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Nella terapia di coppia è utile partire dai sistemi di attaccamento dei partner per arrivare a intervenire sulla loro disconnessione emotiva

La terapia di coppia aiuta a comprendere come le modalità di relazione dipendano da schemi interpersonali formatisi nella storia di attaccamento dei partner

Di Anna Rossi

Pubblicato il 13 Feb. 2020

È importante per chi si occupa di terapia di coppia resistere alla tentazione di capire cosa sia realmente accaduto in quello specifico episodio, di stabilire chi dei due stia sbagliando o mentendo. Solo così il terapeuta potrà fare un passo più in là e accorgersi di come il vero problema stia altrove: nella disconnessione emotiva che si è creata tra i partner.

 

Il problema:

Lei: è un egoista incurabile, sta tutto il giorno a farsi gli affari suoi senza pensare ad altro
Lui: qualsiasi cosa io faccia non le sta mai bene, ha sempre qualcosa da ridire

Le richieste:

Lei: glielo spieghi che non è il centro del mondo, che esistono anche gli altri
Lui: glielo dica che si attacca a fesserie e che in fondo non le manca nulla per stare bene

La soluzione:

‘Dovremmo imparare a coltivare la giusta distanza, a stabilire un confine preciso tra i nostri spazi individuali e quelli comuni’
‘E’ importante accordarci su come dividerci responsabilità e incombenze in un modo che sia equo e non sempre a mio svantaggio’

Sono queste grosso modo le battute iniziali di una coppia che arriva in terapia. Questi i problemi che i partner portano alla mia attenzione, le lamentele che reciprocamente si rivolgono, le richieste che mi fanno, il modo in cui si spiegano il problema e le soluzioni che individuano. Dalle loro parole emerge con forza la necessità di identificare il vero colpevole di tutta quella sofferenza all’interno della relazione e di ricevere una lista dettagliata delle cose da fare e da dire per tornare a funzionare come coppia. In uno scenario che somiglia più a un’aula di tribunale che a una stanza di terapia, fatto di attacchi e contrattacchi, di silenzi e ritirate, di accuse e autoaccuse, è grande il pericolo, per i partner e per il terapeuta, di rimanere impantanati all’interno di un sistema competitivo. Più precisamente per i partner il rischio è quello di alimentare le stesse interazioni negative che li hanno portati ad allontanarsi sempre più l’uno dall’altro e di continuare a sperimentare sentimenti di incomprensione e risentimento. Per il terapeuta invece è quello di formulare il problema in termini di ‘lotta di potere’, limitando di conseguenza l’intervento alla promozione della cooperazione. In tal caso il terapeuta si impegnerà a fornire competenze per comunicare e negoziare meglio ma, così facendo, manterrà una visione performativa delle relazioni d’amore. I partner in seduta potranno imparare a parlarsi con più calma, a essere assertivi piuttosto che aggressivi o passivi, a fare ‘concessioni’ per andare incontro alle esigenze dell’altro. Potranno persino riuscire a fare tutto ciò al di fuori della stanza di terapia. Ma, alla fine dei conti, quello che nel migliore dei casi verrà a sostanziarsi sarà un compromesso in cui nessuno dei due si sentirà realmente soddisfatto e intimamente compreso. Un compromesso che rischierà di essere spazzato via alla successiva tempesta emotiva, nel momento in cui essi torneranno a sentirsi fragili, vulnerabili e dunque più bisognosi di armamenti e barricate.

È dunque importante per il terapeuta che lavora con le coppie resistere alla tentazione di capire cosa sia realmente accaduto in quello specifico episodio, di stabilire chi dei due stia sbagliando o mentendo, di riparare la rottura fornendo indicazioni su come gestire meglio le conflittualità. È solo astenendosi da tutto ciò che il terapeuta potrà fare un passo più in là e accorgersi di come il vero problema stia altrove: nella disconnessione emotiva che si è creata tra i partner (Johnson, 2004, 2008). La formulazione del problema e l’impostazione dell’intervento andranno allora a collocarsi all’interno del sistema di attaccamento, quello che più di ogni altro sistema interpersonale influenza la qualità delle relazioni d’amore e incide sul nostro benessere emotivo (Eisemberger, 2004; Coan, 2006). Un dispositivo, quello dell’attaccamento, che funziona allo stesso modo per uomini e donne e che necessita di interazioni intime e responsive piuttosto che corrette, efficaci e competenti (Gottman,1999). Il distacco emotivo, reale o percepito, del partner mette a dura prova il nostro senso di sicurezza e fa scattare nell’amigdala un segnale di allarme, quello che LeDoux (2003) definisce Paura Centrale, capace di determinare le nostre azioni in modo totalmente automatico e al di fuori del controllo della razionalità. In questo scenario, comportamenti esigenti e appiccicosi, o al contrario rivendicativi e aggressivi, assumono il valore di segnali di protesta più che di sottomissione o dominanza. Al contempo la distanza e il ritiro non rispondono tanto all’intenzione di ferire o invalidare l’altro, quanto piuttosto risultano essere tentativi di autoprotezione dalla sofferenza e dal senso di impotenza. Ovviamente la messa in atto dell’una o dell’altra strategia dipende dagli schemi interpersonali dei partner formatisi nel corso delle loro storie di attaccamento (Dimaggio et al., 2013; Dimaggio et al., 2019). Nel primo caso, ad esempio, la figura di attaccamento è vissuta come inaffidabile e trascurante, nel secondo invece come severa, umiliante e critica. In entrambi i casi però i desideri sottostanti sono gli stessi: ricevere accudimento e protezione, sentirsi compresi, amati e apprezzati per ciò che semplicemente si è. Tutti desideri che afferiscono a quel meccanismo di sopravvivenza innato che necessita di poter fare riferimento a una figura di attaccamento emotivamente accessibile (Bowlby, 1999-2000).

Il processo terapeutico richiede dunque che i partner entrino in contatto con i bisogni di attaccamento celati dietro proteste e silenzi dando voce a quelle parti di sé rinnegate. Affinché tutto ciò abbia un potere trasformativo, è al contempo necessario che tali bisogni e tali parti del Sé vengano integrati in interazioni relazionali capaci di favorire la connessione emotiva. È importante dunque che tutto ciò sia frutto di un processo che si svolga nel qui e ora dell’interazione, che presti attenzione all’emergere di emozioni inespresse e che utilizzi queste ultime come chiave per favorire l’insight. È noto infatti come la semplice consapevolezza dei propri e degli altrui meccanismi interni sia di per sé insufficiente a promuovere il cambiamento, se non accompagnata da un’esperienza emozionale correttiva. È questo quindi il nucleo centrale del lavoro con le coppie: mettere i partner nella condizione di individuare i propri bisogni di attaccamento, di esprimerli all’interno di quello stesso sistema e secondo quello specifico linguaggio capace di tradurre un ‘sei un egoista che pensa solo ai fatti suoi’ in ‘ho bisogno di sentire che ci sei per me’. Un passaggio fondamentale e anche molto difficile, il più gravoso per i partner cui è richiesto di ‘farsi vedere’ in una posizione di estrema vulnerabilità. Ma è solo parlando il linguaggio dell’attaccamento che essi possono risintonizzarsi emotivamente e, come naturale conseguenza, riuscire a negoziare le loro conflittualità con competenza (Johnson, 2004, 2008); possono sentirsi più sicuri, autonomi, rispettosi degli spazi dell’altro, propensi a esplorare nuove informazioni da integrare nei modelli di sé, dell’altro e del mondo (Mikulincer,1995), e a riflettere su di sé e sui propri stati mentali (Fonagy e Target, 1997). Tali esperienze emotive, oltre a dare vita a nuovi modelli di interazione e ad arricchire le rappresentazioni sé/altro di ulteriori significati e sfumature, facilitano l’emergere e il consolidarsi di parti sane del Sé (Dimaggio et al., 2013; Dimaggio et al., 2019). In un processo che è insieme intra e interpersonale, il compito del terapeuta si esplica a diversi livelli: consentire ai partner di identificare i cicli negativi in cui sono imprigionati, di leggere i loro comportamenti come reazioni a un bisogno di attaccamento frustrato, di rintracciare nelle strategie relazionali che sono soliti utilizzare modalità di coping disfunzionale che hanno origine nelle loro storie di vita, di creare un ambiente sicuro e validante in cui possano sentire che i loro bisogni di dipendenza sono sani, legittimi e non pericolosi, di guidarli verso esperienze emozionali correttive nelle quali quegli stessi bisogni possono trovare una adeguata risposta. Inoltre la modifica del contesto emozionale dove i partner si muovono ha ricadute sul modo in cui essi, come individui e non solo come coppia, organizzano la loro esperienza. Un lavoro quindi che vede sostanziarsi l’alleanza tra il terapeuta e la coppia nella sua globalità e che si rivolge, in clima pienamente collaborativo, a riconoscere, a elaborare e scardinare i cicli disfunzionali che governano le interazioni secondo una logica circolare e a esplorare nuovi territori relazionali e personali.

Diversamente da come la nostra cultura ci insegna e da come i pazienti spaventati che ci troviamo di fronte vorrebbero che fosse, il lavoro terapeutico con le coppie mette al centro del discorso il bisogno irrinunciabile di avere accanto una persona su cui poter pienamente contare e da cui sentirsi apprezzati. Non mira a realizzare una immaginaria autosufficienza, ma a trasformare una dipendenza inefficace in una dipendenza efficace, capace cioè di generare autonomia e autostima (Bretherton e Munholland, 1999). Chiedere a noi stessi di non aver bisogno di nessuno e di farcela da soli è un’ipoteca sulla nostra felicità: come già diceva Bowlby (1999), è solo sapendo di poter dipendere da qualcuno che possiamo diventare persone più forti, sicure e veramente libere.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bowlby, J. (1999). Attaccamento e perdita, Volume 1: Attaccamento. Bollati Boringhieri.
  • Bowlby, J. (2000). Attaccamento e perdita, Volume 2: Separazione. Bollati Boringhieri.
  • Bowlby, J. (2000). Attaccamento e perdita, Volume 3: Perdita. Bollati Boringhieri.
  • Bretheron, I., Munholland, K. A. (1999). Internal Working models in attachment relationships. In J. Cassidy & P. Shaver (Eds.), Handbook of attachment: Theory, research and clinical applications (pp. 89-111), Guilford Press.
  • Coan, J., Schaefer, H., Davidson, R. (2006). Lending a hand. Psychological Science, vol. 17, pp. 1-8.
  • Dimaggio, G., Montano, A., Popolo, R., Salvatore, G. (2013). Terapia metacognitiva interpersonale. Raffello Cortina.
  • Dimaggio, G., Ottavi, P., Popolo, R., Salvatore, G. (2019). Corpo, immaginazione e cambiamento. Raffaello Cortina Editore.
  • Eisenberger, N. I., Lieberman, M. D., Williams, K. D. (2004). Why rejection hurts: a common neural alarm system for physical and social pain. Trends in Cognitive Science, vol. 8, pp. 294-300.
  • Fonagy, P., Target, M. (1997). Attachment and reflective function: their role in self-organization. Development and Psychopathology, vol. 9, pp. 679-700.
  • Johnson, S. (2011).  Stringimi forte, Sette passi per una vita piena d’amore. Istituto di Scienze Cognitive Editore.
  • Johnson, S. (2013).  Creare relazioni. Manuale di Terapia di Coppia Focalizzata sulle Emozioni. Istituto di Scienze Cognitive Editore.
  • Ledoux, J. (2003). Il cervello emotivo: alle origini delle emozioni. Baldini Castoldi Dalai.
  • Mikulincer, M. (1995). Attachment style and the mental representation of self. Journal of Personality and Social Psychology, vol. 69, pp.1203-1215.
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