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Pandemic Shaming: stigmatizzazione e ostilità nella storia delle epidemie

Dinanzi alla paura e all’impotenza a cui il virus ci soggioga, la rabbia ci dà l’impressione, o l’illusione, di avere ancora un controllo sulla situazione.

Di Letizia Muro

Pubblicato il 22 Giu. 2020

Un atteggiamento raccapricciante, ma purtroppo veritiero, è quello a cui si è assistito con l’espandersi sempre più massiccio del virus: offese e insulti diretti a sconosciuti o conoscenti, categorie di untori condannati al rogo, così come chiunque uscisse di casa, senza conoscerne le reali motivazioni. Parliamo di pandemic shaming, ma perché tutto questo?

 

Non posso controllare chi si ammala di Covid e come o quando torneremo alla normalità. Ma c’è una cosa che posso controllare: individuare chi non rispetta le misure preventive, smascherarlo e severamente ammonirlo”. È questo l’assunto alla base del pandemic shaming, fenomeno di attacco e calunnia mediatica e non, diffusosi dall’inizio della pandemia in Italia e nel mondo. Il pretesto attorno al quale si sviluppa la contestazione e che genera l’ira funesta è l’utilizzo adeguato di una delle primarie misure di protezione e prevenzione contro il virus: la mascherina.

Un atteggiamento raccapricciante, ma purtroppo veritiero e spesso attuato anche consapevolmente, è quello a cui si è assistito con l’espandersi sempre più massiccio del virus: offese e insulti diretti a sconosciuti o conoscenti, categorie di untori condannati al rogo, così come chiunque uscisse di casa, senza conoscerne le reali motivazioni. Ma perché tutto questo?

Dinanzi alla paura e alla rabbia di non riuscire a combattere o comprendere un nemico invisibile, inaspettato e subdolo come il Covid, la gente reagisce spesso esternalizzando i propri sentimenti e proiettando frustrazioni e paure sugli altri, denigrandoli e scagliandovisi contro. Per dirla con il ciclo del dolore di Kubler-Ross, siamo nella fase della rabbia, fronteggiando un dolore collettivo dato dal senso di perdita che il virus sta causando: perdita di sicurezza, certezze e incolumità. La rabbia, che è una manifestazione della paura, diventa strategia di coping svolgendo una funzione “empowering”, potenziante, che conferisce forza e controllo. Dinanzi alla paura e all’impotenza a cui il virus ci soggioga, la rabbia ci dà l’impressione, o l’illusione, di avere ancora un controllo sulla situazione. Scagliarsi sul primo malcapitato che non rispetta le norme ministeriali, in rete o dalla propria finestra che sia, diventa allora una malsana seppure efficace modalità per fronteggiare quel disagio interiore fatto di paura, incertezza e frustrazione che si sente dentro. Ciò si verifica anche perché, a seguito della negazione iniziale, quando ci si convince che il problema è reale e se ne realizza la gravità, scatta un secondo meccanismo: la ricerca del colpevole a cui attribuire la responsabilità di quanto avvenuto. Lo abbiamo visto in Italia con i diversi capri espiatori o meglio gli untori: prima i runners, dopo gli asintomatici, colpevoli di essere immuni alla malattia pur avendo inoculato e trasmesso il virus; poi i bambini, i più bisognosi di aria aperta ma i più abbandonati e trascurati da tutti, persino dai decreti; i lavoratori che non hanno mai smesso di lavorare per permettere al resto della popolazione di stare noi a casa; e infine il personale sanitario, lo stesso che mette a rischio ogni giorno la sua e dei propri cari vita, per salvarne di migliaia, ma è visto come un pericoloso untore per i condomini.

La stigmatizzazione nella storia delle epidemie

Eppure questo non è il primo episodio di stigma e colpevolizzazione nella storia delle pandemie. Ne fa un’analisi approfondita David Barnet, professore associato di medicina e salute pubblica a Penn, cultore della relazione tra stigma e pandemie. Storicamente le malattie si sono prestate all’associazione con gli stranieri e quindi con le stigmatizzazioni, si pensi al modo in cui apprendiamo di “malattie che vengono da altrove e che si stanno diffondendo da qualche altra parte”. Ne consegue che, nel momento in cui queste malattie toccano noi, ci si sente invasi, contagiati. È quello che successe con la peste di Milano, di cui narra Manzoni ne I Promessi Sposi e in cui si possono ritrovare tante analogie con il Covid. In primis, la diffusione del contagio, ora come allora, pochi contagi sparsi nel territorio, voci lontane di quel che avveniva altrove, corredate da un frequente sottovalutare o ridicolizzare dell’allarme. Poi la ricerca del paziente zero:

Il Tadino e il Ripamonti vollero notare il nome di chi ce la portò il primo, e altre circostanze della persona e del caso

si legge nel romanzo a proposito della peste bubbonica. Di lì al rintracciare la categoria di untore su cui far ricadere la colpa, il passo è breve. Tuttavia, Barnet evidenzia come ciò che ha permesso che nella fase iniziale del Covid non si scatenasse il “panico da malattia” consiste proprio nei sintomi del virus, spesso sovrapponibili a quelli di una comune influenza. Qualcosa di familiare che si ripete ogni anno; non qualcosa di fatale, con sintomi drammatici e che viene da lontano in termini non solo geografici ma anche culturali. Come accade per l’Ebola o la Febbre Gialla.

Il fenomeno del pandemic shaming

In Italia, il pandemic shaming si è concentrato relativamente attorno al proprio quartiere anche a causa della ferrea circoscrizione attuata che limitava al minimo gli spostamenti: urla dal balcone per chi era in strada o non indossava la mascherina, foto e chiamate alla polizia e minacce intimidatorie affisse all’uscio di casa o nelle scale del palazzo. Gli attacchi mediatici non sono mancati, si pensi alle reazioni verso le onde migratorie che hanno attraversato la penisola prima del lockdown. Tuttavia, essendo poi stato un fermo totale e nazionale, non vi erano molti modi e soprattutto appigli per accanirsi con qualcuno. Ma come si sarà potuto reagire in assenza di un lockdown imposto, né di precise misure preventive e tutele messe in atto da parte del governo?

È il caso di UK e USA, dove l’ondata di pandemic shaming mediatico ha assunto dimensioni tanto virali quanto letali. Gli effetti sono stati borse di studio minacciate, profili social rimossi, minacce di morte moltiplicati per cento se non mille a partire dalla metà di marzo con conseguente impatto psicologico e sociale altissimo. È accaduto che, alla comunicazione del governo di attuare misure di autoisolamento per contenere la diffusione del virus, sia proliferata, soprattutto in America, una frenesia per la gogna pubblica verso tutti coloro che assumevano pratiche improprie a proteggersi e proteggere dal contagio. La gogna si è consumata prevalentemente sui social media e la piattaforma più utilizzata come patibolo è stata Twitter. Si pensi che lo slang “covidiot” decodificato dall’Urban Dictionary come “colui che ignora avvertimenti in materia di salute pubblica e sicurezza” ha visto una impennata di quasi 3000 tweet nell’arco di pochi giorni. Target principali erano i pendolari che tossivano sui mezzi pubblici, tutti coloro che hanno partecipato a party in spiaggia e parchi specie durante il Miami spring break e i venditori di rose. Premesso che l’accanimento alle manifestazioni pubbliche di grandi dimensioni è comprensibile visto che sono proprio gli assembramenti il veicolo primo di contagio del virus, questo non giustifica la modalità aggressiva.

Gli effetti della vergogna

Gli psicologi sono scesi in campo sulla tematica, disincentivando tali comportamenti ed evidenziandone non solo gli effetti lesivi, ma anche inefficaci e controproducenti. Non è, infatti, inducendo la vergogna nella gente che si indurrà un cambio di comportamento. I bersagliati della gogna pubblica non solo non cambieranno idea a seguito dell’ondata di scherno sociale ma anzi potrebbero opporvi resistenza. La vergogna, a differenza di quanto si possa pensare, non è produttiva bensì controproducente. La psicologa June Tangney assume come, quando si vergognano, le persone tendono a diventare molto difensive, ad incolpare gli altri piuttosto che assumersi la responsabilità e riflettere sul possibile comportamento da cambiare. Di fatto nel far vergognare pubblicamente le persone, ancor più se non vi è relazione alcuna con queste, si incoraggia l’effetto contrario. A chiunque sia deciso a cambiare il comportamento di qualcun altro, la Dott.ssa Lindsey, direttrice del Behavioral Health Services at Legacy Health, raccomanda di approcciarvisi con la stessa premura e preoccupazione che si avrebbe nel vedere qualcuno poco coperto in pieno inverno. Evitando di farlo vergognare del suo stato, ma piuttosto cercando di aiutarlo o fargli comprendere il rischio in cui incorre. Del resto non è puntando il dito contro o assumendo un atteggiamento inquisitorio che si aiuterà il povero sprovveduto a non patire più il freddo. È bene ricordare che, incrementare l’ostilità in un ambiente già di per sé fragile e instabile, non fa altro che promuovere la norma dell’aggressione e dell’ostilità come tecnica di coping per fronteggiare la situazione stessa. E ricorrere a tali modalità non porta mai a nulla di costruttivo e duraturo.

In conclusione, che se ne abbiano valide ragioni o meno e pur nel mezzo di una pandemia globale, sta nell’umiliare, attaccare gratuitamente e minacciare qualcuno per un comportamento ritenuto improprio, la vera vergogna. Atto non solo sbagliato ma persino inutile; la vergogna non giova né all’accusato, né al giudicante: il primo non modificherà quel comportamento e il secondo non verrà ricompensato nel nome del senso civico e comunitario, semmai fossero quelle le ragioni. Alla luce di quanto visto finora, verrebbe piuttosto da pensare che non sia il senso di responsabilità e protezione verso la comunità a motivare tali reazioni, quanto il bisogno di avere un bersaglio contro cui scagliarsi e su cui riversare le proprie paure e frustrazioni. Il sentirsi autorizzati e legittimati ad odiare, e ancor peggio avere la serenità di esserne assolti, come del resto avveniva anche prima del Covid19.

 

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