentemente, genetici o ambientali. La progressione si riferisce al peggioramento dei sintomi nel corso del tempo. La manifestazione clinica è il momento in cui i segni del disturbo diventano evidenti e si può fare una diagnosi (Sharma, 2022).
Con il termine “eziologia” facciamo dunque riferimento ai fattori causali di un disturbo, mentre con “patogenesi” intendiamo il modo in cui questi specifici fattori hanno causato la sindrome. Sebbene i due termini facciano riferimento a due aspetti separati, sono altamente connessi tra loro. I meccanismi patogenetici di un disturbo o di una condizione sono messi in moto dalle cause sottostanti, che se controllate permetterebbero di prevenire la patologia. Per tale motivo è stato introdotto il termine “eziopatogenesi”, al fine di indicare sia il fattore causale, sia il modo in cui esso agisce per determinare il disturbo. L’eziopatogenesi dei disturbi mentali non è ancora completamente compresa.
Sempre più evidenze supportano l’ipotesi che la malattia mentale e i disturbi correlati non abbiano necessariamente origine nel cervello. È stato suggerito che l’infiammazione svolga un ruolo centrale in questi disturbi e in diversi studi sono stati riportati livelli alterati di citochine. Recentemente è emerso che i batteri che popolano l’intestino umano potrebbero modulare l’infiammazione di basso grado, così come le funzioni cerebrali di alto livello, tra cui l’umore e il comportamento. Questi batteri costituiscono il microbiota, ovvero l’insieme dei microrganismi coinvolti in processi chiave importanti per il mantenimento dell’omeostasi corporea (Pisanu & Squassina, 2018).
L’eziopatogenesi coinvolge dunque molteplici interazioni tra il sistema nervoso e altri sistemi fisiologici, pertanto è necessario un approccio multidisciplinare che combini la ricerca clinica con l’indagine dei fattori biologici e psicosociali che contribuiscono alla vulnerabilità e alla resilienza del disturbo.
L’esperimento del violinista nella stazione metropolitana di Washington DC
In questo articolo viene presentato e analizzato un interessante esperimento sul contesto, la percezione e le priorità personali in cui il rinomato virtuoso del violino, Joshua Bell, si esibì in incognito con il suo strumento da 3,5 milioni di dollari presso la stazione della metropolitana di Washington DC come se fosse un semplice musicista di strada.
L’esibizione del violinista in metropolitana
Dopo 43 minuti di esibizione Joshua Bell raccolse un totale di 32.17$ e tra le 1.097 persone che passarono dalla stazione quella mattina, solo una fu in grado di riconoscere il violinista che solo tre giorni prima si era esibito nella maestosa Symphony Hall davanti al suo pubblico. Meno di un centinaio furono quelli che distrattamente si fermarono ad ascoltare qualche secondo per poi continuare per la loro strada dopo aver lasciato una moneta. L’esperimento, ideato e condotto dal The Washington Post nel 2007, aveva lo scopo di indagare se la bellezza della musica avrebbe potuto trascendere e influenzare il comportamento delle persone anche in un ambiente ordinario come una stazione della metropolitana.
L’articolo pubblicato l’8 aprile 2007, scritto da Gene Weingarten e titolato “Pearls Before Breakfast”, racconta dell’intrigante esperimento che si è svolto alla stazione della metropolitana di L’Enfant Plaza a Washington DC. Durante l’ora di punta del mattino, precisamente alle 7:51, il virtuoso del violino Joshua Bell si è esibito come un musicista di strada, vestito in modo del tutto informale: un giovane uomo con indosso jeans, una maglietta a maniche lunghe e una visiera dei Washington Nationals uscì dalla metropolitana alla stazione di L’Enfant Plaza, si fermò in un atrio al coperto in cima alle scale mobili, prese il suo violino dalla custodia e iniziò a suonare nel bel mezzo dell’ora di punta del mattino di venerdì 12 gennaio 2007.
Durante i successivi 43 minuti, nei quali Bell eseguì brani classici di altissimo valore, nessuno poteva sapere che il violinista di 39 anni non fosse realmente un musicista di strada, (nonostante fosse vestito e si comportasse come tale), ma piuttosto un “ex bambino prodigio” adesso musicista di fama mondiale. In breve, in una delle tante stazioni della metropolitana di Washington c’era un artista straordinario che si esibiva gratuitamente su uno dei migliori violini mai realizzati: il suo Stradivari del valore di 3,5 milioni di dollari, (realizzato personalmente da Antonio Stradivari nel 1713, quando il maestro di Cremona aveva ormai 69 anni) e nessuno se ne stava accorgendo.
Quali sono state le reazioni dei passanti davanti al violinista?
Come spiega ulteriormente il giornalista, l’idea era di dimostrare attraverso un semplice esperimento, se (solamente ascoltando la musica) le persone avrebbero notato che stava accadendo qualcosa di speciale. Si sarebbero fermati un attimo per goderne? Avrebbero mostrato qualche segno di riconoscimento o sarebbero passati oltre, senza nemmeno girare la testa? Qualcuno avrebbe riconosciuto Joshua Bell?
In questo non ci fu alcuna correlazione, modello etnico o demografico, che potesse differenziare le persone che si fermavano un minuto a guardare o che lasciavano soldi all’artista. Il 90% delle persone lo ignorava semplicemente. Solo una fu in grado di riconoscere il valore di quelle note, avvicinarsi a Bell e riconoscerlo. L’autore dell’articolo ha raccontato che, tuttavia, il comportamento di uno specifico gruppo rimase assolutamente costante: ogni volta che un bambino passava di fronte a Bell, cercava di fermarsi a guardare, e ogni volta il genitore allontanava velocemente il bambino per poi continuare nel loro percorso.
L’articolo solleva la questione su come sia necessario un contesto specifico, per apprezzare la bellezza. L’esperimento suggerisce come molti passanti, immersi nella frenesia della vita quotidiana, non siano riusciti a cogliere la straordinaria performance che avevano di fronte. Ciò solleva il dubbio se la bellezza richieda un ambiente appositamente creato, un “frame” che la inquadri e che la possa servire al pubblico per essere apprezzata o se possa realmente emergere e influenzare le persone anche in situazioni comuni e inaspettate. Saremmo ancora in grado di commuoverci davanti ad “un Klimt” che adorna la sala d’aspetto del nostro dentista o è forse il processo metacognitivo stesso del sapere di trovarsi davanti a un capolavoro a farcelo apprezzare e di conseguenza a commuoverci? L’universalità dell’arte può essere potente e suscitare emozioni profonde, anche in contesti inaspettati. Può sfidare le nostre percezioni preconfezionate e aprire nuovi orizzonti di significato solo nel momento in cui siamo disposti a lasciarci sorprendere.
Un estratto video dell’esperimento è presente su Youtube: