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Perché sono arrabbiato con me? Funzione e sviluppo della rabbia secondaria

La rabbia può essere sia una risposta a uno stimolo minaccioso, sia uno strumento di difesa da altre sensazioni, in questo caso è detta rabbia secondaria

Di Giulia Radice, Laura Romagnoni

Pubblicato il 19 Nov. 2020

La rabbia è una delle sette emozioni primarie (Ekman, 2008), ovvero un tipo di emozione innata e universalmente presente in ogni essere umano fin dai primi mesi di vita; ma cosa si intende per rabbia secondaria?

 

Come tutte le emozioni, anche la rabbia ha un preciso scopo etologico: nasce nel momento in cui percepiamo un pericolo o un’intrusione (Greenberg & Paivio, 2000) e abbiamo la necessità di mettere in atto dei comportamenti di risposta aggressivi che garantiscano, o per lo meno aumentino, le nostre possibilità di sopravvivenza. La pervasività dei vissuti connessi alla rabbia (risposte fisiologiche automatiche, sensazione di avere o meno il controllo della situazione e dei nostri comportamenti ecc) può variare significativamente in base a quanto siamo arrabbiati, costante che a sua volta dipende dai pensieri che rivolgiamo verso lo stimolo ambientale, ovvero quanto riteniamo pericolosa la situazione con cui ci stiamo confrontando. Non di rado, infatti, proviamo rabbia anche quando abbiamo la sensazione di aver subito un’ingiustizia (noi o i nostri cari), un’offesa (noi o i nostri cari) o di essere stati bloccati nel raggiungimento o nella realizzazione dei nostri scopi o obiettivi (noi o i nostri cari), ovvero in situazioni in cui la nostra vita non è effettivamente in pericolo. Ed è in questo contesto, decisamente più cognitivo, che si determina il passaggio tra ira, rabbia, fastidio e frustrazione, ovvero tra le diverse sfumature quantitative e qualitative che può assumere questa emozione.

Gli esseri umani, però, non si limitano solo a produrre pensieri o a provare emozioni elicitati direttamente da stimoli esterni, ma riflettono e sentono anche a partire da spinte che provengono direttamente da dentro loro stessi. Ciò significa che possiamo provare rabbia anche per ciò che pensiamo e proviamo nei confronti di noi stessi.

Greenberg e Paivio (2000), in ambito clinico, suggeriscono di operare una distinzione tra rabbia primaria e rabbia secondaria. Gli autori identificano le espressioni della rabbia secondaria come “reazioni secondarie ad altre emozioni e processi cognitivi” che si verificano quando “[…] i pensieri coscienti e le attribuzioni di colpa […] sono insufficienti a causare l’attivazione della rabbia”. Secondo gli autori, quindi, la rabbia secondaria avrebbe lo scopo di “bloccare lo stress e il dolore, derivanti da altri sentimenti, rimuovendoli dalla consapevolezza”. È molto probabile che la maggior parte di noi conosca qualcuno (o sia lui/lei stesso) che si è arrabbiato con sé stesso per aver fallito ad un esame o per non aver espresso la sua opinione durante una riunione di lavoro; o che ha reagito con grida di rimprovero verso un figlio o un nipote o un alunno che si è fatto male dopo essersi comportato in modo avventato; o che rivolge verso sé stesso frasi denigratorie e dispregiative ogni volta che si sente debole, indifeso o spaventato.

Le funzioni della rabbia, quindi, si configurano sia nella possibilità di incrementare la risposta verso uno stimolo attivatore minaccioso, per poterlo affrontare efficacemente da un lato (Novaco, 2010), ma anche nella possibilità di avere uno strumento di difesa da altre sensazioni (Gorrese, 2013). Ma perché dovremmo difenderci da altre emozioni, che per quanto scomode e spiacevoli, non mettono in pericolo la nostra vita (anzi, hanno una precisa funzione di sopravvivenza della specie)? Perché valutiamo alcuni vissuti così sbagliati e minacciosi da doverli evitare o sopprimere?

Gli approfondimenti sull’attaccamento e sulle dinamiche familiari possono fornire alcune risposte.

Mantenendo uno sguardo ampio, si può affermare che la cultura, i miti e i tabù che caratterizzano un sistema familiare compongono il terreno in cui un individuo sviluppa, tra le alte cose, specifiche modalità di regolazione e interazione emotiva. È possibile che i bambini che sono stati sgridati quando hanno manifestato fastidio, nervoso e rabbia tenderanno ad apprendere a nascondere questi vissuti, finendo per non concedersi di provare questi sentimenti e ad arrabbiandosi con se stessi qualora questo dovesse accadere (Shaver & Mikulincer, 2002; Clear & Zimmer-Gembeck, 2015).

In alternativa, la rabbia può essere l’emozione con cui il contesto familiare chiede all’individuo di reagire quando prova paura o tristezza, portandolo così a condannare e denigrare se stesso ogni qualvolta senta affiorare questi sentimenti. In questo caso potremmo dire che bambini che sono stati sgridati quando hanno pianto davanti a un giocattolo rotto o hanno chiesto di essere protetti dai mostri sotto al letto o dal cane che abbaiava con forza tenderanno poi a evitare di provare questi vissuti, percependosi deboli e incapaci qualora dovesse accadere.

Osservando nello specifico la relazione fra il bambino e la figura di attaccamento, nel caso in cui la ricerca della vicinanza abbia fallito, portando a rifiuto e ostilità invece che ad ascolto e comprensione, verrà così interiorizzato un modello orientato alla soppressione delle emozioni spiacevoli, tra cui la rabbia (Caldwell & Shaver, 2012, 2015; Wei et al., 2005).

Emerge quindi quanto le prime esperienze relazionali infantili giochino un importante ruolo nella modalità di vivere e gestire la rabbia, oltre che sulle conseguenti emozioni secondarie.

Approfondire la relazione tra le esperienze infantili e la rabbia secondaria può avere importanti risvolti nel lavoro terapeutico. Qualora il terapeuta arrivi a riattivare i modelli operativi interni che il paziente ha sviluppato in origine all’interno del suo nucleo familiare, ciò consentirà alla coppia terapeutica di utilizzare le reazioni di rabbia come punto di accesso ai vissuti infantili dolorosi. Il paziente potrà così avere l’opportunità di accedere a una visione di sé maggiormente introspettiva, raggiungendo la consapevolezza che il problema non è il sentire l’emozione -anche se molto spiacevole-, ma la valutazione che rivolge a se stesso davanti alla consapevolezza di specifiche emozioni. Il cambiamento dovrà quindi essere indirizzato al rimodellamento dell’attaccamento e della percezione di sé (Gorrese, 2013).

 

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Giulia Radice
Giulia Radice

Psicologa Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Clear, S. J., Zimmer-Gembeck, M. J. (2015). Associations between attachment and emotion-specific emotion regulation with and without relationship insecurity priming. International Journal of Behavioral Development.
  • Caldwell, J. G., Shaver, P. R. (2012). Exploring the cognitive-emotional pathways between adult attachment and ego-resiliency. Individual Differences Research, 10(3), 141-152.
  • Ekman, P. (2008). Riconoscere le emozioni anche quando sono nascoste. Torino: Editore Amrita.
  • Gorrese, A. (2013). Attaccamento e rabbia: un'analisi della letteratura psicologica. Attaccamento e rabbia, 1-127.
  • Greenberg, L. S., & Paivio, S. C. (2000). Lavorare con le emozioni in psicoterapia integrata (Vol. 17). Sovera Edizioni.
  • Novaco, R. W. (2010). Anger and psychopathology.  International handbook of anger. Springer, New York, NY. 465-497
  • Shaver, P. R., Mikulincer, M. (2002). Attachment-related psychodynamics. Attachment and Human Development, 4(2), 133-161.
  • Wei, M., Russell, D. W., Zakalik, R. A. (2005). Adult attachment, social self-efficacy, self-disclosure, loneliness, and subsequent depression for freshman college students: A longitudinal study. Journal of counseling psychology,52(4), 602.
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