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Imparare a modulare le propria attività cerebrale? Oggi è possibile grazie al neurofeedback

Il neurofeedback consente di insegnare a modulare la propria attività cognitiva, osservando la rappresentazione di quest’ultima in tempo reale

Di Marco Dicugno

Pubblicato il 07 Nov. 2019

Roland Zhann e Jorge Moll hanno ideato uno studio sperimentale atto a valutare l’efficacia del neurofeedback nell’insegnare la modulazione della connettività tra due particolari aree cerebrali a soggetti con disturbo depressivo maggiore in remissione, e verificare di conseguenza eventuali effetti benefici dati dall’auto-modulazione.

 

Il neurofeedback è una procedura clinica nata dal biofeedback atta ad insegnare al soggetto che la utilizza l’automodulazione dei propri processi fisiologici o neurocognitivi.

Inizialmente si compievano solo misurazioni fisiologiche tramite il biofeedback: vengono applicati degli elettrodi sulla cute della persona, che ha di fronte a sé uno schermo raffigurante gli indici fisiologici, come temperatura corporea e tensione muscolare.

Grazie all’osservazione diretta dei propri livelli fisiologici, il soggetto ha la possibilità di trovare strategie atte ad agire sulla funzione presa in esame in quel momento, imparando così a modularla.

Con l’avvento del neurofeedback è possibile fare lo stesso osservando tuttavia le onde cerebrali tramite l’utilizzo di un elettroencefalogramma (EEG) e l’attivazione cerebrale tramite l’uso della risonanza magnetica funzionale (fMRI) (Sato et al., 2008).

Il neurofeedback è quindi una tecnica che consente di insegnare al soggetto come modulare la propria attività cognitiva, osservando la rappresentazione di quest’ultima in tempo reale.

In letteratura sono presenti molteplici studi che sottolineano gli effetti positivi su patologie mediche e psichiatriche date dall’utilizzo di queste tecniche; in particolare il biofeedback sembra essere efficace in patologie come emicrania, ipertensione essenziale, asma e ansia. L’efficacia di questo trattamento sta nella capacità dell’individuo di apprendere come agire su quegli indici fisiologici che favoriscono l’insorgere della patologia (Zhan et al., 2019).

Il corpo umano mette costantemente in atto meccanismi di autoregolazione in maniera automatica, senza che noi ce ne accorgiamo; questo processo è regolato dal nostro sistema neurovegetativo ed endocrino. Tuttavia non sempre la consapevolezza sulle nostre alterazioni fisiologiche è assente. Ad esempio, dopo uno sforzo fisico prolungato, si potrebbe percepire un aumento della propria frequenza cardiaca; una volta percepita siamo in grado di agire su di essa con varie strategie, per esempio concentrandoci sulla respirazione. Analogamente, tramite il biofeedback, è possibile imparare a modulare i livelli fisiologici di cui solitamente non percepiamo l’alterazione (Rao, 2008).

Il neurofeedback è stato sperimentato anche in capo psicopatologico: è noto in letteratura che quando i soggetti con una storia di disturbo depressivo maggiore (DDM) iniziano a fare esperienza di sentimenti come il senso di colpa, mostrano una connettività minore tra due particolari zone cerebrali, quali il lobo temporale destro anteriore (ATL) e l’area cingolata subgenuale anteriore (SCC); inoltre, stando alla teoria dell’impotenza appresa, la vulnerabilità al disturbo depressivo maggiore è data dalla tendenza a incolpare se stessi per un fallimento, con conseguente riduzione dei livelli di autostima (Abramson et al., 1978).

Partendo da questi presupposti teorici, Roland Zhann e Jorge Moll hanno ideato uno studio sperimentale atto a valutare l’efficacia del neurofeedback nell’insegnare ai partecipanti la modulazione della connettività tra la ATL e la SCC, e verificare di conseguenza eventuali effetti benefici dati dall’auto-modulazione.

Con il fine di verificare questa ipotesi, i due ricercatori hanno condotto uno studio sperimentale su un gruppo di 28 soggetti con un disturbo depressivo maggiore in remissione. Per condurre la sperimentazione, si sono avvalsi del neurofeedback tramite risonanza magnetica: questa tecnica consente di vedere la propria attività cerebrale in tempo reale. In particolare è stata mostrata ai soggetti la connessione tra le aree ATL e SCC; accanto all’immagine del proprio encefalo, veniva mostrato un termostato, rappresentante il livello di attivazione della connessione tra le due zone cerebrali prese in esame.

Prima di sottoporsi al neurofeedback, i soggetti dovevano pensare a un evento che evocasse loro senso di colpa, e associarlo a una parola; in seguito quest’ultima veniva mostrata in fase di sperimentazione mentre erano sottoposti al neurofeedback (Zhan et al., 2019).

Inizialmente, quando veniva elicitato il senso di colpa tramite lo stimolo visivo (la parola precedentemente associata all’emozione in questione), si osservava un calo della connettività tra la ATL e la SCC. A quel punto si chiedeva ai partecipanti di trovare delle strategie per aumentare la connettività tra queste due aree: il loro compito era quindi quello di cercare di aumentare la temperatura del termostato rappresentante la connettività tra le due zone cerebrali (più aumentava, più c’era connettività tra la ATL e la SCC, e di conseguenza meno senso di colpa). Per influenzarne i livelli i soggetti dovevano trovare delle strategie mentali che andassero ad agire su di esso, (pensando ad un immagine in particolare o concentrandosi su cosa provavano in quel momento ecc), ogni partecipante aveva carta bianca per quel che riguarda le strategie da adottare per aumentare la temperatura del termometro.

I risultati dello studio perso in esame mostrano che, tramite il neurofeedback, i soggetti possono imparare a modulare la connettività tra le zone cerebrali deputate al senso di colpa. Così facendo, imparano a gestire questa emozione e a evitare un calo della propria autostima, traendo così dei benefici per prevenire eventuali ricadute.

Le implicazioni di questo studio sono principalmente di tipo clinico, tuttavia i ricercatori sottolineano la necessità di ulteriori studi sperimentali prima di introdurre il neurofeedback come possibile terapia per il disturbo depressivo maggiore (Zhan et al., 2019)

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Abramson, L.Y., Seligman, M.E., Teasdale, J.D., (1978). Learned helplessness in humans: critique and reformulation. J. Abnorm. Psychol. 87, 49–74.
  • Rao, S. S. (2008). Dyssynergic defecation and biofeedback therapy. Gastroenterology clinics of North America, 37(3), 569-586.
  • Sato, J.R., Basilio, R., Paiva, F.F., Garrido, G.J., Bramati, I.E., Bado, P., Tovar-Moll, F.,Zahn, R., Moll, J., (2013). Real-time fMRI pattern decoding and neurofeedback using FRIEND: an FSL-integrated BCI toolbox. PLoS ONE 8, e81658.
  • Zahn, R., Weingartner, J. H., Basilio, R., Bado, P., Mattos, P., Sato, J. R., ... & Moll, J. (2019). Blame-rebalance fMRI neurofeedback in major depressive disorder: A randomised proof-of-concept trial. NeuroImage: Clinical, 24, 101992.
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