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Il rito per celebrare un ritorno

Rito e ritualità sanciscono da sempre momenti importanti per una comunità che condivide valori. Ne servirebbe uno per celebreare i ritorni

Di Roberto Petrini

Pubblicato il 28 Mar. 2019

Aggiornato il 15 Giu. 2021 15:43

La nostra cultura è ricca di riti di penitenza e di espiazione della colpa ma povera di cerimonie che celebrano la gioia della vita, della guarigione e del ritorno, manca un rito che festeggi il reinserimento sociale del malato, che ne celebri il rientro in comunità.

 

Il rito nasce per dare un senso e un significato agli eventi più importanti del nostro vivere, ai nostri compiti evolutivi.

Il linguaggio simbolico del rito consente il contenimento delle emozioni e la ristrutturazione del senso che l’evento stesso contiene.

La cerimonia rituale convoglia esperienze ed emozioni all’interno di una cornice di senso.

Rito: i significati per una comunità

Al rito è presente tutta la comunità che condivide gli stessi valori, il momento è solenne e induce un’intensa attivazione emotiva, che a sua volta conferisce importanza e potenza al rito.

A volte accade che i riti di tipo religioso, diventino delle cerimonie formali, dove si ripetono meccanicamente gesti e parole; diviene così un evento che non ha la forza di generare un cambiamento. La partecipazione al cerimoniale religioso è sempre più scarsa nelle nuove generazioni, i riti sembrano non essere più in sintonia con i cambiamenti storici che si sono verificati negli ultimi anni; eppure c’è un grande bisogno di partecipazione, di sentirsi parte di un tutto che dia un senso e un significato.

Durante il medio evo, in bilico tra santità e dannazione c’era la figura del “folle di dio”, poteva essere semplicemente un malato mentale in difficoltà e quindi emarginato dalla sua comunità o una persona che aveva scelto l’isolamento e la povertà per avvicinarsi a dio. Il “santo folle” poteva quindi riferire dei contenuti deliranti ma anche, protetto dalla sua condizione di alienato, dare voce al pensiero della collettività con delle verità, era temuto ma anche ascoltato. Molto raramente il folle di dio rientrava nella sua comunità di appartenenza come accade oggi dopo un percorso di diagnosi, cura e riabilitazione.

Rito nell’antichità

Il cristianesimo negli anni ha sviluppato una diffusa ritualità della colpa (confessione, penitenza, espiazione) ma pochi riti di partecipazione alla sofferenza altrui e cerimonie di solidarietà. C’è una mancanza di riti che celebrano la gioia del sentirsi vivi grazie all’altro, che ne celebrano la guarigione, il ritorno, il rientro.

Occorre ritrovare un rito che sancisca formalmente il momento di ricongiunzione alla comunità, dopo un lungo periodo di malattia o allontanamento. Uno spazio e un tempo dove la compassione sociale si componga in una cerimonia partecipata, dove il malato, il sofferente, il recluso, è riaccolto e si ricongiunge con la sua comunità.

Nella cura antica il principale agente terapeutico era il rito, molto spesso la cerimonia di guarigione era una ripetizione, sotto forma di recitazione drammatica, del trauma iniziale. Un esempio di trattamento collettivo dove la comunità tutta si adopera per la cura di un loro membro, è narrata da un missionario gesuita, padre Raguenau che descrive la “festa dei sogni” presso gli indiani dell’America nordorientale:

Gli Uroni facevano distinzione fra tre cause di malattia: cause naturali, stregoneria, desideri insoddisfatti. Dei desideri insoddisfatti alcuni erano noti altri no ma potevano essere rivelati in sogno. Tali sogni tuttavia potevano venire poi dimenticati; inoltre c’erano dei desideri che non si rivelavano neppure in sogno. Alcuni Divinatori erano capaci di determinare quali fossero questi desideri inconsci; quando c’erano possibilità di guarigione i divinatori solevano enumerare gli oggetti che si supponeva fossero desiderati dal paziente e si organizzava una “festa dei sogni”. Si faceva una raccolta fra le tribù e gli oggetti raccolti venivano dati al paziente nel corso di un banchetto che comprendeva danze e altre manifestazioni pubbliche di allegria. Non si parlava di restituire tali oggetti al donatore, in questo modo, non solo il paziente guariva dal male con tutti i desideri esauditi, ma talvolta diventava anche ricco. D’altra parte, alcuni dei donatori potevano divenire a loro volta malati e sognare di ricevere qualche compenso per la perdita. Una festa dei sogni era quindi una combinazione di terapia, allegria pubblica e scambi di proprietà (Ellenberger, Henry F., 1970 – La scoperta dell’inconscio)

I riti primitivi erano anche delle terapie da bellezza, grazie ai canti e ai costumi, erano altresì manifestazioni pubbliche di gioia dove ci si aspettava che la persona rientrasse al suo posto, accolto da questa certezza.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Ellenberger, Henry F. (1970) La scoperta dell’inconscio. Stati Uniti d’America: Bollati Boringhieri
  • Widman, C. (2007) Il rito: in psicologia, in patologia, in terapia. Magi editore
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