Questo articolo inaugura una serie di contributi dedicati all’integrazione tra psichiatria e
psicoterapia, un tema oggi ineludibile per chiunque si occupi di salute mentale in chiave
contemporanea. Il punto di partenza è una ricerca quali-quantitativa condotta tra accademia e clinica, che ha indagato — attraverso interviste a opinion leader, focus group con specializzandi e analisi di esiti formativi — l’impatto di un percorso strutturato in psicoterapia cognitivo- comportamentale (CBT) svolto in parallelo alla Scuola di Specializzazione in Psichiatria.
L’indagine si propone di contribuire al dibattito su una formazione medica capace di integrare, sin dalle sue fondamenta, la dimensione farmacologica con quella psicoterapica, superando le dicotomie storiche tra approcci e costruendo un modello clinico più complesso, consapevole e orientato alla persona.
Nei prossimi appuntamenti esploreremo criticità, prospettive e buone pratiche emerse da questa ricerca, aprendo il campo a un confronto costruttivo tra istituzioni formative, contesti ospedalieri e protagonisti della formazione psichiatrica del futuro.
Introduzione alla Ricerca
La ricerca condotta tra ottobre 2024 e Luglio 2025 ha esplorato — attraverso una metodologia integrata quali-quantitativa — le potenzialità e gli impatti di un affiancamento sistematico tra il percorso di specializzazione medica e la formazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT).
La prima fase qualitativa ha previsto un ciclo di interviste approfondite con opinion leader del mondo accademico, selezionati in virtù di uno sguardo privilegiato sul sistema formativo e clinico.
Tra questi:
- Prof. Paolo Brambilla, Direttore della Scuola di Specializzazione in Psichiatria dell’Università di Milano;
- Prof. Giovanni Biggio, Università di Cagliari, Past Presidente della Società Italiana di Farmacologia (SIF);
- Prof. Bernardo Dell’Osso, Direttore Psichiatria 2 presso l’Ospedale Luigi Sacco – Polo Universitario;
- Prof. Andrea Fagiolini, Direttore della UOC Psichiatria e Segretario della Società Italiana di Psicopatologia;
- Prof.ssa Silvana Galderisi, Ordinaria di Psichiatria presso l’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” di Napoli.
Parallelamente, sono stati condotti sei focus group, ciascuno composto da 6-8 specializzandi in psichiatria provenienti da diverse sedi universitarie italiane. Questa fase ha permesso di esplorare, in chiave dialogica e generativa, percezioni, vissuti, aspettative e criticità che gli specializzandi associano al tema dell’integrazione tra farmacoterapia e psicoterapia nella loro formazione clinica.
Infine, la fase quantitativa ha previsto l’impiego di un’intervista semi-strutturata somministrata a un campione di specializzandi che avevano già completato un percorso in psicoterapia CBT in parallelo alla loro specializzazione medica. L’obiettivo: valutare l’efficacia percepita, l’impatto sulla pratica clinica e il potenziale trasformativo del doppio binario formativo, in termini di consapevolezza terapeutica e capacità integrativa dei modelli di cura.
Questa architettura metodologica ha consentito una lettura sistemica e articolata di un nodo formativo oggi imprescindibile, ponendo le basi per una riflessione informata e strategica sull’evoluzione del training in psichiatria che ci proponiamo di condividere attraverso una lente capace di mettere a fuoco le diverse tematiche esplorate.
Formare lo psichiatra di domani: verso un curriculum integrato tra neuroscienze, farmacoterapia e psicoterapia
In un contesto sociale sempre più segnato da quadri clinici complessi, dalla richiesta crescente di interventi per la salute mentale e da una trasformazione profonda dell’identità stessa della psichiatria, la formazione dello psichiatra assume oggi un ruolo strategico.
Quali competenze servono davvero a un giovane psichiatra? Come si costruisce un curriculum che risponda in modo efficace, scientificamente fondato e clinicamente utile a questa domanda? Studi Cognitivi ha promosso una ricerca qualitativa e quantitativa intervistando direttori di scuole di specializzazione in Psichiatria, accademici e esperti con una profonda conoscenza del tema. Le interviste qualitative restituiscono una riflessione articolata, che merita di essere sistematizzata e rilanciata nel dibattito pubblico. Una riflessione che trova pieno riscontro nella letteratura internazionale (Gabbard, 2014; WHO, 2022).
Un’identità in tensione: malattia o mente?
La psichiatria si muove all’incrocio tra medicina e scienze umane. Per alcuni direttori, essa è innanzitutto una disciplina medica, che deve garantire una formazione solida in medicina interna, farmacologia, neurologia e psichiatria clinica. Come afferma un intervistato, “La psichiatria è una branca della medicina, ma è una medicina diversa. La relazione non è solo uno strumento, è parte del processo diagnostico e terapeutico”.
Per altri, la psichiatria è anche e soprattutto scienza della mente: l’attenzione alla soggettività, al contesto relazionale e alla dimensione narrativa della sofferenza sono elementi imprescindibili. Studi accademici (Bracken et al., 2012; Slade, 2009) suggeriscono che una formazione efficace debba integrare saperi medici e umanistici, promuovendo una reale comprensione della sofferenza soggettiva.
Competenze chiave: verso un nuovo sillabus
Dalle interviste emerge un profilo professionale articolato. Lo psichiatra del futuro dovrà possedere:
- competenze in medicina generale, neurologia e farmacologia;
- capacità diagnostiche raffinate, comprensive di una lettura psicopatologica e
contestuale dei sintomi; - competenze psicoterapeutiche di base, con la possibilità di orientarsi in modelli
evidence-based - capacità relazionali, comunicative e collaborative, soprattutto nel lavoro in équipe
interdisciplinare; - strumenti per affrontare casi complessi, resistenti alla sola farmacoterapia.
Come dichiara un direttore, “Lo psichiatra non può limitarsi a somministrare farmaci. Deve saper ascoltare, interpretare, costruire una relazione. La psicoterapia non è un lusso, è una necessità clinica”.
O ancora: “Le competenze chiave dello specializzando in psichiatria comprendono l’acquisizione solida e approfondita di conoscenze teoriche (nosografia, clinica, farmacologia, psicoterapia, linee guida) e lo sviluppo di competenze assistenziali attraverso la pratica nei servizi. Fondamentale è l’interazione con tutor diversi, pazienti con quadri eterogenei e il lavoro in équipe multidisciplinari”.
Psicoterapia: ruolo, ostacoli e opportunità
Nonostante il DM 68/2015 abbia sancito l’obbligo di includere nella specializzazione un percorso formativo in psicoterapia (60 CFU tra teoria e pratica), la sua attuazione è ancora frammentaria. Alcune scuole hanno strutturato moduli teorici e tirocini supervisionati con 5- 10 casi, altre faticano a garantire una formazione sistematica.
Un direttore osserva: “Cerchiamo di garantire almeno cinque pazienti seguiti in psicoterapia sotto supervisione, ma dipende molto dalla rete formativa e dalla disponibilità dei tutor”. Un altro aggiunge: “Servirebbe una maggiore uniformità nazionale, per assicurare pari opportunità formative”. La letteratura scientifica conferma la necessità di supervisione regolare, criteri di valutazione condivisi e una maggiore sistematizzazione (Biondi et al., 2021; EPA, 2017).
Le voci dei direttori: tra esigenze cliniche e organizzazione dei servizi
Nelle interviste raccolte, i direttori delle scuole sottolineano come i mutamenti epidemiologici e clinici degli ultimi anni abbiano reso sempre più urgente integrare la psicoterapia all’interno dei servizi di salute mentale, anche come risposta all’emergere di quadri che non rispondono adeguatamente al solo trattamento farmacologico.
“Con l’emergere della nuova tipologia di pazienti gravi – giovani, multimpulsivi,
autolesionisti, utilizzatori di sostanze senza stabile compromissione dell’esame di realtà – ci si scontra maggiormente con i limiti di efficacia delle terapie farmacologiche e si rende necessario sempre più integrare la psicoterapia nei servizi e farlo ricorrendo a modelli di comprovata efficacia e di applicabilità (lunghezza del percorso, approccio a focus, ecc.).”
Altri sottolineano come per alcuni quadri – in particolare il disturbo grave di personalità (DGP) – l’intervento psicoterapeutico sia non solo raccomandato, ma spesso il trattamento di elezione: “Il trattamento farmacologico non costituisce il trattamento di elezione per il DGP, in assenza di diagnosi di Asse I. Negli ultimi vent’anni si è assistito a una progressiva sistematizzazione teorica di modelli specifici di intervento psicoterapico ad orientamento prevalentemente cognitivo-comportamentale.”
Tuttavia, la vera criticità – secondo più di un intervistato – non è di tipo teorico, bensì organizzativo: “Il problema principale attiene all’organizzazione dei servizi e alla ancora scarsa diffusione di modelli riconosciuti come validi e scelti come linee guida di indirizzo, che consentano assunzioni mirate o invio a formazioni specifiche dei lavoratori del SSN.”
Una delle esperienze più strutturate è quella promossa dalla Regione Emilia Romagna, dove la Consulta Regionale Salute Mentale ha approvato, dopo un ampio confronto, un documento tecnico che recepisce e adatta le linee guida NICE al contesto locale: “La Consulta ha approvato le Linee di Indirizzo per il Trattamento dei Disturbi Gravi di Personalità, che si ispirano alle linee guida NICE declinandole ed adattandole alla realtà del nostro sistema sanitario regionale.”
Il valore della supervisione e della valutazione
La valutazione delle competenze psicoterapeutiche rappresenta un punto debole. Se alcuni istituti prevedono la discussione di casi clinici e supervisioni regolari, mancano criteri standardizzati. “Non ci accontentiamo più della sola teoria: chiediamo una riflessione critica sui casi seguiti, sulle scelte fatte, sugli errori. Solo così si cresce davvero”, afferma un direttore. Ma altri ammettono che “l’osservazione diretta o l’uso di video sono ancora eccezioni”. Questo è in linea con quanto segnalato da Milne (2009) e Roth & Pilling (2008): la supervisione è un predittore di efficacia formativa, ma spesso assente o scarsamente strutturata.
L’interdisciplinarietà come risorsa formativa
La collaborazione tra figure professionali diverse viene riconosciuta come un punto chiave, ma non ancora sistematizzato. “Lo psichiatra lavora sempre più in team. Ma non insegniamo abbastanza come si sta in équipe, come si lavora con psicologi, assistenti sociali, educatori. Anche questo dovrebbe far parte del curriculum”. Le raccomandazioni internazionali (Frenk et al., 2010; Royal College, 2020) insistono sulla necessità di formare competenze collaborative attraverso moduli e tirocini interdisciplinari.
Farmaco e parola: un equilibrio da formare
Un punto spesso trascurato riguarda il bilanciamento tra farmacoterapia e psicoterapia. Gli specializzandi rischiano di vederli come alternativi, quando invece vanno integrati. Come afferma un intervistato, “I farmaci non motivano il cervello, lo predispongono. La psicoterapia è ciò che trasforma il potenziale in cambiamento”. La combinazione dei due approcci è sostenuta anche da Cuijpers et al. (2020) e fondata sul modello biopsicosociale di Engel (1977).
La formazione dello psichiatra in Italia si trova in un passaggio delicato. Da un lato, l’evoluzione scientifica e normativa spinge verso un profilo professionale più integrato, capace di navigare tra neuroscienze, clinica e relazione terapeutica. Dall’altro, persistono ostacoli organizzativi, risorse insufficienti, assenza di standard comuni.
Le interviste ci restituiscono una comunità di formatori attenta, consapevole, pronta al cambiamento. Ma anche sola, spesso senza strumenti, standard, supporti adeguati.
Serve una strategia nazionale condivisa, che definisca un nucleo essenziale di competenze, garantisca la qualità della formazione in psicoterapia, valorizzi l’interdisciplinarietà e introduca strumenti di valutazione attendibili.
In questo scenario, modelli come la CBT possono offrire una piattaforma utile per coniugare rigore scientifico, applicabilità clinica e formazione misurabile. Ma la vera sfida è politica, organizzativa, culturale: riconoscere che la formazione psichiatrica non può più essere pensata solo come trasmissione di contenuti, ma come costruzione di un’dentità clinica capace di tenere insieme cura, scienza, relazione.
Per concludere abbiamo chiesto a Filippo Turchi – psichiatra e psicoterapeuta e Responsabile della sede della scuola di specializzazione in Psicoterapia di Firenze di commentare queste voci ed ecco la sua riflessione:
Stiamo assistendo ad un aumento della domanda di trattamenti per disturbi psicologici,
che risultano sempre più spesso quadri complessi e che devono essere seguiti nel tempo.
In parallelo, vediamo un aumento della disabilità ad essi correlata. Inoltre, si sta allargando la forbice dell’età per cui si necessita di trattamenti andando dall’infanzia precoce all’età geriatrica avanzata. In questo contesto sembra importante, nella formazione di uno psichiatra avere: da una parte, competenze articolate per riuscire a capire la complessità e le interazioni fra aspetti medici, umani, psicologici e di contesto sociale; dall’altra, conoscenze specifiche per poter intervenire in modo sempre più preciso e personalizzato sui casi. Questa osservazione legittima l’auspicio di saper integrare competenze di medicina, competenze di indagine psicopatologica, avere almeno un modello di concettualizzazione della mente, capacità relazionali per il lavoro di équipe e comunicative, una formazione umanistica e competenze farmacologiche e neuroscientifiche per i trattamenti. Sicuramente rappresenta una sfida formativa importante, ma considerando l’impatto di questi disturbi sembra sempre più necessaria. Da un punto di vista psicologico, avere un modello (o più) di teoria della mente sembra essenziale per poter costruire una concettualizzazione del caso che va aldilà della valutazione diagnostica, necessaria per dare una terapia farmacologica. Allo stato attuale i criteri per fare la diagnosi rimangono criteri clinici, e quindi psicopatologici, tuttavia una concettualizzazione psicologica del caso consente una narrazione del disturbo molto più comprensibile per il paziente e di fare ipotesi di funzionamento più a lungo termine.
Ad oggi, è questo sembra un dato consolidato tenendo conto degli aggiornamenti delle linee guida nel tempo, la terapia cognitivo comportamentale risulta la più diffusa e la più efficace su diversi tipi di disturbo. Di fatto potrebbe costituire una base teorica e pratica su cui costruire nel tempo (quindi anche dopo la scuola di specializzazione) approfondimenti specifici per i vari disturbi, tenendo conto dell’evoluzione delle terapie di terza ondata che si stanno misurando con l’efficacia clinica. Dovendo immaginare una formazione, ovviamente questa dovrebbe avere una parte teorica in cui presentare una teoria della mente, una teoria della sofferenza e dello scompenso, e una spiegazione del tipo di intervento sui sintomi, ma anche sugli aspetti personologici; a questa dovrebbe essere affiancata una parte esperienziale di affidamento di casi clinici diversi per tipo di disturbo in psicoterapia, seguiti sia attraverso supervisioni personali che discussione clinica dei casi in presenza di figure disciplinari diverse, per integrare la prospettiva psichiatrica, medica, psicologica, sociale e familiare.
Servirebbe una maggiore attenzione nei confronti nei disturbi mentali, un importante investimento di risorse che risultano sempre molto limitate e una necessaria riorganizzazione dei servizi. Immaginando un percorso fatto di step di crescita formativa e organizzativa penso che il primo gradino sia quello di rendere sistematica e presente in tutte le scuole di specializzazione la formazione in psicoterapia. Da questo punto di vista la terapia cognitivo comportamentale ha vantaggi dovuti alla sua diffusione, alla sua fruibilità e alla sua facile integrabilità con la clinica, oltre che del suo indiscusso vantaggio in termini di efficacia clinica.
Integrazione tra psichiatria e psicoterapia: un evento per informarsi
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