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Le rappresentazioni mentali 

Le rappresentazioni mentali non sono una riproduzione fotografica della realtà, ma il risultato dell'elaborazione dei dati in base alla storia personale

Di Roberto Cicinelli

Pubblicato il 08 Giu. 2023

Aggiornato il 16 Giu. 2023 14:50

La teoria rappresentazionale della mente postula l’esistenza delle rappresentazioni mentali che agiscono da costruzioni intermedie tra il soggetto che osserva e gli oggetti ed i processi osservati o esperiti nel mondo esterno.

 

Era una bella mattina di fine novembre. Nella notte aveva nevicato un poco, ma il terreno era coperto di un velo fresco non più alto di tre dita. Al buio, subito dopo laudi, avevamo ascoltato la messa in un villaggio a valle. Poi ci eravamo messi in viaggio verso le montagne, allo spuntar del sole. 

Come ci inerpicavamo per il sentiero scosceso che si snodava intorno al monte, vidi l’Abbazia. Non mi stupirono di essa le mura che la cingevano da ogni lato, simili ad altre che vidi in tutto il mondo cristiano, ma la mole di quello che poi appresi essere  l’Edificio.

La lettura di questo brano ci evoca immediatamente una visione, una rappresentazione cioè di quella che dovrebbe essere la realtà; attenzione però, non di quella che è realmente in senso oggettivo, né tantomeno di quella che vuole comunicarci l’autore, ma dell’immagine rappresentativa che ognuno di noi riesce a costruire mediante le proprie sottorappresentazioni su cosa sia una bella mattina di fine novembre o su come sia un terreno scosceso che si snoda intorno al monte.

Il concetto proposto è che noi non abbiamo un accesso diretto alla realtà, agli eventi del mondo esterno, ma il nostro è un approccio mediato dalla necessità di rappresentare tutti i dati sensoriali in una configurazione che è determinata  indissolubilmente dalle nostre conoscenze, aspettative, convinzioni e desideri.

Proviamo con un altro brano:

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, viene quasi a un tratto, a restringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un  promontorio a destra e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’ Adda ricomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e nuovi seni.

Molto probabilmente la maggior parte di noi avrà avvertito una maggiore fatica a rappresentare quanto letto e la rappresentazione stessa ci è apparsa un poco più sfocata rispetto alla precedente; questo perché la capacità rappresentazionale è stata resa difficoltosa dalla decodifica e dal recupero delle sotto rappresentazioni necessarie in ragione di un linguaggio desueto che non ha evocato immediatamente l’associazione simbolica, la quale invece è dovuta essere prima interpretata e quindi associata ad una immagine o un significato a noi conosciuti.

La teoria rappresentazionale della mente postula l’esistenza delle rappresentazioni mentali che agiscono da costruzioni intermedie tra il soggetto che osserva e gli oggetti ed i processi osservati o esperiti nel mondo esterno. Sono questi costruzioni intermedie che rappresentano alla mente gli oggetti reali. Ne consegue che il nostro approccio alla realtà è un approccio necessariamente mediato, condizionato dalle nostre predisposizioni biologiche, fisiologiche e psicologiche che definiscono e  selezionano gli stimoli da elaborare.

Come avviene la percezione dei dati sensoriali

Il cervello, attraverso i canali sensoriali acquisisce le informazioni dall’ambiente che tende poi a raggruppare in unità correlate che generano le immagini che sono successivamente richiamate in qualunque momento per orientare il comportamento e le decisioni.

Si comprende come la rappresentazione non risulti essere una riproduzione fotografica della realtà, ma è piuttosto il risultato ottenuto dalla elaborazione che i dati percettivi subiscono in ragione della personale storia dell’individuo e del soggettivo schema cognitivo utilizzato, divenendo un inevitabile interfaccia al quale la persona deve ricorrere per accedere alla realtà che rimane inaccessibile alla analisi diretta.

La rappresentazione quindi si interpone come metafora della realtà delimitando uno schema, una struttura, che ha alcune caratteristiche derivate dai dati sensoriali ed altre determinate dal processo di elaborazione attuato che ne definisce i significati  presentandosi “come se” fosse la realtà.

L’insieme dei modelli mentali che l’individuo utilizzerà per relazionarsi con l’ambiente, saranno quindi il prodotto della definizione delle rappresentazioni utilizzate e degli schemi di significato ad esse attribuiti, che a loro volta concorreranno a selezionare i dati sensoriali utilizzati per aggiornare le rappresentazioni, in uno schema circolare ricorrente.

Per assecondare il necessario principio di coerenza interna avviene quindi che le informazioni ritenute più significative vengano estrapolate dal contesto ed integrate con quelle preesistenti operando di fatto una manipolazione più o meno significativa delle informazioni stesse che non vengono mantenute nella loro forma integrale, ma in una loro versione “interpretata”, integrabile con i dati già presenti nel sistema elaborativo; un processo di assimilazione, descritto egregiamente da Piaget, che però non viene affatto abbandonato nei successivi stadi dello sviluppo cognitivo, ma al contrario rafforza nel tempo la propria autoreferenzialità.

L’esperienza del mondo esterno è dunque ineluttabilmente mediata dallo specifico funzionamento dei nostri organi di senso, dai canali neurali utilizzati dal nostro sistema nervoso e dall’insieme degli schemi conoscitivi e valoriali utilizzati dal singolo individuo. In questa misura, gli oggetti stressi sono creazioni soggettive e la percezione che abbiamo di essi è permeata dalle nostre personali convinzioni e credenze.

La rappresentazione mentale è dunque una immagine, una icona, un disegno, una rete di relazioni, che sta al posto dell’oggetto reale o dell’evento accaduto; il punto significativo è proprio questo, al posto di, ma non è l’oggetto o l’evento.

Prendiamo ad esempio la città nella quale viviamo e domandiamoci se l’abbiamo mai vista, la risposta immediata sarà: certamente! Ma se riflettiamo più attentamente ci renderemo conto che realisticamente non è vero e che di fatto è impossibile per ognuno di noi “vedere” nella sua interezza la città nella quale viviamo magari da decine di anni; infatti quello che noi abbiamo potuto percepire sono solo alcuni tratti, alcuni luoghi, limitati e circoscritti la cui dimensione dipende dalle nostre capacità percettive; abbiamo quindi assemblato questi specifici luoghi in una mappa mentale che rappresenta concettualmente la nostra città ma non la riproduce fedelmente. La nostra riproduzione non sarebbe fedele neanche se sorvolassimo la città vedendola dall’alto perché l’immagine risultante sarebbe bidimensionale e quindi di nuovo non rispondente alla realtà che è tridimensionale.

Dobbiamo al filosofo Alfred Korzybski la formulazione della distinzione intercorrente tra la realtà oggettiva esterna a noi e i modelli che costruiamo per rappresentarcela ed egli ha individuato nel linguaggio la forma strutturale di “mappa” o, per dirla meglio, di rappresentazione simbolica, che ci ha consentito di utilizzare modelli sempre più definiti per raffigurarci la nostra idea del mondo.

Rappresentazioni e realtà

Ma perché risulta di fatto impossibile creare una rappresentazione che sia uguale alla realtà?

Abbiamo già indicato i limiti biologici imposti alla nostra specie; i nostri organi di senso non sono in grado di percepire tutti i dati presenti in natura, molte cose non le vediamo, come i raggi ultravioletti o i microbi, altri ancora non li sentiamo, come gli ultrasuoni e tanti altri, non sono rilevabili dalla nostra attenzione perché avvengono troppo velocemente e sfuggono ai nostri occhi. Esistono poi limiti più significativi che sono quelli psicologici che dipendono dalla specifica configurazione del nostro cervello.

La mente ha la necessità di configurare dei modelli con cui ordinare e comprendere i fenomeni che avvengono nella complessità della vita e per farlo si avvale degli strumenti a sua disposizione. Il primo repertorio disponibile di un individuo è quello motorio e quindi il primo modello con cui le persone si rappresentano il mondo è quello derivante dalle sensazioni motorie; questo elementare ABC di azioni e sensazioni diventa il modo prototipico con cui gli esseri umani iniziano a configurare la loro relazione con il mondo.

Come asserisce Lakoff: “le metafore concettuali fanno parte di un insieme di meccanismi che, partendo da concetti con un diretto fondamento corporeo, si protendono verso concetti più astratti” (Lakoff 1998).

Quindi le nostre sensazioni fisiche diventano parte ineludibile del processo interpretazionale divenendo i pilastri sui quali successivamente andremo a costruire gli schemi più complessi, facendoci abbandonare definitivamente l’aspirazione di diventare esseri completamente razionali, dato che il processo interpretativo non può essere scisso da quello senso-corporeo.

Le immagini mentali nascono per influenzare il comportamento, prevedere il futuro e scegliere le azioni più utili alla nostra sopravvivenza e al nostro benessere; ma il pensiero consapevole è un prodotto recente della nostra evoluzione e ancora oggi la maggior parte del lavoro mentale è basato più sul pensiero analogico che su quello analitico. La modalità di interpretare le nuove esperienze sulla base della loro analogia con quelle passate non può essere completamente sovvertita perché si basa su un processo di associazione iconica che è automatizzato nel nostro cervello arcaico e che non necessita dell’intervento cosciente.

Quindi, se ognuno di noi crea una serie di rappresentazioni del mondo in cui vive ed utilizza necessariamente questi modelli per orientare il proprio comportamento, le rappresentazioni adottate saranno sempre più automatizzate, determinando l’esperienza che avremo del mondo stesso e la variabilità delle scelte ritenute disponibili, senza esserne necessariamente consapevoli.

Ne consegue che ogni rappresentazione risulterà essere influenzata dal modo in cui pensiamo e percepiamo l’ambiente e che questo modello condizionerà la nostra capacità di analisi rilevando i dati congruenti al sistema ed escludendo quelli discordanti; di conseguenza la realtà di ognuno di noi sarà il prodotto di una “costruzione” profondamente soggettiva. Estremizzando leggermente il principio possiamo asserire che esistono tante realtà, tanti modi di vedere il mondo, tanti quanti sono le persone stesse.

Prendiamo ad esempio un gruppo di quattro amici che si reca al cinema, indubbiamente riteniamo che vedranno la stessa sequenza di fotogrammi, sebbene anche questa considerazione sarebbe opinabile, ma accettiamo pure l’ipotesi data, allora perché a qualcuno il film sarà piaciuto moltissimo, a qualcun altro un po’ di  meno ed altri lo potrebbero considerare al contrario un brutto film?

Perché la percezione del film sarà inevitabilmente guidata dalle personali preferenze ed orientamenti dei singoli individui che “vedranno” il film secondo le loro soggettive aspettative: chi apprezzerà la fotografia, chi la sceneggiatura, chi dissentirà dalla  ricostruzione storica o sociale, chi condividerà o meno i messaggi culturali veicolati dalla storia; in sintesi ognuno costruirà una rappresentazione mentale del film utilizzando il proprio personale bagaglio di esperienze, conoscenze e convinzioni, che risulteranno fondamentali nella realizzazione della mappa mentale, che non sarà  quindi corrispondente alla realtà, che come vediamo è letteralmente non percepibile in termini oggettivi, ma piuttosto il risultato di una personalissima elaborazione.

Ovviamente, questo non implica che la realtà percepita da più persone sia sempre e comunque sostanzialmente diversa, esistono situazioni od esperienze che possono essere parzialmente condivise, ma il punto nodale è che non c’è e non potrà mai esserci una realtà perfettamente uguale tra due diversi esseri umani in quanto, essendo distinti organismi biologici, con diversi sistemi nervosi, differenti storie di vita, esperienze, capacità cognitive, desideri, speranze, conoscenze, preferenze ecc. la loro elaborazione rappresentazionale non potrà risultare identica.

Tale principio è stato espresso chiaramente da Korzybsky quando nella legge dell’individualità afferma “che non ci sono due persone, o situazioni o fasi o processi che siano identiche in ogni dettaglio“ (Korzybsky, 1933).

La concezione proposta risulta antitetica a quanto ritenuto vero dalla maggior parte delle persone e si scontra con la tendenza umana a credere che vediamo il mondo intorno a noi in modo oggettivo e condiviso, che esista la realtà, intesa come unica e tangibile.

Realismo ingenuo

Questa corrente di pensiero definita con il nome di realismo ingenuo, riprende quello che in filosofia viene definito realismo del senso comune e si basa su tre principi: che il mondo sia percepibile in modo obiettivo e senza pregiudizi; che quindi tutte le altre persone “vedano” le cose esattamente come le vediamo noi; che qualora questo non accada è perché gli altri sono ignoranti, irrazionali o animati da pregiudizi.

Tali principi sono radicati in molti di noi perché rappresentano il combinato procedurale di due tra le più importanti distorsioni cognitive che influenzano il nostro pensiero, l’effetto del falso consenso che rappresenta la tendenza a proiettare sugli altri il proprio modo di pensare, presupponendo che tutti la pensino come noi, e quello che io definisco il bias dell’egocentrismo cognitivo, che presuppone che quello che penso sia vero per il solo fatto di pensarlo. Tale concezione si basa sull’assunto che io sono quello che penso ritenendo i pensieri non una astratta forma di ipotesi ma come elementi identificativi del mio essere.

Il problema di fondo è che il ragionamento umano si basa sull’impiego automatico di una vasta gamma di modalità elaborative, rapide ed intuitive, definite euristiche, che permettono di costruirci un’idea generica su un argomento o una situazione senza un eccessivo sforzo cognitivo. Le euristiche (dal greco heuriskein: trovare, scoprire) sono strategie veloci, semplici, che hanno il pregio di fornire rapidamente valutazioni e interpretazioni che ci consentono di agire spesso efficacemente.

Ma la loro rapidità ed il loro automatismo esulano necessariamente dall’uso del ragionamento analitico; dovendo soddisfare prioritariamente il criterio della velocità non possono indulgere in analisi troppo sofisticate e si fondano spesso su percezioni o errate o deformate, che rendono questi stili di pensiero rigidi e incapaci di adattarsi al mutare delle circostanze.

Abbiamo già visto come nella definizione delle rappresentazioni mentali concorrano tutte le funzioni mentali superiori, dalla percezione alla scala valoriale, e l’attività svolta dal cervello non si riduce ad una passiva registrazione che riproduce fedelmente un oggetto, un’immagine o un’idea, ma come un processo dinamico legato alle modalità elaborative del singolo soggetto che intervengono attivamente con le loro caratteristiche alla interpretazione ed alla trasformazione delle informazioni che poi concorrono alla costruzione della singola rappresentazione.

Per questo l’espressione “la mappa non è il territorio” che si deve ad Alfred Korzybski si è rilevata cosi potentemente anticipatrice, perché definiva in modo semplice ed efficace la netta distinzione che intercorre tra la realtà e la sua rappresentazione psicologica.

Inoltre l’accettazione della teoria rappresentazionale, oltre a restituirci una corretta interpretazione delle nostre capacità computazionali, ci permette di modificare il nostro approccio alla realtà introducendo un elemento proattivo; se infatti non siamo  dei semplici registratori di dati oggettivi il nostro ruolo si definisce in modo più efficace in quanto possiamo fattivamente operare per migliorare le nostre rappresentazioni implementando le conoscenze, migliorando le definizioni. Questo ci permette di adattarci meglio al continuo mutamento del nostro ambiente.

Diversamente da quanto proposto da Gregory Bateson, che sosteneva come migliorare troppo le rappresentazioni potesse comportare un danno piuttosto che un vantaggio, ritengo, al contrario, che mappe troppo grossolane e indefinite diventino inutili e spesso dannose, perché inadeguate a rappresentare efficacemente la complessità del mondo e quindi inadatte ad orientarci efficacemente in esso. Le nostre rappresentazioni devono necessariamente tenere il passo con la crescente complessità del mondo moderno; la massa di informazioni che siamo chiamati a computare giornalmente è enorme, specialmente se paragonata a quanto era necessario fare solo pochi decenni fa, e risulta in costante crescita esponenziale.

Basti pensare che nel 2010 le informazioni disponibili sul web sono state stimate in 1 Zettabytes (un miliardo di terabyte) una cifra praticamente immensa, ma che oggi a soli 13 anni di distanza la misura di tutti i contenuti digitali del mondo è vicina ai 79  Zb e si prevede che supererà il tetto dei 180 Zb nel 2025.

Risulta intuibile che opporre a questa sconfinata massa di informazioni strumenti che l’evoluzione ci ha fornito per fronteggiare computazioni infinitamente più semplici ci condanna all’impoverimento cognitivo; da qui la necessità di far evolvere le nostre regole elaborative implementando l’utilizzo del pensiero consapevole e finalizzato, sforzandoci di abbandonare il più possibile i meccanismi automatici, in modo tale da poter sviluppare rappresentazioni mentali più articolate e complesse e quindi  maggiormente rispondenti alla necessità di muoversi in un contesto di conoscenza così vasto ed eterogeneo.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bateson, G. (1977) Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi Bateson, G. (1984) Mente e natura, un’unità necessaria, Milano, Adelphi Eco, U. (1980) Il nome della Rosa, Milano, Bompiani
  • Korzybski, A. (1933) Science and Sanity, New York, Institute of General Semantics Lakoff G., Johnson M. ( 1998) Elementi di linguistica cognitiva, Urbino, Quattroventi Manzoni, A. (1982) I promessi sposi, Milano, Bompiani
  • Neisser, U. (1976) Conoscenza e realtà: un esame critico del cognitivismo, Bologna,  Il Mulino
  • Piaget, J. (1968) La nascita dell’intelligenza nel fanciullo, Firenze, Giunti-Barbera
  • Ross L. (1995). Reactive Devaluation in negotiation and conflict resolution, in K. Arrow  R. Mnookin, L.Ross, A.Tversky,R.B. Wilson. New York; WW Norton & Co.
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