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Distanze ravvicinate – Nel film “Storia di un matrimonio” un’introspezione sulla distanza nel processo di separazione

Quando finisce un amore esiste una distanza giusta per voltare pagina senza naufragare in memorie del passato o recidere i ponti che ad esso ci legano?

Di Lorenzo Bertuzzi

Pubblicato il 31 Gen. 2020

Aggiornato il 25 Set. 2020 09:42

Storia di un matrimonio, il film vincitore del Leone d’oro a Venezia, come un’introspezione che pone la metafora spaziale della “distanza” al centro del processo di separazione.

 

C’è una scena, minuta e quasi insignificante, una manciata di fotogrammi piazzati dopo nemmeno un quarto d’ora dall’inizio del film, che forse basta a spiegare ogni cosa.

Nicole e Charlie hanno appena imboccato la via che li porterà verso la separazione e ancora lavorano nella stessa compagnia teatrale. Lui regista e lei prima attrice. Al termine di uno spettacolo si ritrovano, con l’intera comitiva, a brindare in un locale. Loro però sono cupi, assorti nei rispettivi dolori, inesorabilmente lontani. A un certo punto Charlie viene avvicinato da una collaboratrice, che Nicole già sospettava essere sua amante. Lei lo vede, si alza indispettita dalla sedia e fugge via. Charlie se ne accorge, scosta immediatamente l’altra e le si precipita dietro.

Quello che noi vediamo nell’inquadratura successiva è la scena in questione.

Loro due soli, immobili nel silenzio della metro che li porta a casa, poggiati l’uno di fronte all’altra, ai lati opposti della carrozza. I due corpi, stretti nella vicinanza inevitabile e desiderata del vagone, che eppure si sforzano di mantenere tra loro la massima distanza possibile. E restano così prigionieri in un gioco immobile di due movimenti contrari che impediscono loro di trovare la corretta misura.

Saranno 5 secondi o meno di pellicola, scarni, essenziali, privi di movimento o parole. Eppure questa è la scena che meglio di qualsiasi altra coglie e riassume il senso del film. Perché fondamentalmente Storia di un matrimonio è tutto qui: un’unica minuziosa, a tratti raffinata, ingarbugliata riflessione sulla distanza o, meglio ancora, sull’impossibilità della distanza per chi si ritrova alla fine di un rapporto d’amore.

In mezzo certo, sulla superficie, c’è molto altro. Ci sono il teatro e la televisione, c’è la bizzarra famiglia di Nicole, c’è un procedimento legale e c’è soprattutto Henry, l’unico figlio, intorno a cui sembra snodarsi lo sviluppo narrativo. Ma Henry, almeno dalla prospettiva scelta da Baumbach, non vive di luce propria, non è pienamente soggetto, ma ci appare più verosimilmente come uno strumento, un sofisticato artificio retorico che serve a cucire o a interporre nuove distanze tra Charlie e Nicole. Gli unici soggetti veri sulla scena sono loro e l’unico filo reale che lega il succedersi degli eventi è questa domanda: se sia mai possibile, per chi ha alle spalle una “storia di matrimonio” come la loro, raggiungere la distanza necessaria per poter continuare autonomamente ad esistere.

La questione non è affatto banale, anzi: è una domanda che ci coglie anche un po’ di sorpresa e a cui fatichiamo a trovare una risposta, forse troppo abituati a vedere, vivere o immaginare la fusione, il delirio psicotico di vicinanza che soggioga due persone quando inizia una storia d’amore.

Ma qual è invece la distanza giusta quando l’amore diventa memoria e una relazione importante si avvia alla sua conclusione?

L’altro ci resta dentro, in qualche modo, ma è una presenza che angoscia, indesiderata ed indigesta da sopportare, e noi restiamo spesso spaccati a metà, tra l’esigenza di chiudere qualcosa che ormai non ha più una prospettiva futura e il morso doloroso di una storia che continua, inevitabile, ad esistere. Perché la presenza dell’altro non affligge solo i ricordi, come ci vorrebbe comodo pensare, ma si radica e si infiltra nei nostri ragionamenti, nei nostri moti affettivi, arriva addirittura a distorcere la nostra percezione della realtà. Stare insieme a qualcuno, condividendo con lui un percorso di vita, è un’esperienza che rimodula l’esistenza e mina più di quanto siamo disposti ad accettare la nostra soggettività: Io mi sono talmente profuso nell’altro che quando esso mi viene a mancare non riesco più a riprendermi, a recuperarmi, sono perduto per sempre scriveva Barthes in “Frammenti di un discorso amoroso”. Ma come mi trasfondo in lui, alla stessa maniera lui si trasfonde in me, cosicché la barriera in parte illusoria dell’IO si disperde e noi ci ritroviamo ad essere un sistema aperto e confuso, due atomi che hanno intrecciato gli orbitali e ora non riescono più a distinguere di chi sia questo o quell’elettrone. Come ci spiega anche Nicole, nel pieno di uno dei suoi monologhi vagamente isterici, in cui il pensiero pare sbandare e deragliare fino a che non si posa, quasi sorpreso, su di una verità ineluttabile: “Ti rendi conto che alla fine, in una relazione, tutto è uguale a tutto”. Ovvero, non c’è più possibilità di discriminare tra momenti, attività, luoghi o emozioni, tra qualcosa che è mio o qualcosa che è tuo. Una relazione diventa un’entità a sé stante che abita due corpi assieme e che, quando finisce, ci mette di fronte alla dolorosissima prova di ri-scindere ciò che era mio da ciò era tuo, i tuoi pezzi finiti dentro di me e i miei pezzi finiti dentro di me.

Ed è proprio questa con-fusione a rendere così vivido e crudele il tema della distanza quando ci si separa. Perché distanza fisica e distanza interiore non possono coincidere e l’una deve necessariamente inseguire l’altra, in un movimento oscillatorio che avvicina e allontana e che ferisce nell’una e nell’altra direzione.

E in questa lotta per ripristinare l’equilibrio, non è facile assecondare la lentezza urticante delle spinte opposte, che ci costringe spesso a forzarne, in una direzione o nell’altra, l’evoluzione: così si può provare a “cancellare” l’altro, eliminando completamente la sua immagine esterna dalla nostra vita e diniegando a noi stessi ogni aspetto positivo del tempo trascorso insieme, per ritrovarsi a fare i conti soltanto con il lutto inconfessabile di ciò che di noi si è per sempre perduto – “Tu mi ha rovinato la vita”. Oppure si può, dall’altro versante, proteggersi dal vuoto restando eternamente agganciati, rifiutandosi di fare i conti con la separazione e preservando una relazione idealizzata e sotterranea, in cui tutto ciò che abbiamo di meglio rimane ancorato all’immagine dell’altro – “Come te, nessuno mai” – e in cui noi restiamo alla stessa maniera orfani di quanto ci sarebbe necessario per ristabilire dei solidi confini individuali.

Ma nel film questo non avviene. Perché Charlie e Nicole arrancano, annaspano, ma lottano disperatamente contro le tentazioni perverse di rifondersi o di uccidersi per sempre, e sono disposti a mettersi in croce pur di tentare di raggiungere la “distanza giusta” tanto invocata.

Se noi riscorriamo la pellicola, non potremo che notare quanto il tema ricorra in una miriade di forme: compare subito, nelle primissime scene, quando le discutibili tecniche del mediatore familiare tentano di “riavvicinare” i coniugi e riescono soltanto ad illudere noi di trovarci nel pieno di una febbrile, smielata e canonica storia di amore; ritorna nella crudele dicotomia New York-Los Angeles, antipodi d’America, e in quello spazio vuoto tra East e West Coast che Charlie percorre e ripercorre freneticamente, avvicinandosi ed allontanandosi senza mai riuscire a sentire sua, e quindi vicina, una città in cui ci si deve spostare con l’auto e non a piedi; ed ugualmente ricompare nella corsa agli armamenti legali, in cui Nicole e Charlie si prodigano per rintracciare gli avvocati più spietati nella speranza, già tradita, che la loro cavillosa ferocia potesse finalmente spezzare il vincolo che li teneva troppo vicini. Ma anche quando entrambi tentano la via del distacco e sembrano lì lì per cedere alla tentazione di cancellarsi, alla fine non riescono a mantenersi fedeli alla linea, e tornano immancabilmente a rimettere in scena le reliquie della loro storia. E sono così costretti a guardarsi con voglia, a sfiorarsi le labbra in un saluto, a indugiare su ogni smorfia significante dell’altro.

È interessante notare come non solo i frangenti drammatici, ma anche quelli volti a strapparci un sorriso attingano alla medesima fonte: pensiamo all’esaltazione improvvida della madre di Nicole che, appena saputo della separazione in atto e incurante dell’imbarazzo della figlia accanto, si getta al collo del genero al grido battagliero di “CharlieBello”; oppure agli scambi nelle prime uscite solitarie tra padre e figlio dove Henry, nella sua presunta e feroce innocenza, non fa che rimarcare a Charlie quanto la madre si stia allontanando da lui molto più di quanto egli immagini.

Queste scene ci fanno ridere proprio perché sapientemente vanno a raccogliere e lasciano riaffiorare quel filo sotterraneo che attraversa la narrazione. Emblematica in tal senso è una delle scene comiche più riuscite del film, quando Charlie disattende ogni dettame logico o razionale e decide di mostrare all’insondabile valutatrice il “gioco del taglierino” che fa tanto divertire Henry, finendo per sbagliare malamente le misure e squarciandosi il braccio di fronte a lei. Ancora una volta, l’essenza della commedia così come del dramma, è l’incapacità di tenersi alla giusta distanza.

Solo nella sottile letizia del finale, Baumbach pare volerci suggerire che all’estenuante contesa delle spinte contrapposte può esserci soluzione e che, anzi, forse è solo prestandosi a vivere in pieno e per intero la lentezza dolorosa di un gioco che “sembra” immobile, fuggendo le scorciatoie del diniego, che si può ripristinare un equilibrio tale per cui, alla fine di un amore, due persone siano in grado di riprendere realmente in mano le redini della propria esistenza. Un equilibrio che non potrà mai essere totale distacco e per cui occorrerà accettare l’impossibilità di sconnettersi completamente, perché la de-fusione è comunque un processo parziale, e ciò che è stato una volta unito porterà in eterno la memoria di quella unione: una parte dell’altro rimarrà invariabilmente intrappolata dentro di me, così come una parte di me sarà irrimediabilmente perduta nell’altro.

Eppure esiste, almeno come miraggio teorico, una distanza giusta, una misura corretta che non mette al riparo dalla sofferenza, ma che consente di proseguire in avanti la propria esistenza senza naufragare nelle memorie del passato o recidere i ponti che ad esso ci legano. Quella misura che infine Charlie e Nicole riescono a trovare e che consente loro di tornare a “toccarsi” senza sentire sgretolare il precario e rinnovato confine della loro individualità.

 

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