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La grande bellezza. La meraviglia dell’imperfezione

Se è vero che "non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace", perché al giorno d'oggi tendiamo ad omologarci a determinati canoni di bellezza?

Di Elena Ritratti

Pubblicato il 11 Ott. 2022

De gustibus non disputandum est, o Non è bello ciò che bello, ma è bello ciò che piace, o ancora La bellezza è negli occhi di chi guarda.. tutte frasi che sicuramente si avrà avuto modo di ascoltare o ripetere più volte, non sempre con la consapevolezza dell’importante intuizione della soggettività della percezione estetica, ossia della possibilità che il bello non sia necessariamente universale, ma che possa variare, a seconda della sensibilità di ognuno.

 

Che cos’è la bellezza?

  Un concetto che sconvolge le menti di tutti proprio per il suo essere sfuggente e inafferrabile.

De gustibus non disputandum est, così esponeva Giulio Cesare, o Non è bello ciò che bello, ma è bello ciò che piace, risuona un famoso proverbio. L’inglese David Hume afferma: La bellezza delle cose esiste nella mente di chi le contempla che è il corrispettivo di La bellezza è negli occhi di chi guarda, tutte frasi che sicuramente si avrà avuto modo di ascoltare o ripetere più volte, non sempre con la consapevolezza dell’importante intuizione della soggettività della percezione estetica, ossia della possibilità che il bello non sia necessariamente universale, ma che possa variare, a seconda della sensibilità e del gusto di ognuno.

Un’intuizione non certo banale, se si considera che nella storia, a partire dagli autori e pensatori più antichi, si poneva tale concetto in una prospettiva assolutamente esterna all’osservatore, cercandone un’ambiziosa oggettività, proprio per la necessità di poterla definire: tutto ciò che non contiene una de-limitazione si perde nel concetto di infinito che può spaventare, che può far sentire l’essere umano troppo piccolo e troppo fragile, che può trascinarlo al di fuori della possibilità di calcolo, di previsione, di esattezza, di verifica empirica che tanto lo rassicura e lo placa.

Ma il termine estetica che significato assume? Etimologicamente deriva dal greco αισθησις, ossia, percezione, sensazione, facoltà di sentire e si riferisce ad un processo altamente complesso che unisce la nostra percezione, come esperienza di elaborazione rispetto alle caratteristiche formali di un oggetto ad una di ordine superiore che ingloba conoscenza, expertise, vissuto emozionale, caratteristiche temperamentali e tratti di personalità. Un’esperienza estetica cattura la nostra attenzione e ci induce a provare emozioni di diverso tipo, non sempre spiegabili. Un’opera d’arte, ad esempio, ci attrae non solo e non sempre per la sua conformazione, ma perché innesca stati d’animo differenti, coinvolgendo totalmente e stimolando il nostro pensiero e la nostra immaginazione.

Il primo a contemplare una visione estetico-matematica del concetto di bellezza fu Pitagora, mettendo in evidenza che l’esistenza di tutte le cose si rispecchia nel loro ordine, ordine che segue le leggi matematiche che ne esaltano la concordanza e, dunque, la bellezza. Platone, riprendendo il pensiero della scuola pitagorica, parte da questa idea di armonia per arrivare a concepire il bello come qualcosa che è direttamente correlato al bene, non appartenente all’arte ma all’eros, ossia all’amore che ha diversi gradi di esistenza, come ben afferma nel Simposio, attraverso le parole della sacerdotessa Diotima, da quello più basso, ossia quello fisico, per passare all’amore per il bene e la giustizia, per le scienze, fino ad arrivare a quell’idea più assoluta e trascendente di bellezza: “Come procedendo per gradini, da un solo corpo bello a due, e da due a tutti i corpi belli, e da tutti i corpi belli alle belle attività umane, e da queste alle belle conoscenze, e dalle conoscenze procedere fino a che non si pervenga a quella conoscenza che è conoscenza di null’altro se non del Bello stesso, e così, giungendo al termine, conoscere ciò che è il bello in sé“. Una visione altamente romantica dell’uomo, attratto da questo desiderio naturale di tutto ciò che è bello, una sorta di magnete che lo riconduce ad un corpo armonico, ad uno sguardo penetrante, ma anche ad un tramonto sul mare, ad un arcobaleno, ad un cielo stellato.

Ma oggi il concetto di bellezza permea ancora significati così elevati? Il bello è sempre ricollegato al giusto, alla moralità, a quella kalokagathia, concezione greca di corrispondenza tra bello e buono?

Il concetto giapponese di Iki

Nella cultura orientale, nello specifico giapponese, si parla di iki che unisce un comportamento etico ad uno estetico. Iki ha significato di spontaneità, naturalezza, intelligenza, seduzione, ma anche di rinuncia a quell’attaccamento morboso alle cose materiali. Iki è anche la forza d’animo di tutti coloro che in maniera dignitosa affrontano l’instabilità della vita terrena, troppo attaccata alla fusione dei corpi (eros) e poco alla seduzione, come apertura verso l’altro, senza necessità di unione. Iki, letteralmente, significa cose degne di particolare attenzione; lo scrittore Shuzo Kuki ne parla nel suo saggio “La struttura dell’iki” che ha l’obiettivo di “cogliere la realtà così com’è e di dare espressione logica a un’esperienza che andrebbe “assaporata””. In occidente non esiste una vera e propria corrispondenza a questo termine, occidente che probabilmente predilige il concetto di armonia delle forme quando tratta di esperienza estetica.

La bellezza come armonia

Ma questa armonia rispetta forse le leggi di proporzione e di simmetria? Attualmente l’asse di equilibrio di questi fattori sembra non corrispondere più ai canoni, con una propensione verso l’esagerazione e l’esasperazione. Si assiste ad un tentativo di snaturare le caratteristiche di un modello ordinario e prototipico che si pensava essere il più attraente, con l’idea che alcune parti del corpo possano ricevere maggiore consenso, se di dimensioni più grandi. C’è in effetti una predilezione per labbra più carnose, occhi più grandi, seni di taglia considerevole, ma non solo. Anche in altri domini estetici, come palazzi, torri e campanili vengono esaltate le dimensioni di altezza, quasi per imporsi nello spazio, attraendo un numero sempre maggiore di persone, in quanto visibili a distanze notevoli; si aggiunga poi il fatto che, rivolgendo lo sguardo verso l’alto, si ha la sensazione che queste strutture siano così notevolmente predominanti da togliere il fiato. Una bellezza mozzafiato che aspetto dovrebbe avere? Forse dei tanto amati Barbie e Ken?

Le donne sembrerebbero avere un giudizio più severo degli uomini sul proprio aspetto: solo fino ai sette anni ci sarebbe una sana accettazione di sé stesse, successivamente, proprio in età prepuberale e adolescenziale, ci sarebbe una tendenza a reputarsi in sovrappeso nel 60% dei soggetti e solo un 20% sarebbe soddisfatto del proprio aspetto. Più l’insoddisfazione è accentuata più tende a peggiorare con il passare del tempo, andando ad incidere fortemente sul senso di autostima e di competenza, causando notevoli problematiche nell’ambito non solo personale, ma anche lavorativo (André e Lelord, 1999). Si aggiungono anche, nella donna, altri periodi critici del ciclo vitale, come durante la gravidanza o nel periodo post partum. Se risulta accentuato nel genere femminile, tuttavia non è completamente assente nel mondo maschile, soprattutto in un’era sempre più propensa a ridurre quei segnali di identità sessuale così accentuati fino a qualche decennio fa, a favore di un fluire di caratteristiche che abbandonino il culto dell’uomo muscoloso e permettano ad ognuno la piena libertà di esprimersi.

Ma allora perché tanta risonanza in modelli di riferimento assolutamente irreali?

I modelli irrealistici

Si parla di Sindrome di Barbie e Ken: sempre più persone si rivolgono ad un chirurgo estetico con l’idea e la richiesta ben precisa di assomigliare a bellezze illusorie che passano dal nostro mondo dell’infanzia, ma che poi vengono sempre più proiettate come modelli di riferimento possibili al cinema o nelle pubblicità. E pensare che in un articolo su Psicologia Contemporanea del 2005 si leggeva che avvalersi della chirurgia estetica poteva essere considerato un fenomeno di falsificazione dell’immagine di sé, una vera e propria frode.

Circa un ventennio dopo la maggior parte dell’opinione pubblica sarebbe ancora concorde con una simile affermazione? Evidentemente le cose sono cambiate, ma in questo campo hanno forse preso una piega sbagliata. Il mito dell’uomo e della donna di successo viene sempre più associato al concetto di bello, ma l’idea di bello ha ormai assunto caratteristiche aleatorie e illusorie. Ci si compara sempre più ad attori e attrici di Hollywood, ci si confronta sempre più a modelli ideali altamente improbabili, a causa anche dell’enorme influenza del mondo mediatico. Influenza, influencer, apparire, apparenza, sono termini che siamo ormai abituati a sentire ogni giorno, martellati da ogni parte, spesso con la grave conseguenza di scatenare ansia, senso di inadeguatezza ed incapacità. Ed ecco che l’unico rimedio a tale sofferenza sembra essere quello di prendere un’immagine del nostro idolo e mostrarla al chirurgo come richiesta di aiuto. Si comincia ad età sempre più impensabili, ragazze e ragazzi non ancora maggiorenni ottengono il consenso dai genitori per prenotare una visita, con la speranza, a volte addirittura con la pretesa, di accontentare le proprie aspettative.

Si vorrebbe essere la fotocopia di qualcun altro, non rendendosi più conto di quanto possa invece essere attraente la nostra unicità, con pregi e difetti che permettono di distaccarci da quel processo patologico di bisogno di omologarsi a modelli che non contengono le nostre caratteristiche genetiche e i nostri vissuti. In effetti l’andamento è proprio quello di assomigliarsi sempre più, nella forma degli occhi, degli zigomi, del volume delle labbra, dei seni, di glutei formosi che rischiano però di deformare quella bellezza che, a mio avviso, rimane autentica nella sua armonia.

In effetti, dalla letteratura presente la bellezza sembrerebbe essere un fattore non compartimentalizzato, ma globale: un viso attraente renderebbe il resto del corpo attraente, soprattutto se presente uno sguardo penetrante. Questo fattore era già noto nell’antichità, vedi per esempio le rappresentazioni egizie, in cui un volto rappresentato di profilo mostrava occhi frontalmente, sicché uno sguardo che fissa direttamente l’interlocutore appare più sicuro e viene percepito maggiormente bello nella sua complessità. Nel 2001 sono stati sottoposti a risonanza magnetica diciotto soggetti, mentre guardavano foto di volti attraenti. I risultati mostravano che nella visione di occhi rivolti verso l’osservatore si registrava un incremento dell’attività cerebrale, in prossimità della zona ventrale del nucleo striato, centro del piacere. Eppure ci si allontana sempre più da questa totalità armonica, per aspirare a dettagli ossessivi di ogni singolo centimetro del viso e del corpo. È possibile solo sentirsi quando ci si sente guardati [..] questa esperienza del corpo si costituisce a partire dal Tu, dalla seconda persona: si tratta del mio corpo “in quanto visto e conosciuto da altri”, così scrive il Prof. Giovanni Stanghellini, a proposito di percezione del proprio Sé. Si vive nella contemporaneità di un’era in cui il corpo che sono si ribalta in un corpo che è esposto alla vista dell’altro, un “pornobody che necessita dello sguardo altrui per prendere coscienza di sé”. E tutto questo sicuramente si ripercuote nella sempre più frequente ossessiva mania del selfie, quindi dell’esposizione di sé stessi in rete per poter essere riconosciuti, ma del riconoscimento finisce che ne rimane ben poco, in quanto ogni autoscatto viene sempre più ritoccato dai filtri. Filtrare, quasi a scremare, cernere, vagliare ogni singola parte del nostro desiderio di apparire, come si fa quando si cerca di far passare un liquido attraverso un filtro per trattenere eventuali particelle solide contenute in sospensione e ricavarne una sostanza depurata.

La chirurgia e la medicina estetica, acconsentendo sempre più a questa propensione al deforme, inteso come processo di snaturalizzazione del nostro essere nel mondo, come interazione di fattori genetici e vissuti, volto ad appagare un’ansia pressante generata da insicurezze e fragilità che porta ad ossessive richieste di intervento e di ritocchi, potrebbe paradossalmente alterare il concetto di bellezza armonica, quella “[La] grande bellezza”, che incornicia un celebre film di Paolo Sorrentino?

Un punto di incontro tra medicina estetica e psicologia

Alla luce di quanto emerso, credo sia necessario un avvicinamento tra medicina estetica e psicologia, con l’intento di trovare il giusto equilibrio per ogni singola persona. Una psicoestetica che permetta un importante lavoro interdisciplinare, con l’intento di rendere complementari bisogno estetico e serenità interiore. Dunque una ricerca e un supporto al volersi vedere bene e al sentirsi a proprio agio, che possa trovare la giusta misura nell’utilizzo di un bisturi o di una iniezione, giusta misura in grado di rispettare la singola persona nel suo essere unico. Per poter ottenere un connubio tra le due discipline, da un lato sarà necessario che il chirurgo estetico sappia valutare consapevolmente le richieste del cliente, per identificare colui che si rivolge alla chirurgia per migliorare un aspetto di sé, percepito come difetto, che evidentemente lo turba e che potrebbe rafforzare la sua autostima nella vita di tutti i giorni, da colui invece che cela dietro ad una richiesta di intervento, le sue più profonde insoddisfazioni, o aspettative irrealistiche, se non addirittura veri e propri disagi psicologici o psichiatrici. Dall’altro sarà necessario avvalersi dell’esperienza e della formazione di uno psicologo, che possa accompagnare il paziente nell’affrontare una decisione importante sull’avvalersi o meno dell’intervento o sul percorso di pre e post operazione, non dando mai per scontato la capacità di abituarsi ad un cambiamento.

Medico e psicologo in una sana collaborazione che tenga sempre presente l’obbiettivo primario di ogni scelta: il benessere psicofisico della persona che si avvale delle loro competenze, nel rispetto non solo deontologico, ma anche e soprattutto umano della sua essenza. Un connubio che esalti la bellezza armonica del singolo, anche a costo, a volte, di dire no.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Christophe A., Francois L. (1999). L’estime de soi. S’aimer pour mieux vivre avec les autres. Odile Jacob: France.
  • Hume D. (2015). Dissertazioni sulla Tragedia e sui criteri del gusto. Trad. IT. Angelo Magliocco. Formato Kindle
  • Stanghellini G. (2020). Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro. Feltrinelli: Milano, pag. 104
  • Costa M., Corazza L. (2006). Psicologia della bellezza. Giunti: Firenze.
  • Sorrentino P., Contarello U. (2013). La Grande bellezza. Skira Editore: Milano
  • Platone (1979), G. Colli (a cura di).  Simposio. Adelphi Edizioni: Milano
  • Kuki S. (1992). La struttura dell’iki. Adelphi Edizioni: Milano
  • Tezuka T., Vittorio L. (a cura di). (2013). Un’ora con Heidegger. Oriente e Occidente. Mimesis: Milano
Sitografia
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