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La genitorialità incarcerata

La genitorialità in carcere è spesso privata del diritto all’affettività, ma alcuni cambiamenti hanno aperto a una visione diversa e di maggior tutela

Di Alessandra Mosca

Pubblicato il 02 Mar. 2020

La vita prima del carcere diviene un ricordo lontano e la vita dentro la prigione diviene la nuova realtà con cui fare i conti. Questo cambiamento non è lineare, soprattutto se si è genitori.

 

Il penitenziario deve rispettare i diritti inviolabili dell’uomo, nonostante rimanga una struttura detentiva. Il secondo articolo della nostra Costituzione, infatti, sancisce che ‘La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale’. Tra questi diritti inviolabili dell’uomo ritroviamo sicuramente il diritto all’affettività e alla sessualità (Della Bella, n.d).

Tra le varie modalità per attuare questi principi, i detenuti hanno a disposizione i colloqui e la possibilità di mantenere una corrispondenza telegrafica ed epistolare, come sancito dagli articoli, rispettivamente, 37 e 38 della legge 230/2000.

Il diritto all’affettività inevitabilmente comporta anche il diritto alla genitorialità: poter mantenere legami con i propri figli rimane un diritto imprescindibile dell’essere umano. In Italia ci sono 27.355 detenuti che hanno uno o più figli e che si vedono costretti a cercare di mantenere il ruolo paterno o materno dal luogo detentivo (Associazione Antigone, 2019).

Quanto detto ci permette di comprendere quanto debba essere difficile essere un genitore in carcere, vedere i propri figli poche volte a mese, in spazi angusti e freddi, che limitano l’interazione e non aiutano la vicinanza emotiva.

Gli spazi del carcere risultano anaffettivi, impermeabili agli affetti e all’emotività, che sembra essere cancellata. La detenzione, però, si pone come obiettivo anche quello della ri-educazione, che non può svilupparsi senza esplorare anche queste parti del sé, legate ai sentimenti e agli affetti (Augelli, 2012).

La genitorialità in carcere si vede spesso privata del diritto all’affettività, in quanto l’istituto penitenziario attua un meccanismo di spoliazione che priva i detenuti, non solo dei loro effetti personali, ma anche dei loro affetti. La distanza dal mondo esterno, la chiusura in un sub-universo carcerario con regole proprie, orari definiti, tempi vuoti, condivisione totale con gli altri internati, portano a una lenta alienazione dell’individuo che lentamente perde anche la propria identità affettiva, necessaria e fondamentale per il reinserimento nella società (Iori, 2014).

Per il figlio, il genitore rappresenta una figura di riferimento e di attaccamento, una fonte di supporto non solo materiale ma anche affettiva. Risulta chiaro come sia estremamente complesso continuare a porsi come una figura di riferimento, anche a causa dello stigma che si va ad imporre sulla figura del detenuto.

Il genitore imprigionato va verso una doppia perdita, una legata alla propria libertà individuale e una legata alla quotidianità del rapporto con il figlio. L’incontro tra i due avviene, come già stato detto, in luoghi lontani dalla familiarità della propria casa, in ambienti che possono spaventare e distanziare piuttosto che riavvicinare (Margara, Pistacchi e Santoni, 2005).

I colloqui, unico momento di riunione familiare, diventano un momento focale per il detenuto, che può cercare di ricucire rapporti bruscamente interrotti e rompere silenzi imposti. Le stanze per i colloqui, in quest’ottica, non favoriscono la riparazione, essendo spazi chiusi, piccoli, sovraffollati, rumorosi e costantemente sorvegliati.

Oltre alla componente fisica delle stanze per i colloqui, bisogna sottolineare un’ulteriore difficoltà che si pone ai genitori: la frammentarietà e discontinuità dei contatti con i propri figli e familiari. Questo porta alla costante interruzione della narrazione che si sviluppa sia tra il genitore e il figlio, sia dentro il sé del detenuto. Le complesse pratiche burocratiche necessarie alle visite e la mancanza di tempi prolungati per gli incontri, fanno sì che si creino lunghi momenti di vuoto e di silenzio. La burocrazia per la richiesta del colloquio, perfettamente inserita nella macchinosità degli istituti penitenziari, spesso rischia di snaturare l’incontro, togliendo qualsiasi forma di naturalezza e spontaneità (Augelli, 2012).

La reclusione porta con sé una grande trasformazione nella percezione del sé che l’individuo ha precedentemente creato. La vita prima del carcere diviene un ricordo lontano e la vita dentro la prigione diviene la nuova realtà con cui fare i conti. Questo cambiamento non è lineare, soprattutto se si è genitore. I genitori detenuti, improvvisamente allontanati dai propri figli, si vedono appesantiti da sentimenti di impotenza, inadeguatezza e senso di colpa (Musi, 2012), derivati anche dall’etichetta sociale loro attribuita, che mina profondamente il sentimento di efficacia e di legittimazione del soggetto. L’incarcerazione altera la natura bidirezionale del rapporto, in quanto viene meno la continuità e la costante e reciproca comunicazione (Cassibba, Lunchinovich, Montatore e Godelli, 2008).

Essendo la popolazione maschile detenuta estremamente superiore a quella femminile, ritroviamo molti più casi di paternità in carcere.

I padri detenuti modificano il proprio ruolo, andando spesso ad assumere una tendenza al dispotismo. Questa funzione autoritaria nei confronti dei figli nasce come una strategia compensatoria rispetto ad una grande fragilità. I padri cercano di avere un maggiore controllo sulla vita dei propri figli per ottenere rispetto e considerazione, e quindi per auto-legittimarsi ad essere padri. Anche la percezione dell’affetto cambia; infatti, l’accondiscendenza e l’obbedienza dei figli diviene sinonimo di affetto e vicinanza, come spiega Bouregba (citato in Cassibba et al, 2008). I padri inoltre tendono ad una forte idealizzazione del rapporto con i propri figli, che viene visto come estremamente positivo, quasi ad annullare il riconoscimento di una dimensione conflittuale e di difficoltà. La forte idealizzazione porta anche a una distorsione dell’immagine del figlio, che non si sente riconosciuto dal proprio padre.

Alla luce di quanto detto si nota come questi rapporti, che dovrebbero essere forti e stabili, siano in realtà fragili e deboli. Non sono soltanto i genitori a doversi confrontare con nuovi sentimenti ma anche i figli vengono appesantiti da sentimenti quali la rabbia, la delusione e la nostalgia (Musi, 2012). L’incarcerazione relega fisicamente l’individuo e lo sottopone ad un distacco emotivo forzato, a pesanti silenzi e a forti nostalgie.

Il carcere, però, non è più un luogo di mero contenimento ma è diventato uno spazio di ri-educazione del reo. In quest’ottica non si può prescindere dall’educazione all’affettività che permette di andare incontro ad un processo di umanizzazione, portando l’individuo a riappropriarsi della propria identità e della propria umanità. L’educazione all’emotività si inserisce nel più ampio progetto del carcere alla ri-educazione (Augelli, 2012). Questa nuova visione della genitorialità in carcere e della finalità degli stessi istituti penitenziari, ha portato il 21 marzo 2014, alla stesura della Carta dei figli dei genitori detenuti, protocollo d’intesa siglato tra il Ministero della Giustizia, l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza e la Onlus Bambinisenzasbarre (Tomaselli, 2014). Questo documento ha ufficializzato i diritti dei figli dei detenuti, che fino a quel momento non erano tutelati formalmente. Questo Protocollo rappresenta un importante cambiamento della percezione del rapporto con i figli; si inizia a dare sempre più importanza al diritto che hanno i figli nella relazione. Inizia ad esserci un tentativo sempre maggiore di umanizzazione delle carceri; infatti, nonostante il Protocollo sia in difesa dei diritti dei bambini, cercando di tutelare i loro diritti, si va anche a rispettare il diritto alla genitorialità in carcere e il diritto agli affetti e all’emotività dei detenuti.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Associazione Antigone, (2019). Il carcere secondo la costituzione: XV Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione. Disponibile qui.
  • Augelli, A. (2012). Il diritto agli affetti in carcere: creare spazi di incontro e di narrazione. Minorigiustizia, 3, 204-211.
  • Cassibba, R., Lunchinovich, L., Montatore, J., e Godelli, S. (2008). La genitorialità “reclusa”: riflessioni sui vissuti dei genitori detenuti. Minorigiustizia, 4, 150-158.
  • Della Bella, A. (n.d). Riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute: uno sguardo all’esperienza francese. Disponibile qui.
  • Iori, V. (2014). La genitorialità in carcere. Minorigiustizia, 3, 76-83
  • Margara, A., Pistacchi, P. e Santoni, S. (2005). Nuove prospettive nella teoria dell’attaccamento e tutela del rapporto genitoriale quando un genitore è detenuto. Minorigiustizia, 1, 83-112.
  • Musi, E. (2012). Legami che liberano: quando la relazione tra genitori in carcere e figli è occasione di crescita e libertà? Minorigiustizia, 3, 195-203.
  • Ministero della giustizia, Legge 30 giugno 2000, n. 230, “Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà”. Disponibile qui.
  • Tomaselli, E. (2014). La Carta dei figli dei genitori detenuti. Minorigiustizia, 3, 175-183.
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