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Biomarcatori della Pedofilia: può la scienza riconoscere un pedofilo? 

Una panoramica della letteratura sulle implicazioni dell’utilizzo di biomarker per scopi diagnostici, valutativi e di prevenzione nella pedofilia

Di Giulia Chiarini, Valeria Oliveri

Pubblicato il 22 Apr. 2021

L’attuale letteratura suggerisce come i biomarcatori possano essere degli strumenti potenzialmente utili non solo nel coadiuvare il clinico nella diagnosi, ma anche nel trattamento e nella valutazione del rischio nei soggetti pedofili.

 

Introduzione

Il Disturbo Pedofilico viene definito come “un’eccitazione sessuale ricorrente intensa, manifestata attraverso fantasie, desideri o comportamenti, per un periodo di almeno 6 mesi, che comportano attività sessuale con un bambino in età prepuberale o con bambini (in genere sotto i 13 anni di età)” (DSM-5, 2014, p.810). Inserito all’interno dei disturbi parafilici, il disturbo pedofilico risulta essere un argomento connotato da una forte sensibilità. Più generalmente, la pedofilia riguarda il marcato e persistente interesse sessuale per bambini prepuberi, come manifesto da fantasie, desideri, pensieri e comportamenti sessuali dell’individuo (Seto, 2009). Ad oggi rimane tuttavia largamente sconosciuta la prevalenza della pedofilia nella popolazione a causa della mancanza di studi epidemiologici su larga scala. Il DSM-5 (2014) stima una prevalenza attuale del disturbo nella popolazione maschile del 3-5%, tuttavia non basata su forti dati scientifici. Inoltre, restano ancora da chiarire i possibili fattori di rischio alla base dello sviluppo della pedofilia. Dalla letteratura emergono evidenze rispetto al fatto che l’aver subito abusi sessuali in età infantile possa comportare lo sviluppo di un interesse di tipo pedofilico (DSM-5, 2014; Nunes et al., 2013). Nunes e colleghi (2013) mostrano tuttavia come soltanto una minima percentuale delle vittime manifesti poi in età adulta questo disturbo. Proprio per la complessità e la mancanza di robuste evidenze riguardo alla pedofilia risultano particolarmente interessanti alcune recenti ricerche che sembrerebbero suggerire la possibilità di identificare uno o più biomarcatori per questo disturbo.

Si definisce biomarcatore una proprietà oggettivamente misurabile che funge da indicatore di processi biologici anomali e/o normali e il loro nesso con gli esiti clinici (Strimbu & Travel, 2010). In altre parole, è stata indagata la possibilità di riconoscere un pedofilo attraverso dei parametri oggettivi; se ciò fosse possibile, questo si tradurrebbe in un aiuto significativo per il clinico nell’identificazione di un interesse pedofilico. Tanto è vero che l’attuale letteratura suggerisce come i biomarcatori possano essere degli strumenti potenzialmente utili non solo nel coadiuvare il clinico nella diagnosi, ma anche nel trattamento e nella valutazione del rischio nei soggetti pedofili. Una recente review (Jordan, Wild, Fromberger, Muller & Muller, 2020) presenta e analizza i principali studi circa i potenziali biomarcatori della pedofilia, a partire da una concettualizzazione multifattoriale e complessa di quest’ultima.

Fattori genetici e neurobiologici

Considerando le influenze genetiche sulla pedofilia, uno studio riporta una probabilità significativamente più diffusa di incorrere in tale disturbo per i parenti di primo grado di pazienti con diagnosi conclamata, rispetto a parenti di primo grado di soggetti affetti da altre parafilie o depressione (Gaffney, Lurie & Berlin, 1984). La piccola dimensione del campione dello studio sopra citato (33 uomini) e la sua datazione non gli consentono un elevato grado di affidabilità, comunque suggerisce quanto l’interesse scientifico nei confronti di tale disturbo abbia radici ben lontane nel tempo. Ricerche più recenti hanno messo in relazione la prevalenza dell’uso della mano sinistra (handedness) o di entrambe ad interessi sessuali devianti (Bogaert, 2001). Tuttavia, nessuno tra questi elementi sembra godere di una solidità tale da porsi come substrato biologico determinante della pedofilia.

La letteratura si è espressa anche sul versante neurologico identificando come la pedofilia si accompagni a delle compromissioni delle capacità cognitive del soggetto: ridotto QI, attenuazione dell’attenzione e ridotta flessibilità cognitiva (Cantor et.al, 2004). A tal proposito delle ricerche hanno impiegato la tecnica del tracciamento oculare (eye-tracking) come mezzo per valutare le preferenze sessuali devianti. Tale tecnica consente, mediante il tracciamento dei movimenti oculari dell’individuo, di identificare gli stimoli visivi che maggiormente attirano la sua attenzione e verso i quali direziona lo sguardo. Grazie all’eye-tracking è possibile realizzare un effettivo monitoraggio oculare dell’intero percorso effettuato dall’occhio durante la visione di determinati stimoli, osservando, ad esempio, la dilatazione e la contrazione delle pupille, ricavandone informazione sui processi attenzionali.

Renaud et al. (2013) hanno implementato un disegno sperimentale che prevedeva la misurazione dei movimenti oculari in tre gruppi durante la presentazione di immagini che ritraevano bambini o adulti. Il primo gruppo era costituito da pedofili, il secondo da autori di reati sessuali non pedofili ed infine il terzo gruppo era di controllo. I risultati hanno mostrato come i pedofili, rispetto agli altri, abbiano riportato dei tempi di fissazione significativamente più lunghi per gli stimoli raffiguranti bambini. Altri autori hanno implementato un disegno sperimentale simile in cui i soggetti erano chiamati a risolvere un compito cognitivo e parallelamente a questo venivano loro presentati degli stimoli sessuali: immagini di bambini o adulti (Jordan et.al, 2016). I partecipanti per riuscire nel compito erano chiamati ad esercitare un buon controllo dell’attenzione. Si evince come quest’ultimo sia venuto meno nei soggetti pedofili in cui gli stimoli raffiguranti dei bambini erano molto distraenti.

A parere di chi scrive risulta centrale riportare alcune evidenze circa lo sviluppo della pedofilia come fattore acquisito a seguito di lesioni cerebrali soprattutto prima dei 13 anni che avrebbero sortito un effetto iatrogeno sullo sviluppo neurale (Blanchard, 2003). Ulteriori studi osservano una generale ipersessualità a seguito dell’insorgenza di tumori cerebrali, accompagnata da cambiamenti di personalità e/o impulsività (Burns & Swerdlow, 2003). Nell’eventualità in cui in tali soggetti sviluppassero un interesse di tipo pedofilo questo era da considerare come acquisito a seguito del tumore e collocato in un quadro di ipersessualità favorito dalla malattia. Le evidenze sin qui esposte rendono difficile trarre delle conclusioni definitive sui correlati neurali della pedofilia.

Ultimo, non per importanza, aspetto da analizzare sotto il profilo biologico è quello ormonale. Appartiene allo scibile comune la credenza che i pedofili siano connotati da concentrazioni più elevate di testosterone, ma la scienza dimostra che ciò non corrisponde al vero. Nonostante questo, il trattamento per abbassare il testosterone (TLT) viene utilizzato su soggetti pedofili riducendo l’attivazione delle aree cerebrali collegate alle funzioni sessuali, con l’intento di diminuire il loro desiderio sessuale (Shiffer et.al, 2009). Quanto appena constatato va a supportare il fatto che neanche sotto il profilo ormonale sia possibile risalire ad un biomarcatore.

Si ritiene utile illustrare alcune delle tecniche ad oggi implementate per studiare l’interesse di tipo pedofilico.

Pletismografia del pene (PPG)

Appare rilevante ricordare che la pletismografia del pene è ritenuta una tecnica d’elezione per valutare l’interesse pedofilico, tanto da essere indicata dal DSM-5 come un elemento diagnostico aggiuntivo della pedofilia. Tale tecnica rileva l’interesse di tipo pedofilo attraverso le variazioni di circonferenza e volume del pene in risposta a stimoli sessuali (che variano per età e sesso) (McPhail et al., 2019). In altre parole, di fronte all’immagine di un bambino/a il soggetto pedofilo, rispetto al teleiofilo, ovvero colui che è attratto da persone adulte, mostrerà una oggettiva e misurabile eccitazione genitale. Si vuole infine sottolineare che il ruolo della pletismografia del pene è di supporto alla diagnosi e che di certo non può sostituirla.

Risonanza magnetica funzionale

Un’ulteriore tecnica rivelatasi promettente nell’assessment di un interesse sessuale deviante è quella della risonanza magnetica funzionale, la quale permette la raccolta di informazioni emodinamiche, ovvero della circolazione sanguigna del cervello in risposta a stimoli sessuali, certamente più affidabili, rispetto a questionari self-report, nell’individuazione di un interesse pedofilico della persona. L’idea di base è che gli aspetti rilevanti degli stimoli sessuali siano elaborati in maniera preferenziale, catturando l’attenzione del soggetto in maniera più rapida e significativa (Spiering et.al, 2007). Nella review di Jacobs et al. (2020) viene discusso come per ovviare alla possibile manipolazione dei soggetti che osservano passivamente diversi stimoli di natura sessuale, siano utilizzati stimoli visivi subliminali, ovvero una presentazione di stimoli per un tempo inferiore ai 50 ms, ovvero un quantitativo di tempo insufficiente affinché lo stimolo venga percepito ad un livello consapevole.

Approcci comportamentali

Infine, con l’introduzione dei marcatori “bio-comportamentali” Loth ed Evans (2019) suggeriscono l’utilizzo di approcci comportamentali per la valutazione oggettiva dell’interesse sessuale deviante. Questa valutazione può essere ad esempio fatta attraverso misurazioni dei tempi di reazione, misure di precisione in compiti cognitivi o valutazioni di valenza ed eccitazione rispetto ad uno stimolo (Jordan et al., 2020). Jordan e colleghi (2020) spiegano come questi possano rappresentare dei promettenti strumenti “oggettivi” per il processo diagnostico, come ad esempio il tempo di visualizzazione, basato sul fatto che il soggetto tenda ad osservare per un tempo maggiore uno stimolo per lui/lei erotico rispetto ad uno non-erotico, tuttavia i risultati emersi dagli studi scientifici mostrano effetti ancora troppo piccoli o moderati. Nonostante ciò, è proprio il DSM-5 (2014) ad elencare il tempo di visualizzazione tra i marcatori diagnostici del disturbo pedofilico.

Conclusioni

E’ innegabile come il disturbo pedofilico eserciti un peso notevole all’interno della società anche e soprattutto per la sofferenza fisica e psicologica di chi ne è vittima. Indagini condotte in Europa mostrano che 18 milioni di bambini siano vittime di abusi sessuali, con una prevalenza del 9.6% (13.4% nelle bambine e 5.7% nei bambini) (WHO, 2013). D’altro canto, studiare i processi psico-fisiologici di coloro i quali sviluppano tale disturbo può condurre ad una conoscenza più approfondita di una patologia tanto complessa; ciò consentirebbe infatti di agire, laddove possibile, in termini preventivi così da limitare i danni. Da una disamina di quanto presente in letteratura, emerge come la ricerca abbia ancora molto da fare in tal senso e gli studi riguardo ai possibili biomarcatori sono ancora in fase esplorativa. Come si è ampiamente ribadito, i biomarcatori non sono altro che proprietà oggettivamente misurabili che fungono da indicatori di processi biologici anomali e/o normali e il loro nesso con gli esiti clinici (Strimbu & Travel, 2010). Al termine delle evidenze argomentate, in linea con la letteratura (Jordan et al., 2020), è importante sottolineare come nel caso del disturbo pedofilico sia più opportuno parlare di un biomarcatore composito, ovvero di più parametri che, solo se considerati nel loro insieme, potrebbero rivelarsi utili per diagnosi, valutazione del trattamento e prevenzione in soggetti pedofili.

Dal punto di vista diagnostico, come è stato precedentemente illustrato, emerge la considerevole utilità derivante dall’utilizzo di biomarker che possano oggettivamente discriminare un soggetto pedofilo da uno con interessi sessuali teleiofilici, così come risulterebbe certamente vantaggioso poter valutare l’andamento dei trattamenti e della terapia, nonché i loro progressi, positivi o negativi, tramite l’utilizzo dei biomarcatori. Per esempio, come spiegano Jordan e colleghi (2020), i tempi di reazione visiva (Visual Reaction Times, VRT), che permettono di misurare l’interesse sessuale rispetto a degli stimoli (es. immagini di bambini) sulla base del tempo di visualizzazione di essi, possono essere utilizzati per il monitoraggio dell’andamento della terapia in soggetti con interesse sessuale pedofilico: tempi di reazione visiva minori ad ogni follow-up indicherebbero l’effettiva diminuzione dell’interesse pedofilico, nonché un esito positivo del trattamento (per approfondimento si veda: Gray, Abel, Jordan, Garby, Wiegel & Harlow, 2015).

Per quanto concerne il versante preventivo, lo studio di un biomarcatore composito della pedofilia risulterebbe particolarmente utile nel supporto e monitoraggio di soggetti pedofili. Infatti, grazie alla rete si è assistito, soprattutto in tempi recenti, al dilagare di una molteplicità di materiali pedopornografici, facilmente accessibili e diffusi attraverso chat, social, ecc., così come è sempre più agevole l’accesso al dark web, nel quale, come riportato dalla cronaca, sono spesso scoperte numerose chat nelle quali vengono diffusi video di violenze sessuali ai danni di minori. Un articolo del 2004 (Malesky & Ennis, 2004) sottolinea come la partecipazione ad un forum per individui che condividono tendenze pedofiliche rinforzi il senso di appartenenza dell’individuo e la tendenza a normalizzare la percezione dei propri interessi sessuali devianti in quanto condivisi con altre persone. Gli autori suggeriscono inoltre un utilizzo limitato di comunità virtuali per individui con interessi sessuali devianti e soprattutto per individui autori di reati sessuali, prediligendo per questi individui un focus sullo sviluppo e il consolidamento di relazioni sociali adulte. Se grazie ad un biomarcatore composito fosse dunque possibile non solo diagnosticare e valutare gli esiti dei trattamenti in soggetti pedofili, ma anche prevenire la fruizione o il contributo alla diffusione di questo materiale e la normalizzazione di questi atti da parte di coloro che potrebbero tramutare in azioni il contenuto di ciò che osservano e condividono, è chiaro quale importante strumento questo rappresenterebbe nel prevenire i rischi che ne conseguono.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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