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Vite non vissute. Esperienze in Psicoanalisi – Recensione del libro

Vite non vissute è un libro di Ogden che avvicina il lettore al lavoro doloroso e trasformativo di alcune condizioni limitanti dell’esistenza umana.

Di Angela Niro

Pubblicato il 29 Nov. 2017

Vite non vissute. Esperienze in Psicoanalisi ” scritto da Thomas Ogden, psicoanalista particolarmente noto per i suoi contributi nel panorama psicoanalitico contemporaneo, è un libro che invita alla conquista della crescita psicologica. Puntando sulla forza coinvolgente del linguaggio, evocata dal fondersi dell’abilità artistica e del sapere psicoanalitico, avvicina il lettore al lavoro doloroso e trasformativo di alcune condizioni limitanti dell’esistenza umana che chiama “ vite non vissute ”.

 

Vite non vissute: un nuovo approccio psicoanalitico

Il testo, sin dalle prime pagine, offre uno spazio per pensare in modo critico, guardare con la propria lente ai contenuti che propone, scoprirsi attivo in una conversazione che non ha la pretesa di indicare un modo esatto di procedere, ma propone un modo altro di guardare. In esso, il lavoro psicoanalitico più vivo, più autentico e irripetibile con ciascun paziente corrisponde a una lingua unica, creata “con e per il paziente” e riconoscibile già dai suoni, dalla struttura, dal ritmo e dal contenuto della conversazione; queste caratteristiche, che la distinguono da tutte le altre, non potrebbero appartenere a nessun’altra conversazione ed essere perfette per nessun’altra persona.

È proprio nella direzione del nuovo orizzonte conoscitivo psicoanalitico, più interessato a comprendere il modo del pensare, piuttosto che il suo contenuto, il luogo in cui Ogden conduce il lettore, anticipando il suo itinerario. Selezionando almeno tre forme di pensiero, il pensiero magico, onirico e trasformativo, cui dedica nel testo un’attenzione speciale, mette in guardia dalla possibilità di riconoscerli in una loro forma pura e ne semplifica la comprensione con l’aiuto dell’esperienza clinica generosamente condivisa. Attraverso quest’ultima, apre scenari in cui la realtà è costruita e distrutta con un movimento improduttivo e costante, in cui la maturazione psicologica avviene attraverso la presenza di un altro con cui “sognare davvero”, in cui diviene possibile la riorganizzazione della propria esperienza in un modo prima inimmaginabile.

Il lavoro con e per il paziente con quella vita che non ha vissuto consiste dunque nella “intuizione” di una realtà psichica troppo dolorosa da poter essere tollerata da solo e che ha la funzione di riconsegnare al paziente la responsabilità del suo dolore, di recuperare una parte di sé viva e sentirsi finalmente completo. Il modo attraverso cui il lavoro analitico consente questo passaggio non è molto diverso da quello in cui sogniamo, in cui è riconoscibile una maggiore realtà dell’individuo verso se stesso e quindi una sua maggiore abilità di intuire più aspetti della propria vita inconscia.

Ciò che diventa tollerabile rispetto al pensiero impensabile è più grande della somma delle capacità dei singoli sistemi di personalità individuali. I due o più creano un terzo soggetto inconscio in grado di pensare quello che nessuno, da solo, sarebbe in grado di pensare e rielaborare in modo trasformativo” (Ogden, 2016, p.173).

È quindi quello stato paradossale di “unisono e separatezza” a rendere possibile una trasformazione.

La maturazione e il cambiamento dell’individuo e del professionista

La maturazione e l’alterità, oggetti della lunga e profondissima riflessione che compie su se stesso, come individuo e come professionista, attraversano l’intero testo e si presentano al giovane analista come un invito ad abbracciare il cambiamento e a raggiungere l’autoconsapevolezza di sé. A questo proposito afferma: ”Il cambiamento è l’unica costante negli stati psicologici” (Ogden, 2016, p.160).

Crescere professionalmente e come individuo richiede un’altra considerazione, quella secondo cui oltre al valore delle esperienze personali, è possibile comunque riconoscere degli aspetti rilevanti comuni a più professionisti. Ogden ce ne dà una dimostrazione, in questo capitolo, impegnandosi a condividere con il lettore pensieri ed esperienze, frutto del lavoro con il co-autore Gabbard.

Nello specifico, secondo gli autori, non può essere trascurata l’importanza della dimensione “interpersonale e solitaria” attraverso cui la maturazione avviene, il sogno come fonte di apprendimento, la relazione tra ciò che è possibile produrre dal nulla e ciò che invece può essere trasformato dall’eredità emotiva, il limite e la risposta al bisogno del paziente, la conclusione dell’autoanalisi come inizio di un lavoro anche solitario su se stessi.

In questo processo evolutivo Ogden attribuisce alla scrittura un valore estremamente significativo e lo fa con un dono prezioso, una lettura psicoanalitica molto interessante dei contributi di Kafka e Borges. Rispettivamente, del primo mette in luce un uso capace di comunicare verità emotive impensabili che avrebbero diversamente avuto la possibilità di distruggerlo, del secondo la scoperta del coesistere di ciò che lo inquieta e gli dà piacere. In questo dono mi piace riconoscere una speranza per se stesso di ciò che dice degli autori di cui si fa interprete: “[…] loro mi hanno visto in un modo nel quale io non mi ero ancora visto, e io ho letto il loro lavoro in un modo nel quale non erano ancora stati visti. È in questo senso che creo i miei progenitori, che mi creano a loro volta quando leggo i loro lavori” (Ogden, 2016, p.165).

Un’intervista che percorre la storia personale e professionale di Ogden nel libro Vite non vissute

Per la conclusione del testo, sfruttando lo stile dell’intervista, Ogden propone al lettore di percorrere un pezzo di strada con lui, nella sua storia personale e professionale, facendolo partecipare alla sua conversazione con Luca di Donna, psicoanalista a sua volta in veste di intervistatore.
Dal suo avvicinamento in tenera età alla psicoanalisi, passando per il modo in cui la sua produzione letteraria è sempre stata influenzata dall’idea che “sono necessarie sempre due persone per pensare” e dall’importanza del linguaggio come “veicolo per creare pensieri e sentimenti”, Ogden ci porta a scoprire qual è per lui l’essenza della psicoanalisi e il modo in cui intende alcuni tra i principali concetti. La natura della psicoanalisi non può prescindere dall’umanità e a tal proposito la sua riflessione prosegue anche verso le implicazioni di un’analisi disumana.

La sua scrittura in quest’ultima parte del testo si fa incredibilmente chiara e intima, quando dell’analista afferma: “[…] non è una persona che pratica la psicoanalisi, l’analista è una persona che porta la sua sensibilità analitica, la sua formazione e la sua esperienza nel lavoro con i pazienti” (Ogden, 2016, p.172); ancor prima rispetto a ciò che accade in quella stanza tra psicoanalista e paziente sostiene: ” Ciò che è mutativo, credo, è l’esperienza di una persona nel contesto dell’essere con un’altra persona che ti riconosce come la persona che sei e la persona che sei in procinto di divenire” (Ogden, 2016, p.171). Si comprende dunque benissimo, il valore che Ogden attribuisce all’unicità affinché, secondo la sua idea, il lavoro psicoanalitico “funzioni”.

Per concludere, la prospettiva di vivificare il lavoro analitico, costruendo una lingua “straniera” personale, riecheggia nel testo come un percorso lungo e costellato da numerose trasformazioni, da preziosi lavori con tante vite non vissute e con le vite non vissute personali, anche da fallimenti, da passioni attraverso cui comprendersi e ricrearsi, un lasciarsi condurre verso l’indefinito, verso il nuovo, con il coraggio di mettersi in gioco senza copioni nella relazione con l’altro con la propria umanità e competenza.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Ogden, T. (2016). Vite non vissute. Esperienze in psicoanalisi. Milano: Raffaello Cortina.
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