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Report dal Congresso della International Society for the Study of Personality Disorders

Report del congresso dell'ISSPD in cui i principali esperti dei Disturbi di Personalità si sono confrontati su temi centrali nel dibattito internazionale

Di Simone Cheli

Pubblicato il 18 Ott. 2021

Si è appena concluso il congresso della International Society for the Study of Personality Disorders (Società Internazionale per lo studio dei Disturbi di Personalità, ISSPD), organizzato in collaborazione con l’ospedale universitario di Oslo, ma svoltosi interamente online.

 

Nel corso di 3 giorni si sono alternati numerosi relatori affrontando temi centrali nel dibattito internazionale (e italiano) sui disturbi di personalità (DP) e sulla psicoterapia in genere. Particolare attenzione è stata infatti dedicata al rapporto della psicoterapia con l’evidence-based practice e alle prospettive evolutive (epistemi trust, unmet needs, etc.) e dimensionali (fattore p, tratti, etc.) della personalità. Ne emerge un quadro caratterizzato da marcate contraddizioni, ma anche da una significativa propensione ad innovare una disciplina che ambisce ad una visione sovraordinata e comprensiva dell’esperienza umana.

L’eredità di Theodore Millon

Chiunque lavori nell’ambito della personalità non può non confrontarsi con l’opera di Theodore Millon, la cui eredità è centrale nella ISSPD. Nell’aprire il congresso, Carla Sharp, presidentessa in carica della ISSPD, ha evidenziato una lettura critica di questa eredità che ha trovato il suo naturale esito nella prima keynote sul tema dell’evidence-based practice.

L’elaborazione del pensiero di Millon nella ISSPD sembra procedere lungo due linee. Primo, nel riconoscerne il ruolo fondativo, si pone l’accento non sul modello prototipico dei disturbi di personalità, quanto sul concetto di “personality-guided synergistic therapy” (lett. terapia sinergica guidata dalla personalità) con cui questi aprì il primo congresso della società nel 1984 (Ronningstam et al., 2021). L’idea è quella di perseguire una psicoterapia in cui, a prescindere dal target e dal format, la comprensione della personalità guida l’agire clinico secondo una prospettiva che supera la tradizionale definizione di integrazione. L’integrazione diviene infatti non un generico approccio eclettico tra scuole di pensiero, quanto piuttosto un processo di personalizzazione in cui tratti e sintomi specifici della persona orientano la scelta di obiettivi e interventi. Secondo, si riconosce un limite nella quasi esclusiva focalizzazione da parte di Millon su un metodo empirico e deduttivo, che diviene limitante nel fronteggiare una disciplina in cui si intersecano numerose variabili e che rischia di polarizzare sterilmente il dibattito tra approcci quantitativi e qualitativi (Pincus & Krueger, 2015).

Questa visione critica di Millon aiuta forse a capire il razionale del programma in cui la prima lettura magistrale si è focalizzata sulle metodologie meta-analitiche e in cui centrali sono stati gli interventi personality-guided. Da un lato la prima keynote tenuta da Pim Cuijpers ha mostrato quello che possiamo apprendere dagli studi sulla depressione per implementare in chiave evidence-based i trattamenti sui disturbi di personalità. Notevole interesse ha suscitato il database open-access METAPSY (Cuijpers et al., 2019) in cui è possibile visionare e condurre online meta-analisi sui trial esistenti sulla depressione. Dall’altro lato gli approcci più ricorrenti nei simposi rientrano chiaramente in una prospettiva personality-guided per come suggerita da Millon. Tra questi oltre a Mentalization Based Treatment (MBT), Dialectical Behavior Therapy (DBT) e Schema Therapy (ST) troviamo anche la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI), rappresentata da Giancarlo Dimaggio in due simposi rispettivamente su cognizione sociale e disturbo evitante. La TMI si inserisce pienamente in questa prospettiva presentando un intervento transdiagnostico di gruppo (Popolo et al., 2021) e un tentativo di integrazione con la MBT per pazienti evitanti (Simonsen et al., 2021).

La prospettiva evolutiva dei disturbi di personalità

Per quanto numerose siano le differenze, tutti i modelli di diagnosi e trattamento dei disturbi di personalità rimarcano un’età di insorgenza precoce e un decorso di lunga durata. Non stupisce dunque che la quasi totalità delle psicoterapie personality-guided presenti al congresso ponessero l’accento su meccanismi evolutivi di vulnerabilità o resilienza. Il simposio più seguito del primo giorno ha cercato ad esempio di rispondere alla domanda: quali fattori promuovono la resilienza nei confronti dei disturbi di personalità? Tra gli speaker Patrick Luyten e Arnoud Arntz che hanno presentato rispettivamente la prospettiva della MBT sull’epistemic trust e della ST sugli unmet needs. Al di là delle differenze terminologiche e cliniche entrambi gli approcci riconoscono l’impatto di bisogni e relazioni primarie in età evolutiva nel predire successive problematiche alla base dei disturbi di personalità (Caspi et al., 2016). Luyten ha portato buone evidenze neurofisiologiche su come i pattern disfunzionali nella relazione con i genitori creino un deficit nella regolazione dell’arousal e conseguentemente della mentalizzazione (Luyten & Fonagy, 2015). I dati clinici sull’efficacia nel targetizzare la relazione genitoriale per migliorare la salute mentale del paziente sono invece ancora parziali (Barlow et al., 2015). Arntz ha optato per mostrare la complessa articolazione di bisogni insoddisfatti, schemi maladattivi e modes della più recente formulazione della ST (Arntz et al., 2021), suggerendo come favorire una comprensione e prevenzione di parenting disfunzionali.

La prospettiva evolutiva emerge come fondamentale nella comprensione dei disturbi di personalità anche nel simposio della seconda mattina sul futuro dei trattamenti. Peter Fonagy pone da subito l’accento sia sulla dimensione evolutiva che dimensionale. La psicoterapia del futuro deve superare i limiti di un modello nomotetico e orientare l’intervento a partire da una comprensione della traiettoria evolutiva e delle caratteristiche di personalità individuali. A questa visione concorrono gli sviluppi della DBT (con in particolare l’approccio trauma-focused di Martin Bohus), della Transference Focused Psychotherapy (TFP; sottolineandone la prospettiva transdiagnostica con John Clarkin) e ovviamente della MBT (speaker Anthony Bateman). Tutti i relatori concordano su un modello evolutivo della vulnerabilità che converge su un fattore generale di psicopatologia in linea con l’ambizione “sinergica” di Millon e della ISSPD. In molti hanno utilizzato il costrutto di epistemic trust per come formulato da Fonagy sottintendendo una relazione diretta tra vulnerabilità evolutiva e psicopatologia generale. Tale costrutto vuole portare avanti il lavoro della MBT su un’altra importante funzione dell’attaccamento (oltre alla mentalizzazione): ovvero una fiducia nell’autenticità e rilevanza personale della conoscenza trasmessa interpersonalmente, che rappresenterebbe un fattore centrale di resilienza (Fonagy & Campbell, 2017).

La prospettiva dimensionale dei disturbi di personalità

Fonagy ha più volte citato nei suoi interventi la necessità di ripensare la psicoterapia a partire dagli studi sul fattore p o in genere sui modelli dimensionali (Alternative Model of personality Disorders – AMPD) o gerarchici (Hierarchical Taxonomy of Psychopathology – HiTOP) di psicopatologia (Caspi et al., 2013). E questo tema ha dominato i maggiori simposi della seconda giornata e non solo. Se in molti dibattiti nazionali la prospettiva dimensionale o gerarchica sembra ancora fronteggiare gli stessi dubbi che portarono l’APA ad inserirli in una sezione a parte del DSM-5, nel programma congressuale rappresentano la posizione maggioritaria. Simili dubbi, per quanto giustificati dalla iniziale utilità di una descrizione prototipica del paziente, contrastano fortemente con la mole dei dati raccolti e con un approccio che come sopra riportato non vuole contrapporre quantità a qualità quanto piuttosto promuovere interventi personalizzati basati però su evidenze (Pincus & Krueger, 2015; Ronningstam et al., 2021).

Il criterio A dell’AMPD, ovvero il livello generale di funzionamento della personalità, è il tema di un simposio coordinato da Donna Bender, nonché il risultato di un lavoro quasi ventennale di revisione delle teorie psicopatologiche (Bender et al., 2011). Al di là dei diversi modelli di concettualizzazione e label utilizzati, tutti gli approcci personality-guided presuppongono dei fattori generali di funzionamento che rappresentano il fulcro stesso della terapia (es. la mentalizzazione per la MBT; la metacognizione per la TMI; la disregolazione emotiva nella DBT). Ma soprattutto, è difficile sostenere che un modello psicopatologico tanto flessibile e idiografico come il criterio A (o il fattore p) sminuisca l’unicità di pazienti e terapeuti come spesso affermano i suoi detrattori (Sharp & Wall, 2020).

Segue poi un simposio attesissimo sulla convergenza tra AMPD e HiTOP, praticamente la criptonite per gli avversari di dimensioni e tratti. Leonard Simms (affettività negativa), Thomas Widiger (distacco), Donald Lynam (antagonismo), Stephanie Sweatt (disinibizione) e David Cicero (psicoticismo) discutono lo sviluppo teorico e clinico delle dimensioni di personalità. Particolare attenzione è dedicata alla validazione in corso di nuovi strumenti psicometrici per promuovere sempre più una connessione tra ricerca e pratica (Ringwald et al., 2021).

Da segnalare infine l’intrigante prospettiva gerarchica di Dan McAdams (2013) sullo sviluppo della personalità secondo il suo modello a tre fattori e il metodo dinamico di analisi delle situazioni interpersonali di Hopwood e colleghi (2019), presentati rispettivamente il secondo e il terzo giorno.

Tra contraddizioni e innovazioni

Provando a trarre un bilancio emergono molti entusiasmanti filoni di ricerca, ma ancora notevoli contraddizioni. Tra i primi dobbiamo sicuramente annoverare gli studi sui modelli dimensionali e gerarchici e i primi tentativi di applicare in psicoterapia tali modelli secondo un’ottica sinergica ed evidence-based. Nel comprendere le contraddizioni conviene invece riflettere su tre indicatori. Il primo è linguistico ed ha come emblema il disturbo borderline di personalità che imperversa in ogni simposio e presentazione. Quasi a ricordarci che le categorie sono dure a morire, soprattutto se associate a grant e progetti di rilievo. Il secondo è sostanziale ed emerge dalla difficoltà a passare da una teoria integrativa e dimensionale ad una pratica che richiede un atteggiamento anti-ideologico e quasi buddistico nei confronti delle proprie amate teorie. Il terzo è fortemente umano e riguarda le resistenze personali che ognuno di noi mostra verso i cambiamenti. Per quanto siano ormai oltre 20 anni che si mette in discussione il modello categoriale, vi è una strenua resistenza all’emergere di una nuova generazione di ricercatori e modelli che si teme, forse, possano spazzare via il passato. Credo che il taglio assai equilibrato con cui è stato scritto il position paper della ISSPD possa rassicurarci a riguardo. Personalmente, per quanto mi definisca un fervente sostenitore dei modelli dimensionali, ritengo che le descrizioni prototipiche di Millon siano sempre di aiuto per quanto non conclusive. E conviene a tal proposito ricordare un detto taoista che recita: impara i riti, dimentica i riti.

 

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