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Prendersi una pausa dalla tecnologie – Psicologia Digitale

Staccare la spina, disconnettersi e fare ordine tra dispositivi ed app migliora il benessere e aumenta le energie.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 41) Prendersi una pausa dalla tecnologie

La definizione di benessere non è statica: epoche, culture e strumenti diversi richiedono approcci diversi. La salute è “uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattie o infermità” (OMS, 2022) ed è influenzata da ciò con cui abbiamo a che fare quotidianamente, per esempio le tecnologie digitali.

Il benessere psicofisico include il digital wellbeing, il benessere digitale. Questo stato di benessere si raggiunge attraverso l’uso consapevole delle tecnologie, la conoscenza degli effetti (positivi e negativi), l’equilibrio tra attività online/offline.

Tra le strategie per migliorare il rapporto con la tecnologia ci sono il digital decluttering e il digital detox. Nel primo si fa ordine tra hardware e software per lasciare solo quello che serve davvero ed eliminando le distrazioni inutili; il secondo è una vera e propria disintossicazione attraverso un periodo di astinenza volontaria da dispositivi e app.

Minimalismo digitale

Non è necessario disconnettersi totalmente. Essere dei digital minimalist non significa rinunciare completamente all’uso della tecnologia digitale ma decidere consapevolmente su cosa concentrarsi. Seguendo l’approccio del minimalismo digitale (Newport, 2019) basta concentrarsi su un piccolo numero di attività alla volta e tralasciare il resto. Il punto è che sovraccaricarsi e diluire l’attenzione su troppi stimoli allo stesso tempo riduce energie che potrebbero essere impiegate meglio e altrove. Si tratta anche di dare più valore a quello che facciamo: invece che passare il tempo a fare scrolling sui social passivamente, possiamo scegliere di dedicare tutta la nostra attenzione a fare altro.

Essere minimalisti significa anche utilizzare solo dispositivi e app che sono realmente utili. Attraverso la pratica del digital decluttering si ottimizza ciò che è utile e si elimina ciò che non serve, come le app che non utilizziamo (le ghost app).

Prendersi una pausa

Il concetto di digital detox richiama letteralmente la disintossicazione e in effetti si riferisce a prendersi un periodo di tempo in cui ci si astiene volontariamente dall’uso di dispositivi digitali.

Di solito il digital detox viene visto in primis come un modo per migliorare il benessere psicofisico: prendersi una pausa dal digitale per poi riprendere a vivere la tecnologia in modo sano come strumento per informarsi, condividere, divertirsi, senza sentirsi sopraffatti.

Disconnettersi migliora anche concentrazione, gestione del tempo, efficienza e produttività: e-mail, SMS, social media, eccetera, frammentano l’attenzione e fanno diminuire le prestazioni, non solo a lavoro. Soprattutto quando strumenti di comunicazione professionale e personale convergono si abbassa anche la qualità del tempo dedicato alla vita privata.

Un altro aspetto per il momento un po’ sottovalutato ma comunque emergente è che gli strumenti digitali non consumano solo risorse cognitive ma anche materiali (Moe e Madsen, 2021).

Produzione, uso e smaltimento comportano dei costi per l’ambiente; l’astensione dai media digitali è anche un modo per ridurre al minimo i consumi e/o l’uso di energia. Per esempio, inviare una e-mail comporta l’emissione di circa 19 grammi di CO2 (Ademe, 2022).

Il digital detox diventa quindi anche una questione di sostenibilità e tutela ambientale.

The joy of missing out

Sospendere o ridurre il tempo speso online può essere difficile anche per chi ha un rapporto equilibrato con la tecnologia.

La paura di essere esclusi, di essere lettaralmente “tagliati fuori”, di non essere aggiornati su ciò che accade ai nostri contatti e nel mondo, può incidere negativamente sul nostro benessere. La fear of missing out (FOMO) indica una vera e propria forma di ansia sociale.

Brinkmann (2019) mette in discussione l’importanza di essere sempre presenti e attenti a ciò che accade online. La disconnessione diventa un atto di consapevolezza e amore verso se stessi.

Limitare il tempo online ci può dare libertà e spazio per dedicarci al momento presente, a vivere le nostre emozioni, siano esse positive o negative, riprendere in mano le nostre priorità, essere consapevoli e fare qualcosa per il gusto di farlo.

I media digitali catalizzano le nostre risorse cognitive: la chiamano “economia dell’attenzione” perché proprio la nostra attenzione è un bene, una risorsa, che diamo a beneficio di strumenti e servizi che su questa fondano le loro economie e per questo ci spingono ad accelerare, ad essere sempre presenti.

In questa corsa senza fine la nostra attenzione viene sommersa da stimoli come mai prima di oggi.

Scegliere di resistere è un atto che dobbiamo a noi stessi: l’attenzione è una risorsa preziosa ma limitata, tanto vale dedicarla a ciò che per noi è realmente importante.

L’abito fa il monaco

L’abbigliamento che indossiamo potrebbe influire sui nostri stati psicologici e sulle nostre prestazioni. Questo fenomeno è indicato col termine “enclothed cognition”. Alla luce delle recentiscoperte, gli individui possono scegliere intenzionalmente di indossare abiti che inducano stati psicologici più desiderabili e migliorino le prestazioni legate al compito.

Introduzione

 Gli esseri umani hanno inventato l’abbigliamento almeno 100.000 anni fa. Sebbene continui a servire per proteggere gli individui da circostanze ambientali avverse, le funzioni dell’abbigliamento sono varie. Gli stili di abbigliamento (e talvolta i requisiti) variano da una regione geografica all’altra, da una religione all’altra, da una fascia d’età all’altra e da una professione all’altra. Nella nostra cultura occidentale, un grande scopo dell’abbigliamento è il fattore estetico. Ciò che indossiamo può essere un modo implicito e non verbale per esprimere la nostra personalità. Ma non solo. Numerose ricerche hanno documentato gli effetti che l’abbigliamento ha sulla percezione e sulle reazioni degli altri. Lo stile di abbigliamento degli studenti influenza la percezione della bravura accademica tra i coetanei e gli insegnanti (Behling & Williams, 1991), i pazienti sono più propensi a tornare da terapeuti vestiti in modo formale che da terapeuti vestiti in modo casual (Dacy & Brodsky, 1992) e i professionisti del servizio clienti vestiti in modo appropriato suscitano intenzioni di acquisto più forti di quelli vestiti in modo inappropriato (Shao, Baker, & Wagner, 2004). Tuttavia, gli abiti che indossiamo hanno potere sugli altri come pure su noi stessi.

L’enclothed cognition

Gli psicologi cognitivi Hajo Adam e Adam Galinksy della Northwestern University hanno esaminato gli effetti psicologici e di performance che l’indossare specifici capi di abbigliamento ha sulla persona che li indossa. Per questo fenomeno hanno coniato il termine “enclothed cognition”. L’enclothed cognition coglie l’influenza sistematica che gli abiti hanno sui processi psicologici di chi li indossa. Fa parte di un campo di ricerca più ampio che esamina il modo in cui gli esseri umani pensano sia con il cervello sia con il corpo, un’area di studio nota come embodied cognition.

Gli esperti di embodied cognition hanno scoperto che i nostri processi di pensiero si basano su esperienze fisiche che attivano concetti astratti associati. Ad esempio, l’esperienza fisica di pulirsi è associata al concetto astratto di purezza morale (Zhong & Liljenquist, 2006). A causa di questo significato simbolico, è stato dimostrato che la pulizia fisica influenza i giudizi di moralità (Schnall, Benton & Harvey, 2008). In modo simile, provare calore fisico aumenta i sentimenti di calore interpersonale (Williams & Bargh, 2008), annuire con la testa mentre si ascolta un messaggio persuasivo aumenta la suscettibilità alla persuasione (Wells & Petty, 1980), e portare una cartellina pesante aumenta i giudizi di importanza (Jostman et al., 2009). Gli autori sostengono che l’esperienza di indossare i vestiti innesca concetti astratti associati e i loro significati simbolici. In particolare, si ritiene che indossare i vestiti faccia sì che le persone “incarnino” l’abbigliamento e il suo significato simbolico. Di conseguenza, quando un capo di abbigliamento viene indossato, esercita un’influenza sui processi psicologici di chi lo indossa, attivando i concetti astratti associati attraverso il suo significato simbolico –in modo simile al modo in cui un’esperienza fisica, che per definizione è già incarnata, esercita la sua influenza. L’abbigliamento può cambiare il modo di pensare, sentire, percepire e comprendere se stessi durante le situazioni e le esperienze.

La storia di 3 studi

Adam e Galinsky (2012) hanno condotto tre studi sull’enclothed cognition. Nel primo studio, i partecipanti sono stati suddivisi in due gruppi. A un gruppo è stato chiesto di indossare un camice bianco, mentre all’altro abiti casual. Poi i partecipanti sono stati sottoposti a un test di attenzione selettiva che misurava la loro capacità di notare le incongruenze. I partecipanti che indossavano il camice bianco hanno commesso quasi la metà degli errori rispetto a quelli che indossavano abiti casual.

 Nel secondo studio, hanno riunito i partecipanti per testare l’aumento dell’attenzione. A un gruppo è stato detto di indossare un camice da medico e all’altro di indossare un camice da pittore. I camici da medico e da pittore erano identici. A ciascun gruppo è stato poi chiesto di osservare una coppia di immagini simili per individuare quattro piccole differenze. I partecipanti che indossavano il camice da medico hanno trovato più differenze rispetto a quelli che indossavano il camice da pittore. Questo indica una maggiore attenzione.

Nel loro ultimo studio, volevano scoprire se il semplice guardare un oggetto fisico, come un camice, potesse influenzare il comportamento. Alcuni partecipanti indossavano quello che veniva loro descritto come un camice da medico o da pittore. Altri sono stati istruiti a guardare il camice di un medico che si trovava di fronte a loro. Utilizzando lo stesso compito di ricerca visiva dell’esperimento 2, il gruppo che indossava il camice da medico ha mostrato una maggiore attenzione sostenuta.

Quindi, cosa succede esattamente quando le persone hanno comportamenti diversi se indossano lo stesso capo di abbigliamento, ma gli viene detto che appartiene a professioni diverse? O quando indossano l’abito invece di guardarlo? I ricercatori ritengono che l’abbigliamento abbia un significato simbolico. Sostengono che l’influenza degli abiti dipende sia dal fatto di indossarli sia dal significato che essi suscitano nei loro schemi psicologici. Ad esempio, i medici (che indossano il camice) sono generalmente ritenuti altamente intelligenti, precisi e scientifici. I pittori sono generalmente ritenuti creativi e liberi. Di conseguenza, quando una persona attribuisce uno stereotipo simbolico a un capo di abbigliamento mentre lo indossa, allora la caratteristica, la forza e/o l’abilità simboleggiata dall’abbigliamento stesso sembra avere effetti misurabili sugli stati psicologici e sulle prestazioni.

Conclusione

In conclusione, la enclothed cognition è un concetto che evidenzia il potente impatto che le nostre scelte di abbigliamento possono avere sui nostri pensieri, sui nostri comportamenti e sul nostro umore generale. È importante essere consapevoli del significato simbolico degli abiti che indossiamo e scegliere quelli che si allineano con la nostra mentalità e i nostri obiettivi. Comprendendo il potere della enclothed cognition, possiamo usare l’abbigliamento a nostro vantaggio e creare una mentalità positiva e sicura.

Disturbi internalizzanti ed esternalizzanti: cosa si intende?

Le problematiche in età evolutiva vengono suddivise in disturbi esternalizzanti e disturbi internalizzanti. Scopriamo cosa si intende.

 S., 15 anni, nell’ultimo anno ha iniziato a preoccuparsi costantemente per lo studio, pensando a verifiche e interrogazioni dei giorni successivi, ma anche alla risposte date nei compiti scritti, immagina costantemente scenari negativi sul futuro chiedendosi cosa farà da grande e teme quello che i coetanei possono pensare di lei. Non riesce a smettere di pensare, si sente frequentemente stanca, fatica a dormire.

M., 11 anni, si arrabbia spesso per piccole cose, litiga ripetutamente con i compagni di classe, riceve frequenti note da parte degli insegnanti, che la descrivono come sfidante e irrispettosa delle regole. È dispettosa nei confronti dei compagni, soprattutto quando pensa che le abbiano fatto un torto, e sfida apertamente gli insegnanti, rifiutandosi di seguire o uscendo dall’aula senza autorizzazione. Nonostante i genitori abbiano cercato di imporre delle regole, M. persiste nel suo comportamento, che la sta portando a un basso rendimento scolastico, con rischio di perdere l’anno, e difficoltà con i coetanei. 

In cosa differiscono le situazioni descritte? Nel nel primo caso la sintomatologia sperimentata è rivolta principalmente verso di sé, verso l’interno, e risulta ascrivibile a un disturbo d’ansia generalizzata, mentre nel secondo caso i sintomi si rivolgono verso l’esterno, coinvolgendo le altre persone e il contesto, configurandosi come un disturbo oppositivo provocatorio.

Approfondiamo ora le due grandi categorie in cui rientrano le manifestazioni descritte: i disturbi internalizzanti e i disturbi esternalizzanti.

Le problematiche internalizzanti

I problemi internalizzanti indicano difficoltà sviluppate e mantenute all’interno della persona, spesso caratterizzate da ipercontrollo, inteso come la tendenza a controllare o a regolare i propri stati interni emotivi e cognitivi in modo eccessivo e inappropriato. Spesso portano con sé bassa autostima, difficoltà scolastiche e difficoltà nelle relazioni sociali (Di Pietro e Bassi, 2021).

I disturbi internalizzanti sono spesso accomunati dal ritiro sociale, comportamento che implica solitamente autosvalutazione di sé, delle proprie abilità sociali o timore del giudizio, e da problemi psicofisiologici, lamentele di fastidi, malattie o dolori fisici che non hanno una base medica accertata, ma sono probabilmente causati da disagio psicologico; alcuni esempi sono il mal di stomaco, il mal di testa e le vertigini.

I disturbi d’ansia costituiscono la categoria maggiore dei disturbi internalizzanti; sono caratterizzati da pensieri negativi, interpretazioni negative o errate di sintomi ed eventi, attivazione fisiologica, ipersensibilità a segnali fisici, paura e ansia in relazione a situazioni specifiche o in modo generalizzato.

Tra i disturbi d’ansia in età evolutiva rientrano il disturbo di panico, l’agorafobia, il disturbo d’ansia da separazione, il disturbo d’ansia sociale e il disturbo d’ansia generalizzata.

Nella sfera internalizzante rientrano anche i disturbi depressivi. La depressione è caratterizzata da umore depresso, tristezza, irritabilità, perdita di interesse nelle attività, alterazioni del sonno e dell’appetito, rallentamento, mancanza di energie, senso di inadeguatezza, lamentele somatiche e preoccupazioni sulla morte.

Aspetto tipico della depressione in età evolutiva è l’irritabilità, che rischia di essere fuorviante in quanto bambini e ragazzi possono faticare a riconoscere ed esprimere le loro emozioni e dall’esterno l’irritabilità potrebbe non venire collegata alla tristezza, impedendo il riconoscimento dello stato depressivo (Di Pietro e Bassi, 2021).

 Talvolta si rischia di non dare il giusto peso a queste difficoltà, proprio per il fatto che i sintomi si esprimono verso l’interno e sono meno visibili dall’esterno: un bambino che sta in silenzio durante la lezione per la paura di arrossire o balbettare, dà meno nell’occhio di un compagno che lancia il materiale scolastico o scorrazza per la classe.

Generalmente non è possibile individuare una causa specifica per questi disturbi, ma si tratta di influenze reciproche tra variabili personali, comportamentali e ambientali. I sintomi possono persistere per diversi anni e aumentare la possibilità di recidive quando non trattati oppure mantenersi fino all’età adulta.

Le problematiche esternalizzanti

Questo tipo di problemi si caratterizza per il fatto che il bambino o l’adolescente riversano il disagio verso l’esterno; comprendono il disturbo da deficit d’attenzione e iperattività (ADHD), il disturbo oppositivo provocatorio e il disturbo della condotta. Non si tratta però sempre di disturbi, ma la diagnosi si effettua nei casi in cui il comportamento tende a cronicizzarsi nel tempo e ha conseguenze negative per il soggetto o per altre persone (Di Pietro e Bassi, 2021).

Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività interessa il bambino fin dai primi anni di vita, si mantiene durante lo sviluppo e spesso persiste anche in età adulta. Come dice il nome, le caratteristiche tipiche sono appunto difficoltà di attenzione, impulsività e iperattività. Questi bambini faticano a mantenere l’attenzione e a concentrarsi, tendono ad agire senza pensare a quello che stanno facendo, hanno difficoltà a modificare il loro comportamento sulla base dei loro errori e non riescono a stare fermi o tranquilli. Sono di continuo alla ricerca di attenzioni, perdono le cose, sono disorganizzati e sempre in movimento, hanno difficoltà ad andare d’accordo con fratelli e sorelle e si sentono facilmente frustrati. Affinché sia possibile diagnosticare il disturbo, i deficit devono avere un impatto significativo sui principali ambiti di vita del bambino o dell’adolescente (Di Pietro e Bassi, 2021).

Il disturbo oppositivo provocatorio è un quadro ricorrente di comportamenti oppositivi, provocatori, disobbedienti e ostili verso le figure di riferimento. Tra i comportamenti messi in atto ci sono la violazione delle regole, attacchi di rabbia, il polemizzare con gli adulti, l’uso di parolacce, il disturbare, l’attribuire ad altri le cause dei propri comportamenti, umore negativo e irritabilità (Kaufman et al., 2016).

Infine, il disturbo della condotta è un quadro persistente e ripetitivo di comportamento in cui vengono violati i diritti di base degli altri o le principali regole sociali, sia in famiglia che nel contesto sociale più ampio. Alcuni comportamenti presenti nel disturbo della condotta implicano azioni prevaricanti, come aggressività fisica o violenza sessuale, altri invece riguardano comportamenti come furti, fuga da casa o saltare la scuola (Kaufman et al., 2016).

Conclusioni

Non è sempre facile distinguere le fisiologiche manifestazioni dell’infanzia e dell’adolescenza da veri e propri disturbi. Per questo è importante rivolgersi ad uno specialista che possa aiutare nell’inquadramento e nell’impostazione di un eventuale percorso terapeutico, senza sottovalutare il vissuto del bambino o dell’adolescente.

 

La percezione dell’umorismo nella coppia e la soddisfazione relazionale

Le persone sono generalmente in grado di giudicare con precisione il senso dell’umorismo del proprio partner, ma chi ha una relazione altamente soddisfacente sembra mostrare una maggiore tendenza a ritenere che lo stile umoristico del partner sia simile al proprio.

Introduzione

 “Quando parliamo di ciò che rende il partner “perfetto”, quasi sempre parliamo di qualcuno che ci faccia ridere, e molte ricerche dimostrano quanto sia importante l’umorismo in una relazione felice e sana” riferisce l’autrice dello studio Mariah F. Purol.

Purol e i suoi colleghi (2022) hanno voluto indagare l’accuratezza della percezione dello stile umoristico del partner e il suo impatto sulla soddisfazione della relazione.

Partecipanti e metodo

Lo studio è stato condotto su 337 coppie eterosessuali di età compresa tra 19 e 89 anni. I partecipanti hanno completato il questionario sui quattro stili umoristici: auto-valorizzante, affiliativo, auto-distruttivo e aggressivo. I partecipanti hanno valutato se stessi e i loro partner su ciascuno stile.

L’umorismo auto-valorizzante implica la capacità di trovare l’umorismo nelle situazioni quotidiane, anche quando le cose non vanno bene. L’umorismo affiliativo implica l’uso dell’umorismo per creare legami sociali e rafforzare le relazioni. L’umorismo auto-distruttivo consiste nel fare di se stessi il bersaglio dello scherzo, spesso a scapito dell’autostima. L’umorismo aggressivo prevede l’uso di sarcasmo, insulti e offese per sminuire gli altri e affermare il proprio dominio. Inoltre, ai partecipanti è stato chiesto di valutare quanto trovassero divertenti se stessi e i loro partner. La soddisfazione relazionale è stata misurata con una versione modificata del Couples Satisfaction Index, una misura a cinque item che chiede ai partecipanti di esprimere la loro soddisfazione per la loro attuale relazione sentimentale.

I risultati dello studio

Dallo studio è emerso che, nel complesso, i partecipanti hanno dimostrato accuratezza nel giudicare lo stile umoristico del partner, indipendentemente dal tipo specifico di stile umoristico valutato. Ciò suggerisce che le persone sono generalmente in grado di percepire e comprendere il senso dell’umorismo del proprio partner. Tuttavia, lo studio ha anche rilevato che i pregiudizi variavano a seconda dei diversi stili di umorismo. Ad esempio, i partecipanti tendevano a sottostimare leggermente la quantità di umorismo auto-valorizzante usato dal partner e a sovrastimare leggermente la quantità di umorismo aggressivo usato dallo stesso. È stata riscontrata anche un’associazione tra la soddisfazione della relazione e la tendenza a ritenere che lo stile umoristico del partner sia simile al proprio. Le persone con relazioni particolarmente soddisfacenti hanno mostrato una maggiore presunzione di somiglianza nel giudicare lo stile umoristico del partner. Questo suggerisce che le persone possono avere la tendenza a proiettare il proprio stile umoristico sul partner o a interpretare l’umorismo del partner in modo da allinearlo al proprio stile.

 In generale, abbiamo una buona comprensione dell’umorismo del nostro partner e di quanto sia divertente. Tuttavia, a volte, le coppie che presumono di condividere il senso dell’umorismo con il proprio partner (anche se non è così) riferiscono di essere un po’ più felici nelle loro relazioni. Ciò si allinea bene con altri lavori sulla somiglianza di personalità nelle relazioni: forse essere simili non conta molto, ma pensare di essere simili sì.

I ricercatori hanno inoltre scoperto che i partecipanti più soddisfatti hanno riferito che il loro partner ha usato più umorismo adattivo, compreso l’umorismo affiliativo e auto-valorizzante. I più soddisfatti della loro relazione hanno anche valutato il loro partner come più divertente. I meno soddisfatti, invece, hanno riferito che il loro partner utilizzava un umorismo più aggressivo. In aggiunta, i partecipanti hanno sempre giudicato il proprio partner più divertente di quanto il partner giudicasse se stesso.

Limiti e conclusioni

Lo studio, come tutte le ricerche, include alcuni limiti. Nella ricerca sulla percezione, può essere difficile misurare la “verità”: di chi è la prospettiva “vera”? Se pensiamo di essere divertenti, ma il nostro partner pensa che le nostre battute siano terribili, chi ha ragione? In questo studio, le auto-rivelazioni dei partecipanti sull’umorismo sono state trattate come verità.

In uno studio futuro sarebbe interessante ottenere i resoconti dell’umorismo di un partecipante da osservatori diversi (ad esempio amici, familiari, estranei ecc.). Se pensiamo di essere divertenti, ma le persone intorno a noi non sono d’accordo, la saggezza della folla potrebbe avvicinarsi un po’ di più a ciò che può essere realmente vero.

Disturbi affettivi e ospedalizzazione: la compromissione della memoria verbale è un indicatore di rischio

Un recente studio pubblicato su Clinical Medicine ha evidenziato che i pazienti con disturbi affettivi cronici, che presentano concomitante alterazione della memoria verbale ma non delle funzioni esecutive, hanno maggior rischio di effettuare, dopo aver subito una prima ospedalizzazione, ulteriori ricoveri psichiatrici (Sankar et al., 2023).

I disturbi affettivi cronici

 Gli studi presenti in letteratura indicano che le alterazioni della neurocognizione sono caratteristiche del disturbo bipolare e del disturbo depressivo maggiore oltre che della schizofrenia (Balanzá-Martínez et al., 2010; Di Sciascio et al., 2015; Altshuler et al., 2004). Alcuni autori riportano che i pazienti con disturbi affettivi cronici, quando subiscono ripetuti ricoveri, difficilmente riescono a raggiungere un buon livello d’istruzione, a creare una famiglia e a trovare un’occupazione soddisfacente (Kos et al., 2010).

La memoria di lavoro

La memoria verbale appartiene alla cosiddetta working memory. Secondo il modello proposto da Baddeley e Hitch (Baddeley e Hitch 1974) la memoria di lavoro è “un sistema per il mantenimento temporaneo e per la manipolazione dell’informazione durante l’esecuzione di differenti compiti cognitivi, come la comprensione, l’apprendimento e il ragionamento” (Baddeley, 1986). Questo sistema ha il compito di integrare tra loro varie informazioni ed è costituito da un circuito che conserva l’informazione in forma verbale ed anche da un sistema che codifica le informazioni spaziali e visive. Le funzioni esecutive sono costituite da una serie di processi cognitivi che, interagendo tra loro, permettono al soggetto il raggiungimento di uno scopo e gli forniscono le abilità per un adeguato controllo del comportamento (Shallice, 1994; Benso, 2010).

Lo studio di Sankar e collaboratori (2023)

Lo studio pubblicato su Clinical Medicine (Sankar et al., 2023) utilizza i dati del più grande studio longitudinale realizzato fino ad oggi sulla correlazione esistente tra disturbi neurocognitivi e futuri ricoveri psichiatrici. Sono state raccolte le informazioni relative a 518 pazienti affetti da disturbo bipolare e da disturbo depressivo maggiore. Tutti i soggetti sono stati valutati per le funzioni esecutive e per il dominio della memoria verbale. La valutazione è avvenuta tramite la somministrazione di un’ampia batteria di test neuropsicologici. Sono inoltre stati presi in considerazione i dati riguardanti l’ospedalizzazione dei pazienti e le loro condizioni sociodemografiche attraverso l’analisi dei registri nazionali danesi. Al momento dell’inclusione nello studio è stata valutata la gravità dei sintomi e la terapia effettuata da ogni partecipante.

 Grazie all’analisi dei dati raccolti, i ricercatori sono giunti alla conclusione che la compromissione della memoria verbale è un indicatore, che va ad aggiungersi a quelli già noti (Tabarés-Seisdedos et al., 2008), per valutare il rischio di futuri ricoveri psichiatrici. Gli autori della ricerca ipotizzano, inoltre, che il disturbo della memoria verbale possa influenzare negativamente la compliance del paziente alla terapia farmacologica. Al contrario dei precedenti studi presenti in letteratura, non è stata rilevata un’associazione statisticamente significativa tra presenza di disturbi neurocognitivi e decadimento delle condizioni socioeconomiche.

Conclusioni

In considerazione dei risultati ottenuti la riabilitazione neurocognitiva può ritenersi una valida risorsa per pazienti con disturbi affettivi cronici, per migliorare la compliance e i risultati ottenibili con la terapia farmacologica.

People-pleasing: come smettere di voler piacere agli altri a tutti i costi

I “people-pleaser” sono quelle persone che tentano di piacere agli altri a tutti i costi. Questa tendenza è spesso legata a una paura dell’abbandono sviluppata nel corso di un’infanzia difficile. Tre sono i modi possibili per liberarsi da essa: coltivare l’auto-consapevolezza, definire i confini e lasciare andare le opinioni degli altri.

Cos’è il fenomeno del people-pleasing

 In psicologia il termine “people-pleasing” fa riferimento alla tendenza a voler piacere agli altri a tutti i costi. Si tratta di un vero e proprio stile di funzionamento per cui la persona si mostra estremamente disponibile e accomodante con gli altri nel tentativo di compiacerli e ottenere così la loro approvazione.

È innegabile che la condiscendenza e la capacità di venire incontro agli altri siano tratti desiderabili, ma non per questo anche interamente vantaggiosi. Come in molte cose, la salute sta nell’equilibrio: nei people-pleaser, il problema non sarebbe tanto la presenza di queste tendenze, quanto la loro costanza e pervasività nel delineare un pattern di funzionamento ricorrente in diverse situazioni. Di fatto, molto spesso, dietro il bisogno di mettere costantemente gli altri al primo posto si nasconderebbe una risposta al trauma, che con il tempo può portare a un dannoso abbandono di sé.

L’infanzia dei people-pleaser

Come molte problematiche psicologiche, la tendenza assolutistica a voler essere approvati dalle persone pone le sue radici nel passato di questi individui. Nella maggior parte dei casi, infatti, i people-pleaser nascondono un’antica paura dell’abbandono come conseguenza di traumi relazionali e di attaccamento vissuti in infanzia, dove la loro fiducia epistemica nelle relazioni è stata recisa alla base. L’esperienza infantile riportata da questi individui rimanda all’idea che, a un certo punto della loro crescita, hanno imparato che avere dei limiti, affermare i propri bisogni ed esprimere la propria individualità avrebbe necessariamente portato a sentimenti di colpa o vergogna e a condizioni di giudizio o separazione.

Per potersi immedesimare nel vissuto di queste persone, potrebbe essere utile immaginare un bambino che, in risposta all’espressione di emozioni forti (ad esempio, attraverso il pianto), si trova di fronte a una di queste reazioni genitoriali: una in cui l’adulto cerca in tutti i modi di mettere a tacere il bambino con comunicazioni imperative e aggressive e una in cui l’adulto ignora il figlio, invitato a continuare a piangere da solo nella propria stanza, senza farsi vedere. In entrambi i casi, il messaggio che il bambino assorbe è che esprimere come ci si sente e avere dei bisogni è troppo per gli altri, dunque reprimere i propri sentimenti è l’unico modo per poter essere accettati e inclusi. Se pensiamo alla natura del bambino, il cui bisogno emotivo più essenziale è essere visto, apprezzato e sentire di appartenere, questo messaggio può risultare estremamente confondente e disorganizzante.

Il servilismo dell’adulto traumatizzato

Se, nel corso della sua infanzia, il bambino cresce in un’atmosfera familiare repressiva ed evitante, da adulto potrà diventare un people-pleaser che compiace gli altri, a costo di sacrificare la sua verità interiore. In altre parole, potrà diventare una persona che, nella sofferenza di dover mettere i propri bisogni in secondo piano per sopravvivere, è in continua lotta per mantenere un equilibrio mentale.

Questo stile di funzionamento, nel lungo termine, non porterebbe solo a sviluppare delle credenze mentali distorte su se stessi (“Se dico quello che penso, gli altri mi rifiuteranno”), ma anche dei corrispondenti pattern fisici di servilismo e adulazione.

 Anche se, nel panorama scientifico psicologico, le risposte più comuni del sistema nervoso al trauma rimangono lotta, fuga e congelamento, negli ultimi tempi la risposta servile è diventata un modello sempre più riconosciuto fra gli esperti del trauma (Walker, 2013). In questo contesto, con servilismo gli autori si riferiscono alla tendenza dei people-pleaser di evitare o ridurre il conflitto per sentirsi protetti e più sicuri con l’altro, in modo da guadagnarne l’approvazione.

Certamente una quota di adulazione può essere un tratto necessario e vantaggioso in alcuni contesti (pensiamo a quelli dove c’è una differenza di potere, come quello lavorativo), ma quando si tratta di uno stile di risposta cronico, ciò può diventare fisicamente estenuante ed emotivamente stressante.

Come liberarsi dell’obbligo di compiacere gli altri

Date queste premesse, molti psicologi si sono interrogati su quale sia il modo migliore per favorire il benessere psico-fisico dei people-pleaser.

Secondo Allyn, tre possono essere gli interventi più efficaci per aiutare queste persone a smettere di ottenere a tutti i costi l’approvazione dell’altro.

Coltivare l’autoconsapevolezza

Dal momento che i people-pleaser sono molto concentrati sul garantire il benessere dell’altro così da essere accettati, è importante che essi inizino a traslare questo obiettivo su di sé. In termini pratici, dovrebbero imparare ad attenzionare ed accogliere i propri bisogni emotivi, fisici e relazionali per quelli che sono, senza combatterli o reprimerli. Dovrebbero iniziare a notare quando scatta la risposta servile del sistema nervoso, praticando la respirazione e il movimento per centrarsi su di sé e radicarsi. Solo così essi potrebbero passare da una mente reattiva a una mente razionale, riconoscendo ed esprimendo le proprie esigenze momento dopo momento.

Definire i confini

Il people-pleaser dovrebbe essere incoraggiato a perseguire la cura di sé come imperativo primo, sapendo che questo passa anche attraverso il dire di no. Sebbene le persone che avevano sempre beneficiato della mancanza di confini del people-pleaser potrebbero inizialmente respingere i limiti nuovi che egli impone, questo non elimina il suo diritto ad averli. Sviluppare dei confini è un modo sano per preservare la propria energia così da poterla restituire autenticamente agli altri.

Lasciare andare le opinioni altrui

È naturale voler essere apprezzati, ma è un’illusione pretendere di piacere a tutti. Gli esseri umani sono delle entità complesse che, in quanto tali, non sempre possono essere accettati da tutti per le sfaccettature che mostrano. In questa direzione, non controllare costantemente ciò che l’altro pensa su di sé e ricordarsi che a volte l’opinione dell’altro può celare una proiezione personale che nulla ha a che fare con noi, può essere veramente d’aiuto per i people-pleaser.

Il disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) nel postpartum 

Tra i disturbi psichici che possono esordire, mantenersi o ri-presentarsi nel periodo perinatale, ovvero in gravidanza o nel periodo del post-parto, troviamo, accanto a molte altre condizioni, il disturbo ossessivo-compulsivo come uno dei disturbi più frequenti durante il periodo perinatale.

Il disturbo ossessivo-compulsivo nei periodo perinatale

 In generale il DOC è un disturbo psichico relativamente comune, e può portare a un deterioramento della qualità della vita e a difficoltà nel funzionamento quotidiano sociale e lavorativo.

Secondo gli studi sembra che il periodo perinatale sia una fase di vita particolarmente vulnerabile all’insorgenza di un disturbo ossessivo-compulsivo nelle madri (Uguz e Ayhan, 2011), mentre per i neopadri sembra essere un disturbo meno frequente (Rosse McLean, 2006). I tassi di prevalenza del disturbo ossessivo-compulsivo in gravidanza in letteratura si aggirano sul 1-3%, mentre il range dei tassi di prevalenza del DOC nel postparto è molto più ampio e va dallo 0,7% al 9% (Bramante, 2016). Al di là della soddisfazione dei criteri diagnostici, le madri possono presentare sintomi di carattere ossessivo-compulsivo dopo il parto. Tra i sintomi ossessivi ritroviamo ad esempio pensieri ossessivi di poter fare del male al bambino e relativa paura di perdere il controllo; in seguito a tali pensieri, possono esserci compulsioni di controllo o evitamenti comportamentali che compromettono la qualità della relazione di accudimento; in alcuni casi vi può essere comorbilità con sintomatologia depressiva.

Ossessioni e compulsioni

In generale il DOC è un disturbo caratterizzato da ossessioni e compulsioni di diverso genere.

Con il termine ossessione si intendono pensieri ricorrenti e ripetitivi, impulsi o immagini vissuti come intrusivi e che causano elevate quote di ansia. Le compulsioni consistono in comportamenti (in alcuni casi più volte ripetuti) o azioni mentali che la persona si doverizza a compiere in risposta a un’ossessione, per prevenire eventi temuti o ridurre il disagio legato alle ossessioni.

In riferimento al periodo perinatale, e nel postparto in particolare, si evidenziano pensieri ossessivi riferiti alla paura di arrecare un danno al bambino (paura di fare del male al bambino). In tal senso il timore è legato un’intensa e disfunzionale paura di perdere il controllo e paura delle ossessioni stesse, ma non vi è l’intenzione o il desiderio di fare del male al bambino.

Le compulsioni possono quindi tradursi in comportamenti di ipercontrollo per assicurarsi che il neonato stia bene, o rituali di altro tipo.

Altre forme di ossessioni possono riguardare il timore da contaminazione, con le corrispettive compulsioni di lavaggi e pulizia; ossessioni a carattere aggressivo, quali pensieri terrifici di morte, es. il pensiero di perdere il controllo e poterlo accoltellare o lanciare dalla finestra (si sottolinea, non avendo l’intenzione o il desiderio di farlo); in risposta a tali ossessioni la madre può essere portata a togliere coltelli dalla cucina, evitare di avvicinarsi alle finestre, non fare il bagnetto da sola al bambino, mettendo in atto evitamenti che vanno a peggiorare la sintomatologia ossessivo-compulsiva e la fiducia rispetto alla propria capacità di regolazione emotiva.

Le madri con disturbo ossessivo-compulsivo nel postparto interpretano l’avere le ossessioni sopra descritte come il fatto che potrebbero metterli in atto a danno del bambino (fenomeno della fusione pensiero-azione): “Lo penso, allora significa che potrei perdere il controllo, impazzire e farlo”. In conseguenza vengono attuati evitamenti e compulsioni per arginare il disagio emotivo.  Tali pensieri indesiderati, che diventano ossessioni, risultano estremamente angoscianti ed egodistonici per le madri, ovvero ritenuti e giudicati inaccettabili, maturando emozioni di tristezza, colpa e vergogna.

 La ricerca evidenzia che i pensieri di fare del male al bambino sono comuni in molte donne dopo il parto: la differenza tra le mamme con DOC e mamme “sane” sta nel fatto che le prime si autocolpevolizzano e esperiscono un forte senso di colpa e responsabilità solo per il fatto di avere avuto un pensiero o per la comparsa di un’immagine, spaventandosi molto e a volte vergognandosi, elementi che non facilitano la richiesta di aiuto specialistico psicologico psicoterapico.

I fattori di rischio e la diagnosi differenziale

Tra i fattori di rischio per l’esordio del DOC in gravidanza ritroviamo l’essere primipara, essere nel secondo-terzo trimestre di gravidanza, familiarità con il disturbo-ossessivo compulsivo, avere avuto un aborto spontaneo, problematiche gestazionali. In relazione al post-parto, i fattori di rischio per l’esordio di sintomatologia ossessivo-compulsiva sono di nuovo essere primipara, elevati livelli di ansia, avere un disturbo di personalità ossessivo-compulsivo o un disturbo evitante di personalità, familiarità psichiatrica, pregressa depressione maggiore e sindrome premestruale in anamnesi. Risultano particolarmente critiche le prima 4 settimane del puerperio.

È fondamentale chiedere il supporto specialistico, nelle madri che presentano sintomatologia DOC per alleviare la sofferenza e il disagio, nonché per favorire il benessere della diade mamma-bambino. In tale contesto, tale fenomenologia sintomatica non va comunque sottovalutata, ed è dunque fondamentale una consulenza da parte dello specialista della salute mentale (psicologo psicoterapeuta o psichiatra) per effettuare una corretta e attenta diagnosi differenziale rispetto ad altri disturbi quali ad esempio, disturbi depressivi nel post-parto, psicosi post-partum, o disturbo della relazione mamma-bambino.

Il trattamento del DOC nel postpartum

In termini di trattamento, secondo le linee guida NICE (National Institute for Health and Care Excellence) la psicoterapia cognitivo-comportamentale è indicata per il trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo in gravidanza e nel post-partum; in particolare sono indicati interventi che implicano procedure di esposizione e prevenzione della risposta (ERP), psicoeducazione e l’applicazione di tecniche di ristrutturazione cognitiva per regolare le emozioni di ansia e di colpa, il senso di responsabilità e l’intolleranza dell’incertezza. Accanto all’intervento psicoterapico, in alcuni casi si propone l’integrazione psicofarmacologica, ad esempio con SSRI.

Ricordo di Reuben Baron, lo statistico degli psicologi

Reuben Baron, professore emerito alla Università del Connecticut, è morto domenica 25 giugno dopo una lotta con l’Alzheimer. Aveva 86 anni.

 

C’è stato un momento, durato fino a poco meno di dieci anni fa, in cui molti psicologi e psichiatri si sono dilettati di un po’ di statistica for dummies nelle loro ricerche empiriche, salvo poi giustamente ricorrere alle competenze di un vero esperto quando il gioco iniziava a farsi duro.

In questa statistica ancora accessibile ai profani Reuben Baron, il coautore dell’articolo più citato nella storia della psicologia “The moderator–mediator variable distinction in social psychological research” ha giocato un ruolo importante. Lo pubblicò nel 1986 insieme a David Kenny (Baron & Kenny, 1986). Il lavoro mostrava come indagare, misurare e dimostrare relazioni tra variabili psicologiche che andassero oltre la semplice correlazione, relazioni denominate “mediazione” e “moderazione” e che, in qualche modo, alludevano a una sorta di causalità anche se poi non potevano assicurarla.

Però ci si accontentava: la “mediazione” e la “moderazione” di Kenny e Baron comunque permetteva di andare oltre una semplice convergenza tra dati che poteva essere casuale e priva di senso e inoltre lo permetteva con una certa semplicità che concedeva anche al non iniziato in statistica di calcolarle, anche se presumibilmente poco rispettando tutti i criteri di rigorosità che richiedevano quelle analisi. Poco male: a mettere tutto a posto ci pensava poi lo statistico in un secondo momento. L’importante per noi tutti non statistici era non essere costretti a consultarlo subito, lo statistico, figura notoriamente ieratica e restia a risposte chiare mentre il ricercatore non statistico è più in attesa di verdetti semplici: “Sia invece il vostro parlare: ‘Sì, sì’, ‘No, no’; il di più viene dal Maligno”

Da allora quel lavoro è stato citato in media circa tremila volte all’anno ed è diventato l’articolo più citato nella storia della psicologia. La tendenza positiva continua ancora oggi, sebbene da un po’ il livello di complessità dei calcoli statistici sia andato oltre il calcolo di Baron e Kenny, e probabilmente è stato un bene: effettivamente la semplicità della formula di Baron e Kenny a volte è stata usata semplicisticamente come una sorta di prova galileiana definitiva invece che di una stima tendenziale (Zhao, Lynch & Chen, 2010).

Purtroppo, Reuben Baron, professore emerito alla Università del Connecticut, è morto domenica 25 giugno dopo una lotta con l’Alzheimer. Aveva 86 anni. Dai necrologi apprendiamo che Baron, oltre a incrementare il rigore statistico nello stabilire relazioni di causa ed effetto in psicologia dimostrando il motivo per cui, ad esempio, l’esercizio migliora il benessere mentale o lo stato socioeconomico influisce sulla capacità di lettura, aveva anche altri interessi di tipo sociale e spirituale, oltre ad essere particolarmente attento nell’aiutare i suoi tesisti a laurearsi.

Quest’ultimo tratto sembra in linea con il contributo di Baron, che ha aiutato un po’ tutti gli psicologi a condurre le loro ricerche empiriche malgrado i loro limiti in statistica.

Wilhelm Maximilian Wundt: il fondatore della psicologia scientifica

Wilhelm Maximilian Wundt è considerato uno dei padri della psicologia moderna. Fondatore del primo laboratorio di psicologia sperimentale, ha contribuito all’identificazione della psicologia come una disciplina autonoma e scientifica.

Introduzione

 Wilhelm Maximilian Wundt, considerato il fondatore della psicologia scientifica, ha svolto un ruolo cruciale nello sviluppo e nell’affermazione di questa disciplina. Attraverso il suo lavoro pionieristico, Wundt ha gettato le basi per l’evoluzione della psicologia come scienza indipendente, aprendo la strada a nuove prospettive e metodi di ricerca.

Vita e formazione

Nato nel 1832 in Germania, Wundt ha avuto una formazione accademica eclettica, che ha svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo dei suoi interessi e nel suo contributo storico.

Wundt ha studiato medicina e successivamente si è specializzato in fisiologia, sotto la guida di importanti scienziati dell’epoca come Hermann von Helmholtz. Durante i suoi studi di fisiologia, ha acquisito una solida base scientifica che ha influenzato il suo approccio alla psicologia.

Tuttavia, la formazione di Wundt non si limitava solo alle scienze naturali. Ha anche sviluppato un interesse per la filosofia, studiando sotto la guida di Johann Friedrich Herbart e Friedrich Adolf Trendelenburg. Questo background filosofico ha avuto un’influenza significativa sulla sua visione della psicologia e sulla sua ricerca scientifica.

Dopo il dottorato in medicina, ha insegnato presso l’Università di Heidelberg. Durante questo periodo, ha svolto importanti ricerche sulla fisiologia sensoriale, che hanno gettato le basi per la sua futura carriera nel campo della psicologia.

Pubblica anche il primo volume del suo famoso libro di testo “Fondamenti di psicologia fisiologica”, che può essere considerato il primo manuale completo di psicologia sperimentale. Con questa pubblicazione, Wundt si trasforma interamente in uno “psicologo”.

Successivamente, accetta la cattedra di psicologia presso l’Università di Lipsia e lì fonda il primo laboratorio di psicologia sperimentale al mondo. Il laboratorio diventa presto il punto di riferimento per gli psicologi del tempo.

Fondazione del primo laboratorio di psicologia

Nel 1879, Wundt fonda il primo laboratorio di psicologia presso l’Università di Lipsia: pietra miliare nella storia della psicologia. Questo evento ha un importante significato storico perché rappresenta una netta separazione tra la psicologia e la filosofia, identificando la psicologia come una disciplina scientifica autonoma e dotata di metodi di ricerca rigorosi.

Inoltre, la creazione di un luogo dedicato allo studio scientifico della psicologia ha un’importanza fondamentale, poichè prima la psicologia era principalmente un campo di indagine filosofico, con teorie e speculazioni basate sulla riflessione e prive di un riscontro empirico. La presenza di un laboratorio specificamente progettato per la psicologia ha consentito agli studenti e ai ricercatori di condurre esperimenti controllati e oggettivi per studiare i processi mentali e comportamentali. L’ambiente di laboratorio ha permesso lo sviluppo di strumenti necessari per registrare, misurare e analizzare le risposte degli individui a stimoli specifici, portando così a una maggiore precisione e rigore nello studio della mente e del comportamento umano.

La creazione del laboratorio di Wundt ha anche favorito lo sviluppo di una comunità accademica di psicologi, stimolando la collaborazione e la condivisione di conoscenze. Gli studenti e i ricercatori potevano lavorare fianco a fianco, scambiandosi idee, confrontando risultati e sperimentando nuovi approcci. Questa sinergia ha alimentato il progresso della psicologia in quanto scienza e ha contribuito all’espansione della disciplina in tutto il mondo.

Il metodo sperimentale

Wundt introduce il metodo sperimentale nello studio della psicologia. Attraverso l’utilizzo di metodi come l’introspezione, egli tenta di analizzare in laboratorio i processi mentali soggettivi, ovvero sensazioni, immagini mentali ed emozioni. Questo approccio innovativo permise di esaminare gli aspetti interni della mente umana, aprendo la strada a una comprensione scientifica dei processi mentali.

Il metodo sperimentale, attraverso l’osservazione, la descrizione, la generazione di ipotesi e gli esperimenti-verifiche di ipotesi, permette di stabilire una relazione di causalità tra un fenomeno sotto esame e una o più variabili controllate dallo sperimentatore.

 Wundt ha utilizzato l’introspezione come uno dei principali strumenti per studiare l’esperienza umana. Attraverso l’introspezione, coloro che partecipavano ai suoi esperimenti osservavano e descrivevano le proprie esperienze mentali. Questo approccio consentiva di esaminare gli aspetti interni della mente umana, come le sensazioni, le idee e le emozioni. Tuttavia, Wundt non si affidava esclusivamente all’introspezione. Riconosceva l’importanza dell’osservazione diretta dei comportamenti e dei processi mentali esterni. Utilizzando l’osservazione, intendeva raccogliere dati empirici sugli aspetti esterni del comportamento umano, come le reazioni fisiche e le manifestazioni comportamentali. Inoltre, Wundt attribuiva grande importanza alla misurazione oggettiva nella ricerca psicologica. Per lui, era fondamentale misurare e quantificare gli eventi psicologici in modo accurato e riproducibile. Per fare ciò ha sviluppato strumenti di misurazione, come cronometri e dispositivi per la percezione sensoriale, al fine di registrare e quantificare i dati raccolti.

Questo approccio integrato di introspezione e osservazione ha fornito un quadro più completo per lo studio e lo sviluppo futuro della psicologia. Il rigore metodologico invece ha contribuito a conferire alla psicologia uno status di scienza empirica, basata su dati oggettivi e verificabili.

L’importanza della formazione filosofica di Wundt si riflette nella sua visione della psicologia come una scienza che si occupa degli aspetti soggettivi dell’esperienza umana. Ha cercato di integrare la psicologia con la filosofia, utilizzando i risultati della ricerca psicologica per affrontare le domande filosofiche sulla mente, la coscienza e la natura umana.

L’analisi degli elementi della coscienza

Wundt si è dedicato all’analisi degli elementi fondamentali della coscienza umana, che ha chiamato “sensazioni” e “percezioni”. Attraverso l’introspezione e l’analisi sperimentale, ha tentato di scomporre i processi mentali complessi in componenti più semplici. Wundt credeva che comprendere i componenti di base della coscienza umana fosse fondamentale per ottenere una comprensione più approfondita dei processi mentali. Scomporre la complessità della mente in parti più semplici ha permesso di esaminare e analizzare in modo più dettagliato gli elementi costitutivi della coscienza, ha contribuito a sviluppare una visione più chiara dei processi mentali e delle loro interconnessioni.

L’importanza di scomporre i processi mentali complessi in componenti più semplici risiede nella possibilità di studiare in modo più accurato e scientifico la mente umana. Questo approccio, conosciuto come “Elementismo”, ha avuto un impatto significativo sullo sviluppo successivo della disciplina psicologica, per esempio, aprendo la strada allo Strutturalismo.

L’eredità di Wundt

Wilhelm Wundt ha avuto un’influenza significativa nella formazione di numerosi psicologi di spicco. Attraverso il suo lavoro pionieristico e il suo approccio scientifico, ha ispirato e istruito molti studenti che poi sarebbero diventati importanti figure nel campo della psicologia, come Emil Kraepelin, Hugo Münsterberg ed Edward Titchener. Le sue idee e il suo lavoro hanno avuto un’impronta duratura nella psicologia moderna. Concetti come l’analisi degli elementi della coscienza, l’uso dell’introspezione e il metodo sperimentale sono ancora fondamentali nella ricerca contemporanea. Le sue teorie e scoperte hanno aperto la strada a nuovi approcci e dibattiti nel campo della psicologia. Wundt ha contribuito a far crescere e consolidare la psicologia come una disciplina scientificamente degna. Il suo impegno nella creazione del primo laboratorio di psicologia e nella promozione di metodi rigorosi di ricerca ha dato alla psicologia una base solida e ha stabilito standard elevati per la conduzione di studi psicologici. L’influenza di Wundt si estende anche oltre i confini accademici, contribuendo a diffondere l’importanza dell’approccio scientifico e dell’indagine empirica nella comprensione della mente e del comportamento umano.

Conclusioni

Wilhelm Maximilian Wundt, il fondatore della psicologia scientifica, ha lasciato un’impronta indelebile nello sviluppo e nell’affermazione di questa disciplina. Il suo lavoro pionieristico ha stabilito le fondamenta per l’evoluzione della psicologia come scienza indipendente, aprendo nuovi orizzonti e introducendo metodi di ricerca innovativi. La sua vita e la sua formazione eclettica hanno contribuito in modo significativo alla sua visione della mente umana. La fondazione del primo laboratorio di psicologia a Lipsia ha sancito l’autonomia della psicologia come disciplina scientifica. Il laboratorio ha fornito uno spazio dedicato alla ricerca e alla sperimentazione, consentendo la raccolta di dati empirici e lo sviluppo di strumenti di misurazione oggettiva.

L’impatto di Wundt si estende ben oltre il suo tempo, poiché ha contribuito a creare una comunità accademica di psicologi e ha promosso l’importanza dell’approccio scientifico nell’indagine della mente e del comportamento umano. In conclusione, il lavoro di Wundt ha plasmato la psicologia come la conosciamo oggi, lasciando un’eredità di conoscenza e metodologie che continueranno a influenzare la ricerca e la pratica della psicologia nel futuro.

Sensation seeking: espressioni comportamentali e basi biologiche

Una delle spiegazioni maggiormente accreditate alla base del sensation seeking si basa su un modello in cui fattori genetici, biologici, psicofisiologici e sociali influenzano determinati comportamenti, atteggiamenti e preferenze dell’individuo (Zuckerman, et al., 1980).

Che cos’è il sensation seeking?

 Con il termine sensation seeking si intende un tratto della personalità caratterizzato dalla ricerca di sensazioni ed esperienze costantemente nuove, varie, complesse e intense accompagnata dalla volontà di correre rischi fisici, sociali, legali e finanziari in nome di tali esperienze (Zuckerman, 1994, p. 27). Questo può essere rilevato ricorrendo a degli strumenti di misura, tra cui la Sensation Seeking Scale-V (SSS-V) che va a scomporre il tratto del sensation seeking in quattro dimensioni: ricerca del brivido e dell’avventura, ricerca dell’esperienza, disinibizione e suscettibilità alla noia (Zuckerman et al., 1978). Una delle spiegazioni maggiormente accreditate alla base del sensation seeking si basa su un modello in cui fattori genetici, biologici, psicofisiologici e sociali influenzano determinati comportamenti, atteggiamenti e preferenze dell’individuo (Zuckerman, et al., 1980). Coloro che presentano dei livelli elevati di sensation seeking sono propensi infatti a emettere dei comportamenti che aumentino la quantità di stimoli di cui far esperienza nella quotidianità. Un aspetto fondamentale è che i comportamenti impulsivi emessi dai sensation seekers, per esempio la pratica di sport estremi, l’utilizzo di droghe o la guida spericolata, sono tesi alla ricerca di un incremento dell’arousal, ovvero dell’attivazione dell’organismo.

Espressioni comportamentali del sensation seeking

L’incremento dei livelli di arousal ricercato dai sensation seekers può essere ottenuto attraverso molteplici comportamenti e attività.

  • Professioni che comportano richieste occupazionali perennemente nuove, inedite e stimolanti vengono considerate come particolarmente attraenti da questi individui. In uno studio pubblicato negli anni ‘70 è stato dimostrato che carriere scientifiche o di servizio sociale, come psicologo, psichiatra o assistente sociale, vengono maggiormente preferite da soggetti con livelli elevati di sensation seeking. Al contrario, punteggi bassi in questo tratto di personalità risultano associati a preferenze per lavori più strutturati e ben definiti, caratterizzati solitamente da ordine e routinarietà (Kish & Donnenwerth, 1969).
  • Un’altra attività amata dai sensation seekers è l’ascolto di musica eccitante, come l’hard rock rispetto alle composizioni classiche strumentali (McNamara & Ballard, 1999). Inoltre, i soggetti che mostrano livelli elevati di sensation seeking risultano più propensi di altri ad apprezzare forme d’arte insolite o sgradevoli (Rawlings, 2003), a viaggiare in luoghi sconosciuti o poco familiari e a partecipare volontariamente agli esperimenti in laboratorio, soprattutto se quest’ultimi vengono descritti come “pericolosi” (Trice & Ogden, 1986).
  • Un’espressione socialmente accettabile della ricerca di sensazioni costantemente nuove è la pratica di sport estremi, per esempio l’arrampicata, le immersioni subacquee, il deltaplano e il lancio con il paracadute. Tra di essi, quelli che sono caratterizzati da un rischio intrinseco maggiore, come il bungee jumping, l’arrampicata, il paracadutismo, le immersioni subacquee, lo sky surf e le corse su strada, vengono spesso preferite dai sensation seekers rispetto ad attività sportive meno rischiose (Wagner & Houlihan, 1994; Malkin e Rabinowitz, 1998).
  • La letteratura scientifica ha individuato infine una serie di comportamenti a rischio solitamente emessi dai sensation seekers costruendo così un ponte con la psicologia clinica. Per esempio, è stata osservata una relazione positiva tra i livelli di sensation seeking e il consumo di sostanze, tra cui alcool e marijuana (Earleywine & Finn, 1991). Oppure, è stato osservato che individui aventi dei livelli di sensation seeking elevati tendano ad avere più partner sessuali (Cohen & Fromme, 2002) e a compiere atti sessuali senza un’adeguata protezione contro le malattie sessualmente trasmissibili (come l’utilizzo del preservativo; Arnold et al., 2002).

Basi biologiche del sensation seeking

 A partire dagli anni ’90, Zuckerman (1996) ha ipotizzato che il sensation seeking fosse un prodotto dell’interazione tra diversi sistemi neurotrasmettitoriali, tra cui quello dopaminergico e quello serotoninergico. Ciò è stato dimostrato da una serie di esperimenti condotti sui ratti nei quali i comportamenti esplorativi degli animali venivano considerati come un indicatore affidabile dei livelli di sensation seeking. Nei loro studi sperimentali, Dellu e colleghi (1996) e Piazza e collaboratori (1993) posizionarono una frotta di ratti in un ambiente sconosciuto e, sulla base del comportamento esplorativo degli esemplari, individuarono due gruppi distinti: i ratti ad alta risposta (high responders; HR), ovvero quelli che mostravano un’elevata tendenza all’esplorazione, e gli esemplari a bassa risposta (low responders; LR), ovvero quelli che esibivano una risposta locomotoria ridotta. I ricercatori hanno osservato che i ratti HR presentavano una maggiore attività dopaminergica a livello del nucleo accumbens e una minore attività nella corteccia prefrontale rispetto ai ratti LR. Inoltre, l’aumento del rilascio da parte dei sistemi dopaminergici si associa a una diminuzione del rilascio da parte dei sistemi serotoninergici e noradrenergici. Qualche anno più tardi, Netter e colleghi (1996) hanno scoperto che l’attività di questi sistemi neurostrasmettitoriali era in relazione con particolari aspetti del sensation seeking nell’essere umano. In particolare, è stata osservata una correlazione positiva tra i domini di disinibizione e ricerca dell’esperienza della Sensation Seeking Scale-V e i livelli di dopamina dei soggetti (Netter et al., 1996). Ciò ha portato a ipotizzare che non solo i ratti HR, ma anche gli esseri umani con alti punteggi di sensation seeking possedessero dei sistemi dopaminergici up-regolati, ovvero che mostrassero dei livelli maggiori di dopamina rispetto a coloro che presentavano dei bassi livelli di sensation seeking.

Tuttavia, le basi neurobiologiche del sensation seeking e le modalità con cui questo tratto di personalità si associa ai processi cognitivi dell’essere umano sono temi che restano un terreno fertile per la ricerca.

 

Credenze metacognitive e caratteristiche alimentari in pazienti con disturbo dell’alimentazione

I disturbi alimentari (es. anoressia nervosa, bulimia nervosa e disturbo da Binge Eating) presentano preoccupazioni patologiche relative alla forma e al peso corporeo (APA, 2013).

Il nucleo psicopatologico dei disturbi alimentari

 Secondo Fairburn e colleghi (Fairburn, Cooper, & Shafran, 2003) il nucleo psicopatologico centrale condiviso tra i disturbi dell’alimentazione consiste nell’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo. Inoltre, giocano un ruolo nell’esordio e mantenimento del disturbo ulteriori fattori tra cui il perfezionismo clinico, la bassa autostima nucleare, le difficoltà interpersonali. La terapia cognitivo comportamentale è ampiamente utilizzata nel trattamento dei disturbi alimentari con tassi di remissione tra il 37% e il 69% (Linardon et al., 2017). Tuttavia, una parte dei pazienti risulta resistente a tale approccio di trattamento e rimane sintomatica, non mostrando miglioramenti (Kass, Kolko, & Wilfley, 2013).

In tal senso, un’ulteriore visione potrebbe riferirsi al modello metacognitivo (Wells, 2009), che identifica alcuni “processi psicologici transdiagnostici” coinvolti in diversi disturbi (Mansueto et al., 2019; Palmieri et al., 2018).

Le credenze metacognitive nei disturbi alimentari

Con il termine metacognizione ci si riferisce alla conoscenza stabile del proprio sistema cognitivo, alla conoscenza dei fattori che influenzano il funzionamento di questo sistema, alla regolazione e alla consapevolezza dello stato attuale della cognizione e alla valutazione del significato dei pensieri e ricordi (Wells, 1995). Le credenze metacognitive o metacredenze si possono definire come delle informazioni soggettive relative al proprio funzionamento cognitivo e alle strategie di coping generalmente utilizzate. Secondo Wells e Matthews (1994) i disturbi psicologici insorgono e vengono mantenuti a causa di modalità cognitive ed emotive che interessano il pensiero, il monitoraggio delle minacce, comportamenti di prevenzione ed evitamenti. Queste modalità dipendono strettamente dalle credenze metacognitive sottostanti.

Le credenze metacognitive possono essere suddivise in: a) credenze metacognitive positive sulle strategie di controllo che incidono sugli eventi interni; b) credenze metacognitive negative relative al significato, all’incontrollabilità e al pericolo degli eventi interni (Wells, 2002).

Alcuni studi hanno identificato una correlazione tra credenze metacognitive e disturbi alimentari (Palmieri et al., 2021). Ad esempio, secondo alcune ricerche (Woolrich, Cooper, & Turner, 2008) le metacognizioni esplicite sarebbero coinvolte nel mantenimento dell’anoressia nervosa. Altri studi (Cooper et al., 2007; McDermott & Rushford, 2011) hanno dimostrato punteggi più elevati nel Metacognitions Questionnaire-30 (MCQ-30), e quindi maggiori livelli di credenze disfunzionali, nei pazienti con anoressia nervosa rispetto ai soggetti di controllo.

Una recente revisione sistematica (Palmieri et al., 2021) ha ulteriormente confermato la presenza di un livello più elevato di metacredenze cognitive disfuzionali nei soggetti con diagnosi di anoressia nervosa rispetto ai soggetti della popolazione generale.

Disturbi alimentari e credenze metacognitive: lo studio

L’obiettivo dello studio esplorativo di Palmieri, Mansueto, Ruggiero e collaboratori (2022) è stato quello di indagare la relazione tra credenze metacognitive in pazienti con disturbi dell’alimentazione (anoressia nervosa, bulimia nervosa e disturbo da Binge Eating), ipotizzando che le credenze metacognitive possano essere associate alle caratteristiche centrali dei disturbi dell’alimentazione.

Il campione della ricerca è stato costituito da 57 pazienti con diagnosi di disturbi alimentari.

In termini di strumenti, sono stati somministrati al campione di soggetti clinici i seguenti questionari self-report:

  • Il questionario EDI-2  (Garner, Olmsted & Polivy, 1983), di cui sono state somministrate tre sottoscale: a) impulso alla magrezza (riflette il desiderio di perdere peso e la paura dell’aumento di peso); b) bulimia (tendenza a episodi di abbuffata e purging; c) insoddisfazione per il corpo.
  • Il Metacognitions Questionnaire-30 (MCQ-30) (Wells & Cartwright-Hatton, 2004): è uno strumento autosomministrato composto da 30 item il quale valuta le seguenti dimensioni: (1) credenze positive sul rimuginio (ad esempio, “preoccuparmi mi aiuta a fronteggiare le difficoltà”); (2) credenze negative su pensieri riguardanti incontrollabilità e pericolo (ad esempio, “quando comincio a preoccuparmi per qualcosa non riesco più a smettere”); (3) fiducia nelle proprie capacità cognitive (ad esempio, “la mia memoria talvolta mi inganna”); (4) bisogno di controllare i pensieri (ad esempio, “non essere in grado di controllare i propri pensieri è segno di debolezza”); e (5) autoconsapevolezza cognitiva (ad esempio, “presto molta attenzione al modo in cui funziona la mia mente”).

A seguito delle analisi statistiche dai dati è emerso anzitutto che pazienti con anoressia nervosa e bulimia nervosa hanno punteggi più elevati nella dimensione di “Impulso alla Magrezza” dell’EDI-2 rispetto agli altri sottogruppi del campione (pazienti con Binge Eating Disorder e pazienti con Bulimia Nervosa). Inoltre, pazienti con anoressia nervosa avrebbero livelli significativamente superiori di credenze metacognitive negative rispetto ai pazienti con diagnosi di Binge Eating Disorder. Questo dato è coerente con studi che evidenziano come i pazienti con anoressia nervosa riportino maggiori metacredenze negative rispetto alle altre categorie diagnostiche.

 In termini generali, i dati dello studio dimostrano una correlazione positiva tra le credenze metacognitive e l’impulso alla magrezza, alla tendenza ad abbuffarsi e al ricorso a comportamenti compensatori. Inoltre, tra le credenze metacognitive, la fiducia nelle proprie capacità cognitive è risultata essere un possibile fattore associato all’impulso alla magrezza.

Alcune limitazioni dello studio consistono nella scarsa numerosità del campione e dalla sua scarsa eterogeneità (prevalenza di diagnosi di anoressia nervosa).

Conclusioni

In conclusione, si evidenzia come le metacredenze disfunzionali possano essere implicate nei disturbi alimentari in linea con i risultati di altri studi (Sun et al., 2017). In termini clinici può essere importante valutare le credenze metacognitive nei pazienti con patologie del comportamento alimentare; inoltre, la terapia metacognitiva può essere utile nel trattamento di soggetti con diagnosi di disturbo alimentare.

Chi è la crocerossina: la sindrome di Wendy

Nella sindrome di Wendy, anche nota come Sindrome della crocerossina, la persona impronta la sua esistenza sulla cura dell’altro bisognoso. Alla base c’è la credenza di doversi meritare l’amore attraverso il sacrificio, pena l’abbandono e il rifiuto. Spesso, questa sindrome cela una personalità dipendente che dovrebbe essere aiutata ad affrontare la separazione e ad auto-affermarsi.

Perché si chiama Sindrome di Wendy?

 Per conoscere la Sindrome di Wendy può essere utile ripercorrere le origini del nome, quando il termine fu coniato ispirandosi alla favola di J.M. Barrie “Peter Pan”. Nel racconto, Wendy è una bambina di 10 anni che, a causa delle complicate condizioni di vita, è obbligata a diventare adulta prima del previsto, occupandosi dei suoi fratelli e dell’amico d’avventure Peter Pan. Wendy si offre volontariamente e con piacere di conservare l’ombra dell’amico affinché non si sgualcisca, accettando di accompagnarlo nelle peripezie dell’Isola che non c’è e, qui, di diventare la mamma accudente di tutti i bambini sperduti.

Wendy non si lamenta del ruolo da adulta che ha dovuto precocemente assumere e, anzi, è felice di offrire aiuto e di essere riconosciuta dall’altro come una figura di supporto.

Wendy è tutte quelle donne e tutti quegli uomini che, nel proteggere e gratificare l’altro a discapito dei propri bisogni, si riconoscono nella sindrome della crocerossina.

Quali sono le caratteristiche della crocerossina

Anche se le donne tendono ad essere più colpite, gli uomini non ne sono immuni: in ogni caso, si tratta di persone che si mostrano particolarmente accudenti, protettive, premurose e orientate alla soddisfazione dell’altro, senza sentire di pagare il costo di mettere in secondo piano le proprie opinioni ed esigenze.

Che sia nei confronti di genitori, figli, fratelli, amici o partner, tali comportamenti sono intrapresi con assoluta consapevolezza e intenzionalità: la credenza alla base di queste persone è “Esisto fino a che c’è qualcuno da curare”, perché solo attraverso il sacrificio si sentono vive e di valore.

I comportamenti risanatori nei confronti dell’altro appagano la persona con la sindrome della crocerossina che, nel rendersi indispensabile per l’altro, lo tiene a sé escludendo l’eventualità di abbandono o rifiuto. Il circolo vizioso, dunque, vuole che queste condotte assistenziali siano percepite come necessarie affinché la relazione possa andare avanti, pena il venir meno del motivo per cui l’altro può rimanere legato a sé.

Visto che la persona con la sindrome della crocerossina può esistere solo se c’è qualcuno da accudire, non è un caso che queste persone scelgano di costruire delle relazioni affettive con partner bisognosi. Solitamente, i partner soccorsi sono individui un po’ complicati, inafferrabili o problematici che, fin dall’inizio, trasmettono la sensazione che potrà essere difficile stare vicino a loro. Questo tema non fa altro che attivare lo schema protettivo di chi ricopre i panni della crocerossina, che così si sente ingaggiato/a nella sua missione di vita: “Io ti aiuterò e tu starai meglio, così mi sarai riconoscente e mi amerai”.

La psicoterapia per la personalità dipendente

Se dovessimo esplorare le credenze di chi presenta la sindrome della crocerossina, probabilmente queste sarebbero simili alle seguenti (Quadrio, 1982):

“Io sono indispensabile”

“L’amore richiede un certo sacrificio”

“Gli altri intorno a me non devono arrabbiarsi”

“Gli altri vanno protetti”

 Come possibile evincere da queste convinzioni profonde, spesso dietro il ruolo di crocerossina si cela una personalità di tipo dipendente, caratterizzata da un pervasivo ed eccessivo bisogno di essere vicino all’altro, anche a costo di sottomissione. La paura centrale è quella di ritrovarsi soli, senza nessuno a cui badare e, dunque, da cui essere protetto: l’idea che non ci sia nessuno da aiutare spaventa la persona che fa da crocerossina, che impernia l’idea di sé sull’essere utile e indispensabile per qualcuno. L’amore, infatti, non viene vissuto come qualcosa di gratuito e incondizionato, bensì come qualcosa da doversi meritare con azioni di cura.

Le radici di questo funzionamento sono frutto dell’interazione fra molteplici variabili sperimentate dall’infanzia all’oggi di queste persone: il temperamento, i tratti di personalità, l’educazione genitoriale, le esperienze traumatiche, lo stile di vita, i bisogni e le circostanze attuali.

Per poter venire fuori dalla sindrome di Wendy, iniziare un percorso di psicoterapia potrebbe essere una buona soluzione. Per poter essere veramente efficace, però, questo dovrebbe avere specifici obiettivi:

  • Esplorare innanzitutto la storia di vita della persona, cercando di capire quale clima familiare ha respirato e da quali dinamiche relazionali ha imparato che l’amore ha un prezzo che deve essere guadagnato;
  • Comprese le radici della personalità dipendente, il terapeuta potrebbe spingere la persona a guardare più da vicino i propri timori abbandonici e di rifiuto, tentando di ristrutturare la disfunzionalità delle credenze di sé che li sostengono;
  • Aiutare il paziente ad accettare la consapevolezza che gli eventi di separazione sono possibili e tollerabili e, in parallelo, sostenerlo/a nella sua individuazione, incentivando opportunità di auto-affermazione finora inesplorate;
  • Svolgere un cospicuo lavoro sulla bassa autostima del paziente, che dovrebbe essere guidato/a a costruire un’idea di sé di valore centrata sui propri bisogni e non più condizionata dal soddisfacimento di quelli degli altri.

Due componenti dell’empatia: empatia cognitiva ed affettiva

L’empatia è la capacità di capire e condividere il vissuto emotivo dell’altro. Si tratta di un costrutto multidimensionale che include diverse componenti, tra cui quelle affettiva e cognitiva (Bray et al. 2021).

Che cosa si intende per empatia?

 Il comportamento umano si basa sull’interpretazione delle azioni dell’altro, che riflette la nostra flessibilità nel mondo sociale; per poterci adattare e per sopravvivere, la cognizione sociale utilizza diversi meccanismi, tra i quali l’empatia (Reniers, 2011).

L’empatia varia negli individui ed è considerata generalmente stabile nel tempo. Nella sua forma più matura, si caratterizza come una risposta a un insieme di stimoli comprendenti il comportamento, l’espressività e tutto ciò che si conosce dell’altro. L’acquisizione di questa funzione, dato l’alto livello di complessità dei meccanismi cognitivi implicati, ha un’evoluzione graduale, che trova, in buona parte delle persone, compimento intorno ai 13 anni (Schmidt, 2015).

Da un punto di vista cognitivo l’empatia si basa sulla possibilità di comprendere il punto di vista dell’altro e spiegarsi razionalmente la sua esperienza emotiva; da un punto di vista affettivo, l’empatia permette di sperimentare in prima persona il vissuto emotivo dell’altro. Il coinvolgimento di entrambi i sistemi (cognitivo ed affettivo) permette di condividere l’esperienza interiore dell’altro, pur rimanendo consapevoli della distinzione tra le esperienze proprie e quelle degli altri (Monti, 2015).

Le componenti dell’empatia

I modelli teorici sull’empatia prevedono che essa sia formata da diverse componenti. Vediamone alcuni esempi.

Il modello di Hoffman

Il modello elaborato da Hoffman nel 2008 fornisce una descrizione dello sviluppo dell’empatia articolato e complesso. Hoffmann non la considera come qualcosa di unitario, ma propone un modello a tre componenti: affettiva, cognitiva e motivazionale.

Secondo Hoffman l’empatia si manifesta fin dai primi giorni di vita e, nelle primissime manifestazioni empatiche, il ruolo di maggior rilevanza è rivestito dalla dimensione affettiva, mentre la dimensione cognitiva è pressoché assente.

Procedendo nello sviluppo, la componente cognitiva acquisisce un’importanza crescente e si fonde sempre di più con quella affettiva, permettendo lo sviluppo di forme più evolute di empatia.

Oltre alla componente cognitiva e a quella affettiva, secondo Hoffman è presente nell’esperienza empatica un terzo fattore: la componente motivazionale. L’esperienza di empatizzare con una persona che sta soffrendo, infatti, rappresenterebbe una motivazione per mettere in atto comportamenti di aiuto: condividendo l’emozione dell’altro, soccorrerlo fa provare a chi aiuta uno stato di benessere, mentre la scelta opposta potrebbe portare con sé un senso di colpa.

Il modello di Blair

Il modello di Blair (2005) distingue tra tre componenti dell’empatia: cognitiva, affettiva e motoria.

  • Componente cognitiva: l’individuo si rappresenta lo stato mentale di un altro e i suoi processi mentali.
  • Componente emotiva: la risposta all’espressione emotiva dell’altro (es. il pianto) e la risposta ad altri stimoli emotivi (es. venire a sapere del lutto subito da un amico). Include una risposta emotiva.
  • Componente motoria: l’azione che riflette le risposte emotive della persona osservata.

Componente cognitiva e componente affettiva

Aspetto condiviso dai diversi autori è che l’empatia è formata da una componente cognitiva e da una affettiva.

 La componente cognitiva corrisponde alla comprensione dell’esperienza dell’altro e richiede che l’informazione sia mantenuta nella mente e manipolata per giungere ad una comprensione delle informazioni in entrata.

La componente emotiva invece, richiede il riconoscimento dell’emozione altrui sulla base dell’espressione facciale, del linguaggio del corpo e della voce. Questo suscita una risposta emotiva alla situazione che l’altro sta vivendo e l’identificazione dello stato emotivo altrui.

Entrambe le componenti sono processi necessari ma distinti per rendere possibile la risposta empatica (Reniers, 2011).

Le basi neurali dell’empatia

Quando consideriamo la componente affettiva dell’empatia, l’enfasi è tipicamente posta sul vivere gli stati emotivi degli altri consapevolmente, il che implica una distinzione sé-altro, nonché una comprensione della provenienza dell’esperienza emotiva. Menon e Uddin (2010) suggeriscono che la consapevolezza emotiva si verifichi perché l’insula crea una rappresentazione delle emozioni positive e negative integrando le stimolazioni ambientali con sensazioni corporee.

La componente cognitiva dell’empatia si basa invece sull’attribuire stati emotivi agli altri e identificarsi con uno stato mentale altrui. Richiama parzialmente i meccanismi di fondo della teoria della mente. Le regioni cerebrali più comunemente associate con la teoria della mente sono la corteccia prefrontale dorso mediale (dmPFC) e la giunzione temporoparietale (TPJ) (Schmiedt, 2015).

 

Dalla felicità alla realizzazione: il segreto di una vita appagante

La felicità è un’emozione passeggera non destinata a durare a lungo. Di conseguenza, inseguirla costantemente come unico obiettivo desiderabile può portare a delusioni. La realizzazione, invece, è uno stato dell’essere, ma soprattutto un obiettivo di crescita sia personale che professionale. Accettare sé stessi, sfruttare al massimo le proprie risorse, sviluppare relazioni significative e avere una visione ottimistica del futuro sono fondamentali per raggiungerla.

Sfida la fugacità della felicità: abbraccia la strada verso la realizzazione

 La felicità spesso si delinea come l’unico obiettivo desiderabile, ma è un’emozione effimera e passeggera. La chiave per vivere una vita appagante risiede nella ricerca della realizzazione. Ciò significa accettare se stessi e sfruttare appieno le proprie risorse, mantenendo una visione ottimistica del futuro. Il dottor Gregory Scott Brown, uno psichiatra americano, ha recentemente incontrato un paziente che gli ha rivelato che la sua più grande paura era guardarsi indietro e rendersi conto di aver trascorso l’intera esistenza “immerso nella tristezza”. Alla domanda dello psichiatra su quali fossero le sue aspettative riguardo al percorso insieme, il paziente ha risposto che desiderava trovare la felicità. Anche il dottor Brown si è trovato spesso a riflettere sulla natura della felicità e sui modi per raggiungerla. Le numerose conversazioni con pazienti alla costante ricerca della felicità gli hanno insegnato che ciò che veramente conta per una vita migliore è sentirsi realizzati.

La felicità è un’emozione effimera

Come riportato nell’articolo, molti pazienti del dottor Brown spesso attribuiscono la loro felicità a un momento specifico della vita, come il giorno del matrimonio o quello della laurea, e riportano il desiderio di volersi risentire esattamente nello stesso modo. Tuttavia, la felicità, così come la tristezza, sono emozioni e in quanto tali non sono destinate a durare a lungo. Desiderare continuamente uno stato di felicità può portare ad aspettative irrealistiche e a sentirsi delusi.

La realizzazione è uno stato dell’essere

La realizzazione è diversa dalla felicità: si raggiunge accettando se stessi, apprezzando ciò che si ha e guardando positivamente al futuro. I pazienti che si sentivano realizzati potevano guardare con gioia alla propria vita e alle loro relazioni, mostrare gratitudine e rimanere ottimisti. A tal proposito, il dottor Brown chiede spesso ai suoi pazienti di immaginare una vita migliore basata sulla realizzazione e a fare cambiamenti concreti per avvicinarsi ad essa.

Come reagire alle fluttuazioni emotive

Quando le persone si sentono realizzate hanno la tendenza a non reagire eccessivamente alle fluttuazioni emotive, considerandole come un’“onda” che si alza e poi si abbassa. Il dottor Brown insegna ai suoi pazienti ad utilizzare il modello HALT (Hunger, Anger, Lonely, Tired) per evitare che le emozioni preponderanti prendano il controllo. Raccomanda di chiedersi se ci si senta affamati, arrabbiati, soli o stanchi. In caso di risposta affermativa può essere utile seguire questi step: mangiare un pasto nutriente, allontanarsi dalla fonte di stress, provare la tecnica di respirazione 4-7-8, fare una breve passeggiata, scrivere 3 cose per cui si è grati, parlare con un amico e svolgere delle attività rilassanti.

Imparare adattarsi

 Imparare ad adattarsi alle diverse situazioni delle vita è un’abilità per preservare una buona salute mentale. Ciò non significa rinunciare ai propri sogni, ma sfruttare al massimo ciò che si ha e cercare di creare la vita che si desidera. Alcuni ricercatori hanno sviluppato un test chiamato Adaptability Quotient (AQ) per valutare il livello di adattabilità delle persone.

Se non ci si sente abbastanza in grado di adattarsi, può essere utile chiedersi quanto si sia disposti a cambiare e ad imparare, anche commettendo degli errori. Cambiare può significare sostituire vecchie abitudini con nuove abitudini più utili. Con la curiosità e l’apertura alla vita si potranno imparare molte cose sia su se stessi che sulle persone che ci circondano.

Sviluppare relazioni significative

Anche avere delle relazioni significative è essenziale per il benessere psicofisico, come dimostra lo studio di Harvard sullo sviluppo adulto. Gli amici, ad esempio, sono essenziali per una vita sana, ma creare e mantenere amicizie richiede impegno. Partecipare a incontri di interesse comune, terapie di gruppo o attività religiose può aiutare a creare connessioni significative. Quest’ultime rappresentano un’opportunità per avere una buona salute mentale e avvicinarsi alla realizzazione personale.

Non avere rimpianti

Può capitare di pensare al passato e voler cambiare qualcosa di esso, talvolta avendo rimpianti su ciò che è stato. Tuttavia, non è possibile cambiare il passato, ma può cambiare il modo in cui si pensa ad esso, cercando ad esempio di imparare dalle esperienze ed evitare di ripetere gli stessi errori. Vivere senza rimpianti aiuta a provare gratitudine per aver appreso da diverse circostanze passate. Concentrarsi su questo aspetto e sulla realizzazione personale, permetterà di avvicinarsi ad una vita migliore e di essere felici lungo il percorso.

 

Coping e strategie di coping

Nel corso degli anni diverse distinzioni si sono susseguite ma le strategie di coping che gli individui possono mettere in atto sono così numerose che non è stata ancora concordata una classificazione definitiva. Vediamone alcune.

 

 “It happens?” “What? Sh*t!” chi, come me, ha visto e rivisto Forrest Gump, avrà fatto di questo botta e risposta uno stile di vita, c’è chi invece ne conoscerà la versione originale, “Sh*t happens”, chi avrà sentito il più edulcorato “C’est la vie” o un più genuino “È la vita”. Insomma che si preferisca la versione più patriottica, quella più elegante, quella più rude o quella cinematografica, la verità è una sola: i momenti difficili accadono, fanno parte della vita.

Se problemi e difficoltà possono colpire indistintamente ognuno di noi, ciò che cambia è il modo in cui ognuno di noi reagisce a problemi e difficoltà. Parliamo dunque di coping.

Cosa si intende per coping?

I primi studiosi a occuparsi di coping sono Folkman & Lazarus (1984), secondo i quali il termine coping (dall’inglese to cope, ovvero fronteggiare) indica gli sforzi cognitivi e comportamentali compiuti per padroneggiare, tollerare o ridurre le richieste e i conflitti interni ed esterni che sono valutati come gravosi o eccessivi per le risorse della persona.

Cosa significa questo? Che dinanzi a un particolare evento, questo diventa stressante quando la persona lo percepisce come tale: se un individuo crede che le sue risorse siano adeguate per far fronte alle richieste dell’evento, egli lo affronterà con successo anche se tali richieste sono considerevoli. Questo è il coping: tutte le strategie che l’individuo è in grado di mettere in atto per risolvere le difficoltà che incontra.

Categorie di coping

Folkman e Lazarus concettualizzano due grandi categorie di coping:

  • il coping centrato sul problema: l’individuo analizza il problema per capirlo meglio, ad es. chiede informazioni e supporto ad altri o segue un piano di azione;
  • il coping centrato sull’emozione: il soggetto tenta di attenuare il disagio (es. evitando il problema) o di osservarne soltanto il lato positivo.

Nel corso degli anni diverse distinzioni si sono susseguite ma le strategie di coping che gli individui possono mettere in atto sono così numerose che non è stata ancora concordata una classificazione definitiva.

Ad oggi comunque risultano tre i tipi di coping maggiormente studiati:

  • coping orientato al problema;
  • coping orientato alle emozioni: in cui l’individuo tenta di regolare l’emotività negativa attraverso attività coscienti come la ricerca di supporto socio-emotivo;
  • coping orientato all’evitamento: la persona ricorre ad attività e/o strategie cognitive in un tentativo deliberato di svincolarsi dalle situazioni stressanti, cercando ad esempio delle distrazioni.

Strategie di coping più utilizzate

In concreto, quali sono le strategie di coping più comuni? Vediamone alcune:

  • Ricerca di supporto sociale: cercare un supporto emotivo, informativo e/o un aiuto più concreto al problema (es. “Chiedo ai miei amici cosa avrebbero fatto al mio posto”)
  • Distanziamento: distaccarsi da sé e minimizzare l’impatto della situazione (es.: “Farò finta che non sia successo niente”).
  • Autocontrollo: controllare le proprie sensazioni ed azioni (es. Sforzarsi di non esprimere ciò che si prova).
  • Accettazione delle proprie responsabilità: riconoscere il proprio ruolo nel problema e cercare di aggiustare le cose (es.: “So che in parte è stata colpa mia, chiederò scusa”).
  • Fuga ed evitamento: fuggire dalla situazione problematica ed evitare lo stress (es. “Non vado a scuola così evito l’interrogazione”).
  • Problem solving programmato: concentrarsi sul problema per modificare la situazione attraverso un approccio analitico ad esso (es.: “Faccio una lista dei pro e dei contro”).
  • Rivalutazione positiva: donare un senso positivo a quanto accaduto per crescere personalmente (es.: “Questa situazione mi ha insegnato come nella vita non è sempre importante arrivare primi”).
  • Umorismo: trovare aspetti divertenti per minimizzare la situazione.
  • Soppressione delle attività concorrenti: limitare tutte le attività che non riguardano il problema, per concentrarsi esclusivamente su di esso e sulla sua soluzione.
  • Concentrarsi sulle emozioni e cercare un modo per gestirle.
  • Negazione: negare o agire come se l’evento non fosse reale.
  • Coping religioso: rivolgersi alla religione per cercare supporto in periodi di stress.

Coping e salute mentale: esistono strategie di coping più efficaci di altre?

Secondo alcune ricerche sull’efficacia delle strategie di coping, il coping centrato sul problema sembra essere associato al benessere psicologico, esso ha una relazione positiva con autostima e senso di autoefficacia e delle relazioni negative con solitudine, ansia e depressione.

 Sono sempre più riconosciuti anche i benefici terapeutici del coping orientato alle emozioni, ovvero quel tipo di coping che permette di entrare in contatto con ciò che si prova e cercare un modo funzionale per gestirlo. Al contrario, preoccuparsi per le emozioni “negative” senza fare qualcosa di costruttivo per regolarle (in psicologia si usa “regolare le emozioni” per intendere il gestirle), tende ad amplificare il disagio e porta a conseguenze psicologiche negative, come depressione, ansia e stress.

Per quanto riguarda il coping orientato all’evitamento, queste strategie tendono a ridurre il disagio e l’ansia nel breve periodo, subito dopo che si verifica lo stress (entro una settimana), ma sono meno utili per il raggiungimento del benessere psicologico a lungo termine.

Quando le strategie di coping non sono efficaci

Il ricorso a determinate strategie di coping può dipendere sia dalle caratteristiche individuali che dagli aspetti situazionali. Ci sono infatti strategie che possono risultare efficaci in alcune situazioni ma non in altre (è diverso affrontare un lutto o il fatto di essere bloccati per strada con l’auto in panne) o ci sono strategie più efficaci in alcuni periodi di vita (pensiamo a quelle usate da un bambino e a quelle usate da un adulto), piuttosto che in altri.

Bisogna inoltre ricordare che spesso un singolo problema può richiedere l’impiego di diverse strategie di coping, gli stessi Folkman & Lazarus (1985) hanno visto come gli individui tendano a utilizzare strategie di coping che interagiscono l’una con l’altra in risposta a una situazione stressante.

Come spesso accade, ciò che rende “problematico” un fenomeno psicologico è la rigidità e la pervasività con cui questo si manifesta.

Facciamo un esempio: per non affrontare lo stress dell’interrogazione, decido di non andare a scuola e resto a casa. Non possiamo dire tout court che questa strategia sia inefficace: se so di aver studiato poco e se, restando a casa, ho modo di studiare meglio e andare più preparato il giorno successivo, la strategia di coping utilizzata si è rivelata utile. Se però, ogni giorno in cui è prevista un’interrogazione io mi assento, è evidente che la strategia di evitare si sta rivelando disfunzionale e che forse ho bisogno di affrontare lo stress da interrogazione in un altro modo se voglio superare l’anno scolastico.

Affinché le nostre strategie di coping possano dirsi efficaci, è importante ricorrere ad esse in modo flessibile, integrando diverse strategie per affrontare i problemi, e capire che non è sempre possibile evitare le situazioni difficili, né ridere di ogni evento stressante, né ancora cercare ogni volta le proprie colpe per ciò che succede o avere costantemente tutto sotto controllo.

Alcuni consigli

Molto più semplice a dirsi che a farsi, come agire quindi quando ci troviamo ad affrontare un momento difficile e non ci sentiamo pienamente in grado di gestirlo? Ecco alcuni consigli:

  • Rifletti su ciò che stai facendo: fermati un attimo e cerca di capire cosa stai facendo per risolvere il problema. Chiediti se la strategia di coping che stai utilizzando ti sta aiutando davvero nell’immediato e se può davvero aiutarti nel lungo termine.
  • L’esperienza insegna: pensa a quando hai affrontato una situazione difficile in passato, chiediti che cosa hai fatto che ti è stato d’aiuto e cosa, al contrario, ti ha ostacolato.
  • Una prospettiva diversa: quando si affronta una situazione stressante è spesso difficile capire se ciò che stiamo facendo ci sia d’aiuto oppure no. In questo caso può essere utile immaginare un tuo amico alle prese con la stessa situazione stressante: cosa gli consiglieresti di fare? Ti sorprenderà vedere come ciò che consiglieresti spesso non coincide con ciò che stai facendo.
  • L’aiuto di un terapeuta: qualora invece ti rendessi conto che le tue risorse non sono adeguate per far fronte agli eventi difficili, la psicoterapia si rivela un aiuto indispensabile per capire le radici della tua sofferenza, flessibilizzare le tue strategie di coping al momento inefficaci e per trovarne di nuove.

Come più volte ripetuto, bisogna accettare il fatto che i momenti difficili fanno parte del cammino della vita, meglio dunque avere a disposizione più paia di scarpe per affrontarlo: perché se è vero che “sh*t happens” è pur vero che in quel momento sarebbe meglio non indossare le stesse vecchie scarpe che indossiamo da anni e con le suole ormai consumate!

Sostenere chi sostiene (2022) di Erika Borella e Silvia Faggian – Recensione

Il libro “Sostenere chi sostiene. Strumenti e indicazioni per supportare chi si occupa di persone con demenza” è dedicato a come aiutare i caregiver di persone con disturbi neurocognitivi maggiori.

 

 In Psicologia spesso diciamo che ogni malattia importante è “familiare”, nel senso che la ricaduta emotiva, l’angoscia, lo stress non investono solo il paziente ma anche i suoi familiari. Inoltre, c’è un secondo aspetto, meno considerato. Da diverse ricerche svolte dal mio gruppo di lavoro (l’U.O.S.D. di Psicologia Clinica degli Ospedali dei Colli di Napoli) e da associazioni di volontariato, alla domanda rivolta ai ricoverati su quale sia stato il fattore più importante nel sostenere il percorso di cura, la risposta è sempre uguale: non i medici, non gli infermieri (categorie entrambe apprezzate, sia pure in un questionario proposto da operatori sanitari), ma l’elemento decisivo è considerato il sostegno dei familiari. Ecco, dunque, che prendersi cura di chi cura è importantissimo per un duplice aspetto. Da un lato anche i familiari vivono un disagio che non può essere ignorato, dall’altro si tratta di sostenere la risorsa più importante per i pazienti.

Questo libro si occupa dei caregiver dei pazienti affetti da disturbi neurocognitivi maggiori. È indubbio che le demenze, come la malattia di Alzheimer, siano tra le patologie che richiedono un impegno maggiore a chi assiste alla progressiva riduzione di autonomia di un congiunto. I motivi sono ben descritti nel volume. L’esperienza di non essere riconosciuto dal proprio genitore o di essere considerato un estraneo è una delle più stranianti che possa capitare ad essere umano; senza tralasciare l’impegno di un’assistenza che può durare molti anni.

Il libro “Sostenere chi sostiene”, la cui lettura è agevole e non particolarmente impegnativa, anche per i non professionisti essendo scritto con uno stile molto chiaro, consta di tre capitoli per poco più di cento pagine, escludendo quelle dedicate alle bibliografie. Il primo, dopo aver passato in rassegna quali siano i disturbi neuro-cognitivi più importanti, è dedicato a presentare il profilo del caregiver di una persona con demenza e le conseguenze sul piano pratico e psicologico di tale impegno; il secondo capitolo è dedicato all’esposizione dei principali interventi possibili per sostenere i caregiver, mentre nel terzo viene fornita una panoramica della rete dei servizi presenti sul territorio, a partire dalla realtà avanzata della Regione Emilia Romagna. Il testo, che è introdotto accogliendo due testimonianze personali, è completato da poche pagine finali che contengono i suggerimenti concreti basilari per i familiari.

 Dal libro “Sostenere chi sostiene” emerge con chiarezza come in tale ambito siano stati fatti progressi importanti dal punto di vista psicologico e che la scienza sa cosa serve per aiutare pazienti e familiari. Purtroppo è altrettanto evidente che mancano le risorse e forse anche la consapevolezza dei decisori per offrire in modo sistematico su tutto il territorio nazionale il ventaglio di interventi necessario per una reale presa in carico delle persone.

Il modello bio-psico-sociale, anzi bio-psico-socio-spirituale, della salute è, sul piano teorico, un modello affermato da ormai sei decenni, ma siamo ancora lontani dalla sua sistematica applicazione. Anzi, in tempi recenti nel sistema sanitario del nostro paese, che sta attraversando la transizione verso l’accentuata informatizzazione, si assiste ad un’ulteriore spersonalizzazione dei percorsi di cura, con riduzione dei tempi dedicati all’ascolto e, di contro, sempre maggiori energie materiali e psicologiche sono richieste dal disbrigo delle necessarie pratiche burocratiche.

In ogni caso, il volume costituisce un’utile lettura per i professionisti del settore ma forse soprattutto per chi sta vivendo l’esperienza di caregiver, o è comunque coinvolto sul piano personale da tali accadimenti, sia per essere meglio informati sulla rete dei servizi esistenti, sia per comprendere meglio e dare un senso più chiaro al proprio vissuto.

Le autrici sono due psicologhe di orientamento cognitivo-comportamentale con esperienze formative e operative nel campo della Psicologia dell’Invecchiamento, nelle procedure per il potenziamento cognitivo e nel sostegno a persone con demenza e loro familiari.

Guardarsi nelle Zoom call e il rischio sulla salute mentale

Con la virtualizzazione imposta dalla pandemia, le Zoom call sono diventate parte integrante della nostra vita lavorativa e privata. Guardare continuamente la propria immagine durante le videochiamate, però, potrebbe portare ad auto-oggettivarci più facilmente, con effetti non indifferenti sulla salute mentale, specialmente delle donne.

La virtualizzazione post-pandemica

 Con la pandemia da Covid-19 e le conseguenti limitazioni alla libertà di movimento, negli ultimi anni siamo stati costretti a passare più tempo nelle nostre case, reinventando un modo per continuare a lavorare e a interagire con gli altri. Gli strumenti per videochiamare le persone a distanza esistevano già, ma mai come nel periodo pandemico abbiamo utilizzato piattaforme come Zoom, Face-Time o Google Teams che ci consentissero di vedere e comunicare con gli altri. Sono strumenti sicuramente utili a imitare gli incontri di persona, ma sempre con una cruciale differenza: se nella vita reale non abbiamo costantemente l’opportunità di guardarci in uno specchio mentre interagiamo, nelle videochiamate il sistema consente di mostrare agli utenti anche un video di se stessi durante la conversazione. Visto che la virtualizzazione della vita quotidiana sembra uno scenario destinato a durare a lungo, avremo ancora per molto la possibilità di guardare noi stessi per ore durante la giornata, fra una riunione online e l’altra.

Di fronte a questa realtà, ciò che gli psicologi si stanno chiedendo è riassumibile nella seguente domanda: è davvero totalmente positiva questa soluzione virtuale o ci sono degli effetti collaterali a livello di salute mentale che abbiamo il dovere di prendere in considerazione?

Guardarsi nelle Zoom call: il rischio dell’auto-oggettivazione

L’ipotesi mossa da alcuni psicologi è che le lezioni, le riunioni o, in generale, gli incontri virtuali, se costanti e mantenuti nel lungo termine, portino a sviluppare un’attenzione continua nei confronti del proprio aspetto, con effetti dannosi sulla salute mentale, specialmente nelle donne.

Il meccanismo potenzialmente responsabile di questa relazione negativa sarebbe la cosiddetta auto-oggettivazione, ossia la tendenza a trattarsi come oggetti da guardare. Nella società moderna è innegabile che le donne continuino ad essere inserite in una cultura che dà priorità al loro aspetto, come evidente dalla maggiore oggettivazione del corpo femminile rispetto a quello maschile (ad esempio, per fini pubblicitari). Se questi sono i contenuti della cultura di appartenenza, non sorprende che le donne, interiorizzando l’idea di essere per l’altro un oggetto, finiscano per essere le prime a considerarsi come tali.

Gli effetti cognitivi, emotivi, comportamentali, fisici e fisiologici dell’auto-oggettivazione sono tuttavia molteplici e non sempre positivi. Alcuni di essi hanno uno stretto legame con forme di disagio mentale, soprattutto nelle donne, che tendono a subire più conseguenze negative:

  • Dal punto di vista cognitivo, una ricerca ha mostrato che, quando le donne indossano un costume da bagno e si guardano allo specchio, in una conseguente prova di matematica danno risultati peggiori rispetto agli uomini, poiché influenzate dall’esperienza oggettivante;
  • Dal punto di vista emotivo e comportamentale, lo studio di cui sopra ha rivelato che provare un costume da bagno può produrre sentimenti di vergogna che portano le donne a mangiare con più moderazione;
  • Dal punto di vista fisico, l’auto-oggettivazione porterebbe le donne a prendere le distanze dal proprio corpo, causando un peggioramento delle prestazioni motorie e difficoltà a riconoscere i propri stati corporei;
  • Dal punto di vista fisiologico, una ricerca avrebbe dimostrato che le donne che tendono ad auto-oggettivarsi avrebbero maggiori difficoltà a riconoscere la propria temperatura corporea: più una donna è concentrata sul proprio aspetto, minore è la connessione tra la quantità di vestiti che indossa e il freddo che sente.

In generale, in alcune donne l’auto-oggettivazione, diventando il modo predefinito di pensare a se stesse nel mondo, sarebbe associata a conseguenze negative sulla salute mentale, come sintomi di alimentazione disordinata, ansia, depressione e dismorfismo corporeo.

Nascondere il video personale per smettere di auto-oggettivarsi

Alcuni ricercatori hanno dimostrato che essere vicino a uno specchio, scattare una foto a se stessi e sentire che il proprio aspetto viene valutato da altri aumenta la tendenza all’auto-oggettivazione e, a ben pensare, quando entriamo in una chiamata Zoom possiamo essenzialmente fare tutte queste cose contemporaneamente.

 Visto che, nel bene e nel male, le chiamate Zoom continueranno ad essere degli strumenti utili nel mondo del lavoro, un modo per ridurre gli effetti negativi delle riunioni online sulla salute mentale potrebbe essere quello di utilizzare la funzione “Nascondi vista personale”, nascondendo così la propria immagine a sé, ma non agli altri. Si tratta tuttavia di una soluzione ancora dibattuta e poco convincente del tutto. Secondo alcuni studiosi disattivare la vista di sé può aiutare le persone più inclini all’auto-oggettivazione a controllare meno la propria immagine, mentre secondo altri tale soluzione potrebbe far sentire quelle stesse persone in una posizione di maggiore svantaggio. Questi ultimi sarebbero dell’idea che essere consapevoli del proprio aspetto dia più benefici che problemi: una grande mole di letteratura mostra che apparire attraenti ha degli innegabili rinforzi sociali ed economici tangibili (per le donne più che per gli uomini) e, sulla base di questo, monitorare il proprio aspetto consentirebbe di anticipare come si potrà essere valutati dagli altri, aiutando a regolarsi di conseguenza.

Per queste ragioni, in futuro non sarà così improbabile continuare a vedere le persone con la fotocamera accesa per tutta la durata delle loro chiamate Zoom. Consapevoli dei rischi dell’auto-oggettivazione e del loro impatto specifico sulla popolazione femminile, però, è importante essere a conoscenza del fatto che qualsiasi piccola tregua dal fissare la propria immagine sullo schermo può essere davvero un grande beneficio per il proprio benessere mentale.

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