La valutazione del rischio di suicidio richiede flessibilità e costante adattabilità nelle prospettive durante il colloquio. Molteplici aspetti devono essere presi in considerazione per effettuare una valutazione del rischio di suicidio; se non si mantiene una veduta ad “ampio angolo” nel nostro esame, si corre il rischio di essere troppo concentrati su una visione parziale della propria esperienza, perdendo così la capacità di eseguire una valutazione valida
Un caso di suicidio costituisce un evento non diagnosticabile. Il primo ostacolo affrontato nella valutazione di un paziente suicidario consiste nel come definire adeguatamente il comportamento che stiamo per valutare. Per quanto possibile, il professionista deve mettere in atto misure che siano in grado di offrire al paziente il tempo necessario per la valutazione, senza interruzioni: per una valutazione del rischio, è importante assicurarsi che lo stato mentale e fisico del paziente sia compatibile con il colloquio che sta per intraprendere.
Il paziente suicidario
Negli ultimi anni, vi è stato un notevole dibattito sulla validità delle definizioni attuali, in particolare per quanto riguarda la nostra capacità di distinguere il comportamento suicidario dal comportamento di autolesionismo senza intento suicida (De Leo, D., et al., 2006; Silverman et al., 2007). In questo articolo il termine “suicidario” verrà utilizzato per descrivere qualsiasi comportamento o ideazione coinvolgano danno per sé, indipendentemente dal livello di intenzione di morire. La ragione è duplice. Da un lato, (Hawton et al., 2002), i motivi dietro comportamenti autolesivi e di ideazione suicidaria sono a volte così difficili da stabilire da non poter mai escludere a priori un’intenzionalità. (De Leo, D., 2011). L’altra considerazione da fare è che nonostante le molte differenze osservate tra gli individui con comportamenti autolesionistici, l’assenza di segnali di intenzionalità suicidaria non è sufficiente ad escludere la possibilità di una messa in atto di comportamento suicidario. Al contrario, la presenza di un comportamento autolesivo aumenta significativamente il rischio di suicidio nel corso della vita: in un recente studio di persone fisiche che si presentavano all’osservazione per tentativi suicidari, si è riscontrato che nei 4 anni successivi alla presentazione il tasso di suicidi portati a termine era 30 volte superiore a quello atteso nella popolazione generale (Cooper et al., 2005). Inoltre, i professionisti della salute mentale dovrebbero essere consapevoli della possibilità che negli individui si manifestino frequenti fluttuazioni di intenzionalità suicidaria che vanno dal desiderio di portare a termine il suicidio ad intervalli liberi da ogni ideazione suicidaria (De Leo, D., et al 2005; Milner, A., et al., 2010).
Dati epidemiologici
Per i paesi che riportano i dati di mortalità all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il tasso di suicidi è aumentato del 60% negli ultimi 45 anni (World Health Organization, 2005): il suicidio rappresenta una tra le prime dieci principali cause di morte per la fascia di età dai 15-34 anni (World Health Organization, 2005). I “Tentativi Suicidari” (Non-fatal suicidal behaviours) sono stimati essere fino a 20 volte più frequenti come il suicidio (De Leo, D., et al., 2005). I dati sull’incidenza dell’ideazione suicidaria sono sfortunatamente non affidabili: in un recente studio si è rilevato che fino al 25% degli intervistati ha riferito di aver contemplato l’ideazione suicidaria nel corso della vita, arrivando addirittura alla pianificazione dell’atto ed inoltre, nel medesimo studio, tra il 0,4% e il 4,2% degli intervistati ha riportato almeno un tentativo di suicidio nel corso della loro vita (Bertolote, JM., et al.,2005).
Fattori di rischio
Nel valutare il rischio suicidario, si comprende che alcune delle variabili osservate durante l’intervista sono fuori dal nostro controllo. Per esempio, ci sono una serie di variabili demografiche che hanno una forte correlazione con il suicidio: una tra le più significative risulta essere il genere. Sebbene il genere femminile abbia maggiori probabilità di giungere all’osservazione per un tentativo di suicidio, il genere maschile presenta una maggiore incidenza di suicidi portati a compimento, in un rapporto di 3-4 uomini per ogni donna (De Leo, D., et al., 2002). Queste differenze sembrano essere costanti nel tempo e, a parte per pochissime eccezioni, coerenti tra culture (De Leo, D., et al., 2002): un “paradosso di genere” sembra essere quello secondo cui gli uomini sembrerebbero scegliere metodi più letali, sono più propensi a manifestare comportamenti impulsivi, ad abusare di sostanze e inoltre, gli uomini risultano meno inclini alla richiesta di aiuto (Milner, A., et al., 2010; Brent, D.A. et al., 1996). Tra i dati demografici, l’età è una variabile significativa della valutazione del rischio: i tassi di suicidio aumentano con l’età, fino a raggiungere il livello di 50/100.000 negli anziani di sesso maschile. Il tasso di suicidio per la donna mostra un graduale aumento con l’età, il primo picco di tasso di suicidio negli uomini è nell’età adulta mediana, che poi mostra un calo marginale fino al drammatico aumento per il gruppo 75+ (World Health Organization, 2002).
Lo stato civile è un altro fattore importante da esaminare con attenzione, anche se, a causa di barriere nella raccolta dei dati, sembra essere stato meno studiato degli altri fattori di rischio discussi finora. Nonostante questo, ci sono prove sufficienti per suggerire un legame tra stato della relazione e comportamento suicidario: la ricerca sostiene una correlazione positiva tra suicidalità e l’essere single, una correlazione che appare più forte se si considerano condizioni come il divorzio e soprattutto la separazione (Wyder, M.,et al., 2009; Kolves, K.,et al., 2011). Uno studio ha riscontrato che gli uomini separati hanno circa sei volte più probabilità di morire per suicidio rispetto alla loro controparte coniugale (Cantor,C.H., et al., 1995). L’impatto di essere single o separati su tassi di suicidio è per gli uomini di gran lunga superiore che per le donne (Wyder, M.,et al., 2009). E’ stato suggerito che nelle donne l’effetto di essere single o separate è mitigata dal ruolo protettivo della genitorialità che è stato riscontrato essere più forte nei soggetti di sesso femminile (Quin,P., et al., 2002). Inoltre, le donne generalmente beneficiano maggiormente dei social network rispetto agli uomini, e questo offrirebbe un supporto emotivo ed opportunità per nuovi rapporti (Kolves, K.,et al., 2011). Oltre alle caratteristiche demografiche, il rischio di suicidio sembra anche essere influenzato dal patrimonio genetico. Ad esempio, è stato osservato che il rischio di suicidio in individui con storia familiare di suicidio è due volte più grande rispetto alla popolazione generale, indipendentemente dalla presenza di gravi malattie mentali (Runeson, B.,et al., 2003). In secondo luogo, il miglioramento dei modelli di genetica ha permesso di confermare che gli individui adottati che portano un suicidio a compimento hanno maggiori probabilità di avere una storia familiare di suicidio tra i loro parenti biologici: anche in questo caso, l’impatto della predisposizione genetica era indipendente da disturbi psichiatrici comunemente associati a un suicidio (Roy,A.,et al., 2006). Lo scopo di questo articolo è discutere tutti i possibili fattori di rischio legati ad un aumento della probabilità di suicidio negli individui.La valutazione del rischio di suicidio richiede flessibilità e costante adattabilità nelle prospettive durante il colloquio. Molteplici aspetti devono essere presi in considerazione per effettuare una valutazione del rischio di suicidio; se non si mantiene una veduta ad “ampio angolo” nel nostro esame, si corre il rischio di essere troppo concentrati su una visione parziale della propria esperienza, perdendo così la capacità di eseguire una valutazione valida. Dopo aver esaminato l’incidenza di alcune delle variabili biologiche e demografiche sul livello di rischio, veniamo ora ad esaminare, probabilmente il gruppo più significativo di rischio ovvero gli aspetti clinici che non possono essere ignorati.
Una storia di tentativi di suicidio, di ideazione suicidaria o di ricovero in ospedale per un grave disturbo mentale espone in modo significativo gli individui ad un aumentato rischio di comportamento suicidario. Numerose ricerche confermano l’entità dell’impatto che questi fattori hanno sulla capacità di prevedere il comportamento futuro: circa il 5% delle persone che hanno tentato il suicidio l’hanno poi portato a compimento entro 10 anni (Gibb, S.J.,e al., 2006). Costituisce un fattore di rischio non solo uno storico di tentativi di suicidio, ma anche la storia passata di ideazione suicidaria (Beck, A.T.,et al., 1999). Una storia di ideazione suicidaria è il migliore predittore di comportamenti suicidari futuri rispetto al livello di ideazione suicidaria al momento della valutazione, con odds ratio di 13,85 vs 5.42. Una grande attenzione è stata anche focalizzata sul rapporto tra ricovero e rischio di suicidio: nel corso degli ultimi 30 anni uno spostamento significativo sulla relazione cure ospedaliere/ricoveri (Johannessen, H.A.,et al.,2009) e diversi studi hanno stabilito una chiara relazione tra suicidio e alcuni aspetti del trattamento ospedaliero. Il rischio suicidario è più elevato nei primi giorni dopo il ricovero in ospedale rispetto ai giorni successivi. In secondo luogo, il rischio suicidario aumenta insieme al numero di ricoveri in una struttura ospedaliera (Hoyer,E.H., et al.,2004; Quin, P.,et al., 2005). Siamo abituati a pensare che il trattamento ospedaliero rappresenti il modo migliore per evitare il suicidio quando si è in presenza di individui considerati ad alto rischio. Purtroppo, in molte occasioni l’ambiente ospedaliero è inadeguato a sostenere il paziente suicidario, la stigmatizzazione dell’ospedalizzazione psichiatrica spesso ostacola il processo di recupero. Il risultato è che, in alcuni casi, la persona suicida percepisce la prospettiva di un ricovero ospedaliero come “ultima spiaggia” quando in realtà il ricovero dovrebbe essere sempre considerato come uno delle componenti di un piano di gestione, e non come un modo semplice per prevenire il suicidio o accelerare il processo di guarigione (De Leo, D., et al 2007).
Fattori di rischio modificabili
Gli individui che presentano ideazione suicidaria hanno maggiori probabilità di portare a termine il suicidio indipendentemente dalla natura e dalla gravità del disturbo mentale di cui soffrono (Beck, A.T., et al., 1999). Molto spesso gli individui percepiscono quei pensieri come causa di angoscia. Un’esplorazione attenta dell’ideazione suicidaria dei pazienti necessita di notevoli capacità ed esperienza, in particolare con specifiche popolazioni, ovvero gli anziani e gli adolescenti. È importante sottolineare che l’esplorazione dell’ideazione suicidaria non aumenta il rischio di suicidio dei pazienti: in realtà, spesso i pazienti trovano conforto nell’essere in grado di discutere dei loro conflitti ed i loro pensieri autodistruttivi. Nella valutazione del livello di ideazione dei pazienti, è essenziale indagare sulla presenza di intenti di agire su quei pensieri e ancor più sulla pianificazione che consenta ai pazienti di compiere l’atto. Inoltre, è responsabilità del professionista quella di esplorare la disponibilità del paziente di mezzi letali per portare a termine l’atto suicidario e garantire che siano prese misure per limitarne l’accesso: più dettagliata è la pianificazione suicidaria, maggiore è il rischio di suicidio. Tuttavia, è anche importante considerare che, in molti casi, gli individui che hanno un alto livello di intenti possono essere riluttanti a rivelare qualsiasi informazione che potrebbe portare all’ostacolo della loro pianificazione. Di tutti i fattori di rischio suicidario considerati finora, i ricercatori hanno identificato il disturbo mentale come il più significativo. Oltre il 90% degli individui che portano a compimento il suicidio presenta almeno un disturbo mentale: la depressione è il disturbo più comunemente riportato (almeno nel 30% dei casi). Sono frequenti anche i disturbi da abuso di sostanze (17,6%), così come la schizofrenia (14,1%), e disturbi della personalità (13,0%) [Wasserman, D., et al., 2001]. Il rischio di suicidio nel corso della vita in seguito a malattie psichiatriche come la depressione, la schizofrenia e l’abuso di alcol è segnalato essere circa il 5 – 15% (Wasserman, D., et al., 2001). E’ inoltre importante considerare che, anche se un numero significativo di persone che muoiono per suicidio non ha mai avuto alcun contatto terapeutico, tra il 40% e il 60% è giunto all’osservazione nel mese precedente il suicidio (World Health Organization, 2000). Soprattutto nel mondo occidentale, la relazione tra rischio di suicidio e disturbo mentale è così forte che nessuna strategia di prevenzione avrebbe avuto successo senza un trattamento efficace del disturbo presente in quei soggetti (Bertolote, J.M. et al., 2003; De Leo, D., et al., 2009).
Fattori protettivi
Alcuni studi hanno evidenziato come alcuni fattori ad esempio responsabilità familiare e sulla prole, la religiosità ed il sostegno sociale possano avere un impatto positivo sui tassi di suicidio (De Leo, D., et al., 2003). Un questionario, The Reason of Living Inventory, è stato trovato utile nella pratica clinica per documentare la presenza di fattori di prevenzione (Linehan, M.M., et al., 1983). Tra i fattori protettivi esplorati dai ricercatori nel corso degli anni, l’alleanza terapeutica è probabilmente uno dei più rilevanti (Hendin, H., et al., 2006). Indipendentemente dalla natura del trattamento offerto, il colloquio con un individuo a rischio di comportamento suicidario richiede che il professionista costruisca un rapporto di fiducia e di cooperazione. È solo quando si stabilisce un sufficiente rispetto reciproco che l’esperienza del paziente può essere completamente esplorata e può essere effettuata una valutazione affidabile: l’empatia è uno degli strumenti più potenti che si possano utilizzare nella cura degli individui a rischio di un suicidio. Tuttavia, può essere difficile mantenere un livello sufficiente di empatia quando gli sforzi terapeutici sono in contrasto con la necessità di garantire la sicurezza dei pazienti [Jacobs, D., et al., 1989].
Integrazione delle informazioni
Non esiste uno strumento in grado di prevedere in modo affidabile il rischio di suicidio. L’unica certezza è che tutti i professionisti sono tenuti ad effettuare una valutazione del rischio indipendentemente da quali siano le circostanze che hanno portato alla valutazione (Simon, R.I. et al., 2002). Per facilitare un colloquio efficace, abbiamo bisogno di fornire un ambiente sicuro e confortevole. In realtà, il modo in cui viene effettuato il colloquio avrà un impatto significativo sul risultato. Un ambiente idoneo dovrebbe garantire che le informazioni riservate ed emotivamente sensibili possano essere comodamente comunicate al professionista senza il rischio di distrazione o di intimidazione. Oltre alle informazioni derivanti dal colloquio con la persona a rischio di suicidio, si potrebbe beneficiare della disponibilità delle informazioni divulgate dal partner o dal coniuge, dai parenti o dagli amici. Nonostante questo, altrettanto spesso non riusciamo ad ottenere le informazioni: esempi comuni sono pazienti che hanno volutamente nascosto i loro intenti e le loro pianificazioni suicidarie, o coloro che sono affetti da disturbi mentali così gravi da non essere in grado di esprimere le proprie ideazioni in modo comprensibile. C’è ancora un altro importante compito che i professionisti devono padroneggiare nella pratica moderna, che è quello di documentare le informazioni raccolte in modo approfondito: è essenziale per un professionista avere informazioni sufficienti raccolte in una cartella clinica in caso di controversia o di controllo (Simon,R.I. et al., 2004).