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Lettera alla mia terapeuta

La lettera di una paziente alla sua terapeuta dà voce a molte altre donne che affrontano ogni giorno le implicazioni legate al loro ruolo

Di Eleonora Natalini

Pubblicato il 11 Nov. 2020

Le donne si trovano spesso a dover affrontare diverse sfide, come quella di conciliare maternità e lavoro. I vissuti e i pensieri di due pazienti ci guidano nello scoprire più da vicino queste difficoltà.

 

Sara ha un pacchetto per me. È il regalo per il mio compleanno, lo scarto incuriosita ed esce fuori un libro L’atlante delle donne. La più aggiornata e accurata analisi di come vivono le donne nel mondo. Le dico “lo sai vero che sicuramente mi farà arrabbiare?!” e lei sorride “si certo!”. Sara è separata, ha due bimbe, ha un ruolo importante in una grande azienda e viaggia spesso per questo, un fisico mozzafiato e un’intelligenza rara. E lavora di continuo per mantenere tutto in bilico. A mio avviso le sue giornate sono di 48 ore e, se non la conoscessi bene, penserei ad una dipendenza da anfetamine o simili. La ammiro perché sinceramente non so se potrei fare qualcosa di simile. Il libro che ha scelto quindi non è un caso. Abbiamo parlato spesso di lei, della situazione femminile in generale e della difficoltà di conciliare maternità e lavoro. O forse maternità e autonomia. Sfogliamo le pagine e capitiamo a pagina 135 esattamente, dov’è stilata una lista delle faccende domestiche per le quali le donne hanno la responsabilità principale (es. tenere i rapporti con la scuola/asilo sulle questioni quotidiane, gestire gli appuntamenti medici…). La lista è lunga. Poi voltiamo pagina e viene riportato il divario europeo sullo stipendio lordo orario medio delle donne in percentuale a quello degli uomini (in Italia del 94%, anno 2014/2015). Iniziamo a riflettere sulla difficoltà delle donne di portare avanti, nel migliore dei modi, maternità e carriera. Mi sale la rabbia. “Ecco vedi lo sapevo!”. Mi sfotte, “dai ora non pensarci”, mi abbraccia e ci salutiamo. Ovviamente non pensarci per me è impossibile. Tiro fuori dal comodino una lettera consegnatami qualche settimana fa e inizio a leggere.

Cara dottoressa,

nel 1975 non ero ancora nata. Nemmeno immaginata, forse sognata. “Lettera a un bambino mai nato”, di Oriana Fallaci, esce proprio in quel periodo ed io, di quel periodo, non so nulla.

Mentre leggo faccio fatica a pensare che sia un libro di 45 anni fa. È tutto così vivido e presente. Io che sono qui con il mio lavoro e non so cosa voglio fare. Non so se le parole che ho in testa sono mie o dell’amica, del vicino di casa, dello scrittore intervistato in tv o della docente di antropologia dell’università. Io non so che fare dottoressa, questa è la verità. Non so se lasciare quell’uomo che da me non vuole figli o se inseguirlo perché forse non ne voglio nemmeno io. O forse si. È vero non c’ero nel ’75 ma non sono nemmeno così giovane da non pormi questa domanda. Ho rimandato la risposta troppo a lungo.

La mindfulness ci dice che bisogna guardare al presente e vedere ciò che desideriamo in questo momento, qui ed ora. Bella come cosa, stupenda. Ma il presente cambia di continuo. E il presente di oggi non sarà quello vissuto domani. Oggi faccio la spesa e ho voglia di una bella carbonara e prendo il tutto. Il giorno dopo mi sveglio e desidero insalata e pomodori. Ma niente non li ho presi il giorno prima. Nemmeno una spesa riesco a fare, nemmeno so cosa vorrei mangiare il giorno prima per quello dopo. Mia nonna a colazione davanti caffè, latte e biscotti mi chiedeva che volevo per cena. Io avevo solo la nausea nel pensare a carne, peperoni e pasta al sugo. E mi sembrava un dilemma insormontabile. “Fai tu” rispondevo. Ma ora a chi posso dirlo “decidi tu”? Al mio compagno? Ma so che poi lo odierei per questo. E se rimarrò con lui non voglio odiarlo, ma non voglio odiare nemmeno me stessa, con cui sicuramente rimarrò.

Non ho mai abortito ma ho fatto il test di gravidanza due volte. La prima sapevo che non sarebbe stata una gravidanza desiderata, ero giovane e lui in quel momento aveva deciso per entrambi. Ma test negativo. La seconda è stata più difficile perché una parte di me lo desiderava e stavo lì con la felicità che ci fosse qualcuno dentro di me e la paura per lo stesso motivo. Anche lì, test negativo. Non ci stavamo provando, non era il momento nemmeno quello, ma credo di aver pianto. Sentivo una perdita. Quando c’è solo l’ipotesi di qualcosa già la vivi emotivamente, come lei dottoressa mi ha spiegato. Come gli esercizi in immaginazione che facciamo. E solo ora li capisco veramente.

Forse ci penso e ripenso perché sono una perfezionista. Lo abbiamo visto nella nostra terapia. Forse vorrei essere una mamma perfetta, ma so che non lo sarò mai. E temo che poi questo bambino o questa bambina debbano sedersi dove sto io, in uno studio simile al suo, a raccontare tutto ciò che ho fallito. Lo so, lo so, si arrabbierà per questo. Ma chi non si sente sbagliato venendo in terapia? Non prediamoci in giro. Il bello, però, è che gli unici momenti in cui non mi sono sentita sbagliata sono stati quelli in studio con lei. Ma questo è un altro discorso. 

Il mio lavoro, per cui ho faticato così a lungo, si bloccherà per un figlio o una figlia. Dopo 45 anni avrò gli stessi problemi della donna della Fallaci. Se non farò quel viaggio il mio capo si sbarazzerà di me. E non posso permettermelo. La mia ginecologa e la mia endocrinologa tempo fa mi dissero che un figlio o una figlia sono della madre, che una donna quando decide di volerli deve immaginarsi da sola perché è lei che se ne dovrà occupare. Purtroppo è veramente così. E questo mi ha lasciato tristezza perché credo ancora nella figura del padre e la desidero, dall’altra invece la forza di capire che è tutto nelle mie mani se lo voglio veramente.

Grazie anche a lei dottoressa, in tutta onestà, credo che potrei essere una buona (non perfetta) madre già solo per il fatto che mi sto preoccupando così tanto per una figlia o un figlio che non sono mai stati concepiti. E credo di poter essere una buona madre perché so che mi peserà non avere più la mia libertà e questo lo so perché vorrei esserci per loro. Ma anche se è passato quasi mezzo secolo, Oriana mi starà guardando, ci starà guardando con tristezza e rabbia, perché per una donna è ancora complicato scegliere tra se stessa e suo figlio o sua figlia. Purtroppo la società ci chiede ancora di farlo e ci rimprovera se scegliamo noi stesse. Fallaci non ha sbrogliato la matassa, chi sono io per pensare di riuscirci?

Voglio accantonare ora questo dilemma perché ho la speranza di svegliarmi un giorno e di avere chiara davanti ai miei occhi la risposta. Una magia? Sì, lo è.

Magari tra altri 50 anni una donna come me non dovrà più rispondere a questo dilemma. Una magia? Sì, lo è.

Ho scritto per fermare i pensieri, o come lei preferisce, per bloccare il rimuginio.

Ci vediamo lunedì alla solita ora.

Piango mentre leggo le parole di Caterina. Anzi no, non sono sue, ma di mia sorella. O forse della ragazza che beveva il caffè stamattina al bar. O forse della maestra d’asilo. O della presentatrice in tv. O forse di Sara. O forse sono mie. O forse sono la voce di qualsiasi donna.

 

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