Lo studio del comportamento animale può fornire modelli che un ricercatore può rendere operativi su un sistema robotico, partendo dalla capacità più semplice di un organismo vivente: percepire e agire nell’ambiente in maniera significativa e intenzionale (Coraggio, 2007). La semplicità/complessità del design del robot, la semplicità/complessità del comportamento espressivo del robot è legata alla proprietà antropomorfa biomimetica (Koh, 2009), ovvero molti dei robot attualmente costruiti sono bio-ispirati, sono esempi naturali, per tale motivo tendiamo a percepirli come umani.
[blockquote style=”1″]…la nostra immaginazione non può che antromorfizzare…[/blockquote]
Italo Calvino (Lezioni americane, 1988)
L’antropomorfizzazione
Alcune ricerche sulla comunicazione dimostrano che le persone antropomorfizzano computer e altri oggetti, e che tale antropomorfismo interagisce con la natura del comportamento dei partecipanti durante gli esperimenti (Reeves, Nass, 1996).
Una teoria di Gray (2012), ha recentemente ipotizzato perché i robot umanoidi possono apparire strani e sostiene che le caratteristiche umanoidi richiederebbero agli utenti di percepire che il robot abbia una mente.
L’antropomorfismo si riferisce all’attribuzione di una forma umana o di caratteristiche umane o di un comportamento umano attribuito a cose non umane, quali robot, computer e animali (Bartneck et al., 2009).
Nella mia tesi analizzo questo punto cruciale dell’interazione uomo-robot (HRI):
«Le ricerche suggeriscono che l’interazione con un’entità artificiale è simile all’interazione con gli altri umani anche se l’intera ricerca che gravita attorno l’HRI mira a superare l’ipotesi dell’uncanney valley, ovvero quel senso di spiacevolezza e inquietudine nel momento in cui il robot raggiunge un livello di somiglianza paritetica all’uomo.
Nelle attuali ricerche, la radice di tale ipotesi non è stata indagata; l’uncanney valley sarebbe riconducibile ad aspetti prettamente evoluzionistici e letture freudiane.
Il richiamo alla componente evoluzionistica si riferisce ad un automatismo primordiale al quale l’uomo si attiene durante l’interazione con un umanoide artificiale; è come se ci fosse una lettura coerente tra l’aspetto umanoide e le sue abilità interne e come se, violata tale coerenza, si cadesse nell’ipotesi dell’uncanney valley. (Fonte: La teoria della mente nell’interazione uomo-robot in una prospettiva evoluzionistica e in relazione alla teoria della complessità).
L’ipotesi dell’uncanney valley
La “teoria valle perturbante” (uncanney valley) proposta da Mori (1970) suggerisce una relazione non lineare tra l’antropomorfismo robotico e le affinità umane.
Ishiguro (2005) sviluppa androidi che per un breve periodo sono indistinguibili dagli esseri umani. I suoi androidi antropomorfi che lottano persistentemente con la cosiddetta uncanny valley generano risposte emotive sempre più positive ed empatiche, fino a raggiungere un punto oltre il quale la risposta diventa rapidamente di intensa repulsione (Burghart et al., 2008).
In linea con questo, i robot che hanno un aspetto chiaramente non umano, sembrano essere apprezzati di più rispetto a quelli che cercano di apparire simili alla figura umana (Bartneck, 2007). Per tale motivo molti robot costruiti odiernamente non hanno un aspetto speculare alle caratteristiche umane.
Quando un robot sembra umano, ma non si comporta in modo simile all’uomo, questo vìola le aspettative e può portare a sorpresa o paura (Mitchell, et al., 2011; MacDorman, 2006).
L’HRI sotto la lente psicoanalitica
[blockquote style=”1″]Non c’è un vedere che non sia anche un guardare, né un sentire che non sia anche un ascoltare; e il modo in cui guardiamo e ascoltiamo è plasmato dalle nostre attese, dalla nostra posizione e dalle nostre intenzioni[/blockquote] Woodworth (1947).
Secondo un’indagine freudiana (Freud, 1919) questo mistero dell’interazione tra uomo e robot proviene da uno stato di categorizzazione percettiva di incertezza in connessione con “umano o non umano”, “animato o inanimato”, “vivo o morto” dove ne scaturiscono giudizi percettivi necessari a produrre reazioni perturbanti come nel caso di statue, bambole e automi simili a umani.
In questa connessione può verificarsi un effetto inquietante anche se l’oggetto percepito è definitivamente verificato essere una statua di cera inanimata, come nel caso dei bambini che sperimentano incertezze sul fatto che la bambola con cui stanno giocando possa animare ipso facto lo sviluppo di sentimenti inquietanti.
Questo è legato a credenze primitive che sono concezioni animistiche che caratterizzano il mondo approvato dai bambini in una fase normale del loro sviluppo e che persistono inconsciamente nella vita adulta come contenuti mentali repressi.
Le credenze animistiche riguardano in particolare la magia, il desiderio di adempiere, l’onnipotenza dei pensieri e la distribuzione di poteri magici su vari personaggi, su entità animate e non inanimate. Così, la vista di statue di cera o in movimento o automi simili a zombi o cadaveri sembrano corroborare la convinzione inconscia che queste entità siano dotate di poteri magici. Inoltre, l’ambivalenza emotiva verso questi artefatti, risuona con credenze animistiche che possono evocare internamente l’idea che i morti non saranno inevitabilmente benevoli nell’uso dei loro poteri magici (Scalzone, 2013).
Altresì queste attribuzioni eccessivamente umane mettono in moto le proprie attività immaginative nei confronti del robot in una varietà di direzioni diverse. Di conseguenza, conflitti tra esseri umani e macchine intelligenti sono prima di tutto i conflitti tra esseri umani e il loro mondo interiore (ibidem).