Quante volte nel corso della nostra vita ci siamo trovati a scegliere un regalo, a dedicare tempo agli altri e a essere compiaciuti nell’immaginare la felicità dell’altro di fronte al nostro dono.
Adorno scrive che
la vera felicità del dono è tutta nell’immaginazione della felicità del destinatario: e ciò significa scegliere, impiegare tempo, uscire dai propri binari, pensare l’altro come un soggetto..
In sostanza, donare, per dirla con Mauss, vuol dire creare una relazione con l’altro.
Nel famoso saggio Essai sur le don (1922), egli sostiene che il dono nelle società arcaiche e primitive rappresenterebbe lo scambio, libero e non costrittivo, attraverso il quale si creerebbero le relazioni non solo tra singoli individui ma dell’intera società. Lo scambio di doni inteso come l’alternarsi tra il dare e il ricevere, senza la stipula di nessun contratto di tipo economico e commerciale, porta alla nascita delle relazioni sociali e al mantenimento del sistema sociale.
Il dono tra i pastori sardi della parradura
A tal proposito, voglio portare ad esempio una pratica tipica delle comunità della Sardegna definita paraddura che era una modalità solidale con cui i pastori facevano fronte a situazioni di emergenza. Nel momento in cui un gregge era colpito da un’epidemia o qualsiasi altro evento distruttivo non dipendente dalla volontà del proprietario, tutti gli altri pastori donavano, allo sfortunato pastore, una pecora giovane in modo che si potesse ricostituire il gregge. Tale gesto era effettuato nella speranza e nella fiducia che l’incolpevole pastore in casi simili si comportasse allo stesso modo.
Paolo Carboni ne “Il tema del dono nella letteratura di viaggio e nella demologia sulla Sardegna tra Ottocento e Novecento” riporta la descrizione della paraddura di Padre Bresciani, un viaggiatore che visitò la Sardegna nell’800:
Voi dovete sapere che nelle Marghine, nel Goceano, nella Barbagia e nella Gallura, luoghi ov’ha molti pastori di vacche, di pecore e di montoni, incontrano alcuni accidenti che disertano i bestiami; siccome una larga caduta di neve in sui monti, o una pestilenza, od altre sciagure. La onde alcuna volta interviene che un pastore agiato di molti capi di bestie perde a mano a mano la mandria, e cade in povertà. Il che suol accadere alcuna volta anche per liti domestiche, per avidità de procuratori, per crudeltà degli avversari, per vendetta di qualche nimico, e per rapina di ladroni. Ed ecco il pover’uomo con molta famiglia di figliuoli venuto nell’inopia, e non aver luogo d’uscirne, ove il lodato animo e generoso de suoi consorti, amici e conoscenti non gli afferissero via di ristorare la scaduta fortuna. Veduto il loro paesano in quello stremo, s’adunano a consiglio i buoni uomini del contorno, e discorrono i modi di sovvenirle. Indi, convenuti fra loro in sul partito da usare, chiamano il pastore tapino, e consolatolo di buone parole, e bevuto un tratto alla sua salute, ciascuno gli presenta in dono una vitella del suo armento, e pregandogli da Dio ogni buona ventura, il rimandano colla novella torma raccogliticcia alle sue capanne. Di che il poverello del pastore, donde poverissimo partito s’era il mattino, ritorna se non ricco, almeno bastevolmente fornito di venti e sin trenta capi di bestie. Intanto il pastore, fatto miglior massaio, procura il suo gregge con ogni sollecitudine, e d’anno in anno, favorendolo Iddio, accresce la sua mandria per guisa da tornare alla prima agiatezza. Né egli professa altr’obbligo ai donatori, che quello d’esser presto, ov’altri cada in bisogno, di porgere quel ristoro ch’ei ricevette dall’altrui liberalità.
Non vi è dubbio che il dono dei pastori sardi non era solo un gesto di solidarietà ma serviva anche a mantenere in equilibrio il sistema economico e sociale. Il pastore che si trovava senza gregge doveva pur sfamare la famiglia e, quindi, poteva prendere strade diverse come quella di rubare il bestiame.
Una comunità si fonda sui legami e, per dirla con Cigoli, nel mondo di questi ultimi vi è un triangolo sacro che a che fare con fiducia, speranza, giustizia. Sono i tre elementi presenti nella paraddura: la speranza e la fiducia che il gesto sia ricompensato alla prossima occasione; l’eticità del gesto sia sul versante economico sia su quello sociale (giustizia).
Il dono nelle società primitive amerinde
Se il dono crea legami, vuol dire che cura l’incontro con l’altro che non è necessariamente un tu ma l’intera collettività. Mauss, sulla base degli studi svolti presso alcune società primitive amerinde della costa nord-occidentale del pacifico degli Stati Uniti e del Canada, osservò che queste tribù (Haida, i Tlingit, i Tsimshian, i Salish, i Nuu-chah-nulth e i Kwakiutl) praticavano una cerimonia rituale chiamata potlach. Tale cerimonia consisteva in un banchetto a base di carne di foca o di salmone in cui erano distrutti i beni considerati effimeri mostrando così la potenza alle tribù ospitate che, a loro volta, erano costrette a eseguire lo stesso comportamento nel momento in cui organizzavano loro il potlach. Inoltre, durante la cerimonia avvenivano molti scambi di doni che spesso erano distrutti nel momento stesso in cui erano donati, come ci informa F. Boas nei suoi studi sugli indiani Kwakiutl (1987). Il potlach, comunque, non serviva esclusivamente a mostrare la propria potenza economica alle altre tribù ma anche ad affermare la posizione gerarchica dei vari membri che attraverso la distruzione di beni considerevoli mostravano il loro rango. Era, infatti, una sorta di gara al fine di mostrare il proprio valore economico. Ciò che colpisce in questa pratica è che la propria potenza economica o rango sociale non è mostrata attraverso l’accumulo di beni e possedimenti, come avviene nelle società occidentali fondate sulla legge di mercato, ma attraverso ciò che Mauss definisce l’economia del dono. Infatti, la caratteristica principale del potlach è la distruzione dei beni, mentre nelle moderne società capitalistiche e fondate sulle economie di mercato è il mostrare i beni e i possedimenti. Pensiamo per un attimo alla griffe di moda o ai gioielli con cui si accompagnano le signore a ogni uscita pubblica e, ancora, alla cura con cui si scelgono gli abiti delle migliori sartorie. In sostanza nel potlach si deve dare per mostrare la propria potenza, nelle società postmoderne e capitalistiche, al contrario, si deve accumulare.
Il dono e il donare come dare-ricevere-ricambiare
Prima di Mauss, Malinowski nel suo famoso saggio “Gli Argonauti del Pacifico Occidentale” (1922) descrive un cerimoniale di scambio di doni simbolici da parte degli abitanti delle isole Trobiand. Essi percorrevano migliaia di chilometri in canoa per scambiarsi collane di conchiglie rosse e braccialetti di conchiglie bianche. Il rituale prevedeva dei giri a cerchio per cui quelli provenienti da nord portavano collane e quelli provenienti da sud braccialetti, in modo che lo scambio era sempre di una collana per un braccialetto e viceversa. I due oggetti secondo la tradizione locale erano impregnati di significati magici e avevano una forte influenza sugli spiriti del mare e delle spiagge. Lo scambio di doni produceva sul piano strettamente pratico, anche se non voglio tralasciare il potere magico del dono, lo stabilirsi di un rapporto di fiducia reciproca attraverso la quale avveniva anche uno scambio di prodotti materiali come indumenti, cibo e altro ancora.
Per andare a giorni più vicini a noi, si fa per dire, anche Cristoforo Colombo o gli altri conquistatori del nuovo mondo portavano dei doni per creare dei legami amicali con le popolazioni indigene.
Gli studi di Mauss, infatti, hanno come scopo la ricerca dei principi su cui si fondano le società e lo individua nella pratica del dono che è in grado di realizzare una relazione libera e obbligatoria nello stesso tempo.
Egli sostiene che il dono contiene tre caratteristiche fondamentali: “dare, ricevere, ricambiare” e mostra come i tre fondamenti del dono fossero essenzialmente obbligatori all’interno delle comunità primitive da lui studiate. Si deve “dare” per mostrare la propria potenza, la propria ricchezza; si è nell’obbligo di “ricevere”, cioè non si può rifiutare il dono, pena la scomunica della comunità e il disonore; si deve “ricambiare”, cioè restituire alla pari o accrescendo ciò che si è ricevuto: restituire meno di ciò che si è ricevuto, è un’offesa al donatore.
Il dono comporta un dare e un ricevere ed anche un contraccambiare che è già insito nella stessa etimologia del termine.
Il dono e il donare: l’etimologia del termine
Stefania De Donatis (2005), riprendendo Benveniste (1971), fa rilevare che nelle lingue indoeuropee il significato di «dare» è espresso dalla radice dô. In seguito, uno studio sul verbo ittita «dâ», che avrebbe significato di «prendere» e non quello di «dare», ha generato un po’ di confusione in merito a questa delicata quanto interessantissima questione linguistica: quale tra questi due verbi doveva essere l’originale? Prendendo in considerazione il termine stesso di «dono», è possibile notare che questo, pur mantenendo in generale la radice «dô», si differenzia in forme nominali che acquistano significato variabile secondo il contesto. Queste sono: dôs, dósis, dôron, dôreá, dôtínê, cinque parole tra loro distinte, ma tutte uniformemente traducibili con «dono, regalo».
La prima, dôs, è il modo più semplice di esprimere il dono, l’idea del dono, cioè, nella sua forma più astratta: «donare è bene, sottrarre è male» si legge in Esiodo. Dósis è, invece, l’atto del donare suscettibile di attuarsi in dono, è il dono in potenza, è il dono promesso in anticipo come ricompensa di un atto di audacia. È possibile scorgere in questo caso l’indiretto riferimento a entrambi i significati della radice verbale dôs: infatti, perché si possa rendere concreto il dono promesso (affinché si possa dare), deve essere esaudita la condizione di partenza, si deve, cioè, ricevere qualcosa in cambio (si deve poter prendere). Dôron e dôreá presi insieme, indicano, il primo, il dono materiale, il dono stesso, il secondo, il fatto di portare, di destinare in dono, l’azione di donare che si dispiega in forma gratuita e senza obbligo di ricambiare. Dôtínê, infine, indica il dono che obbliga a un controdono; la dôtínê ha lo scopo di provocare un dono in cambio, qualcosa che compensi un dono precedente. Tale nozione consiste, dunque, nell’attualizzazione dell’idea di reciprocità, di rapporto, di scambio, nella circolazione di doni che ricambiano e che chiedono d’essere ricambiati. La parola dôtínê, più delle altre, ha chiaro nel suo significato il concetto di scambio reciproco esplicitato sotto forma di patti, alleanze, amicizie, ospitalità.
Il dono e la sua forza magica
Un’altra caratteristica insita nel dono e individuata da Mauss è il mana. In sostanza egli sostiene che il dono è dotato di un forte potere magico nello stabilire la relazione con l’altro o gli altri. Il termine mana è di origine malenisiana e in generale è tradotto come “forza sovrannaturale”, “potere spirituale”, “efficacia simbolica” e può essere tradotto con “forza vitale”. Nelle hawaii il termine mana assume il significato di “forza che viene da dentro”.
Mircea Eliade (7) (1948), nel suo “Trattato di Storia delle Religioni” sostiene che il mana è insito nella corporeità delle cose: per l’uomo arcaico un oggetto animato o inanimato che sia nel momento in cui si manifesta è dotato di una sua forza vitale. Il dono ha una sua forza vitale che gli dà il potere di stabilire il legame con l’altro.
Questa forza magica insita nel dono ci darà in appresso la possibilità di parlare del legame e del mito che spesso è stato analizzato e vissuto come potere sovrannaturale e magico.