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Il corso sull’ansia al Beck Institute di Filadelfia

Il report di State of Mind dal workshop sul trattamento dell'ansia del Beck Institute di Philadelphia. Docente Amy Wenzel, supervisione di Aaron T. Beck

Di Giovanni Maria Ruggiero, Guest

Pubblicato il 08 Mar. 2017

Il core anxiety workshop fa parte della serie di corsi forniti dal Beck Institute di Filadelfia, l’Istituto dove Aaron Beck, sua figlia Judith e altri membri del loro staff insegnano la terapia cognitivo-comportamentale da decenni. Partecipare è stata un’occasione di aggiornamento e di verifica. La conoscenza delle basi fondamentali non va data per scontata, anzi rischia di deteriorarsi con il tempo facendosi sostituire da idiosincrasie personali. Con questo spirito abbiamo partecipato al corso sull’ansia del Beck Institute.

Giovanni Maria Ruggiero e Diego Sarracino

 

È durata tre giorni pieni dalle 9.00 alle 16.00, in cui la principale didatta era Amy Wenzel. Anzi, quasi l’unica. Non ha insegnato per sole due ore nel pomeriggio del secondo giorno dove è stata sostituita da Aaron Beck in persona, vecchio e fisicamente debole –la sua voce era sottile- ma lucido e presentissimo. Al suo fianco c’era Judith Beck, ma il suo aiuto si riduceva a ripetere le parole pronunciate a voce troppo bassa. Per due ore Beck ha risposto a domande libere dei presenti e poi ha supervisionato un collega.

Judith & Aaron Beck

Di Beck parleremo dopo. Per ora descriviamo il training, ottimamente condotto da Amy Wenzel, efficiente e chiara. Rispetto al training della terapia cognitiva dell’Istituto di Albert Ellis, si confermano somiglianze e differenze. Anche la terapia di Beck si concentra sui pensieri e li considera come chiave per il cambiamento. Però li analizza e li tratta in maniera diversa.

La tecnica di Beck è meno concentrata sulla situazione specifica e sui pensieri momentanei e più su scenari ricorrenti e legati ai sintomi: le situazioni pubbliche per l’ansia sociale, le condizioni di vulnerabilità per il panico, la contaminazione e i dubbi per il disturbo ossessivo. L’individuazione dei pensieri automatici obbedisce alla regola di cercare le previsioni negative dannose: se parlo in pubblico non sarò preso sul serio, se sono su un mezzo di trasporto avrò un attacco di panico, se ho il dubbio di aver lasciato la porta aperta allora devo controllare, e così via.

Un tempo la teoria di Beck era focalizzata solo su questi pensieri. I nostri disturbi emotivi dipendono da pensieri errati che interpretano male la realtà prevedendo rischi che non esistono. Mi butteranno fuori dalla festa (ansia sociale), morirò d’infarto (panico) o mi ammalerò (disturbo ossessivo).

Con il tempo Beck si rese conto che i fatti temuti dai pazienti erano più soggettivi, più attinenti alla visione di sé: ho l’ansia (o la depressione) perché sono timido, fragile, inferiore, sporco e contaminato, abbandonato e non amato. E altro ancora. È la self-efficacy teorizzata e studiata da Bandura che è deficitaria in questi soggetti.

Tuttavia, pur avendo introdotto questo aspetto soggettivo sul sé, Beck -rispetto a Ellis e ai costruttivisti- rimane un autore che da meno peso alla soggettività del paziente. Anche la visione di sé negativa generata dagli errori di pensiero ha un suo aspetto oggettivo: mi vedo male perché mi vedo poco efficace, non in grado di incidere sulla realtà. Non si tratta di un giudizio, ma di una constatazione intenzionalmente oggettiva, seppure errata.

La terapia diventa un paziente lavoro di raccolta delle prove a favore e contro di questo pensiero negativo. Perché ti ritieni poco adatto alle situazioni sociali? Come definisci una serata fallita? Raccontami cosa hai fatto, con chi hai parlato e se davvero nessuno aveva voglia di interagire con te. E poi, con quanta gente hai tentato a tua volta di relazionarti, di parlare?

Tutto questo condotto con estrema calma. Una terapia del genere, tutta focalizzata sulle prove di fatto (che probabilità ci sono di aver lasciato il rubinetto aperto? E di poter in tal modo allagare l’appartamento?) può sembrare estremamente razionalistica e distanziante. E lo è. Lo stile di Beck e dei suoi allievi però è, al contrario, paziente e validante. Il terapista non sfida mai il paziente, semmai lo incoraggia con un lento lavorio, insistente ma cortese e capace di fermarsi quando necessario, di incoraggiamento all’uso di un pensiero razionale.

L’analisi termina con la descrizione di un quadro realistico dei rischi temuti dal paziente, quadro che è poi confrontato con lo scenario peggiore e con quello migliore, sempre con l’ottimistica fiducia che quello migliore risulterà quello più vicino a quello realistico. Il tutto condotto con un sereno e quieto ottimismo, ottimismo che si può definire la nota caratterizzante della relazione terapeutica secondo Beck.

Abilità relazionale che però è definita da Beck e dai suoi seguaci con un termine meno pomposo di quello di “relazione”, ovvero semplicemente good-practice. La buona pratica, le abilità di base che dovrebbero essere acquisite in partenza e non essere concepite come una sorta di coronamento di un complesso percorso di iniziazione alle terapie più sofisticate e complesse.

 

Esposizione comportamentale e gestione della seduta secondo Beck

Conclusa la ristrutturazione cognitiva, si procede all’esposizione comportamentale a cui è stata dedicata un’intera giornata e che è stata davvero spiegata in maniera esauriente. Ogni esercizio specifico per il singolo disturbo è stato descritto con abbondanza di particolari. Forse è stata la componente più istruttiva del corso.

Accanto alla componente comportamentale è stata formativa anche la parte dedicata alla gestione della seduta. Una serie di accorgimenti e trucchi che rendono possibile l’esecuzione di quei protocolli che sono la dannazione del terapista medio. La costruzione del modello psicopatologico e del piano terapeutico, la sua condivisione esplicita con il paziente a ogni seduta, la valutazione dei progressi a ogni seduta: tutto questo consente al terapista di stare nei binari del protocollo senza fare violenza al paziente, anzi condividendo in maniera realmente e non astrattamente cooperativa il lavoro.

Aaron T. Beck supervisione sul paziente difficile - Il corso sull’ansia al Beck Institute di Filadelfia
Un “paziente difficile”: supervisione con Aaron Beck

Naturalmente le obiezioni sono molte, a iniziare da quella classica sul cosiddetto paziente difficile. E questo è stato proprio il tema della supervisione con Beck. Un collega ha portato un paziente difficile, colui che respinge ogni tentativo di ristrutturazione e ogni invito all’esposizione comportamentale. Beck lo ha trattato richiamandosi agli obiettivi del contratto terapeutico e, con la sua imperturbabile pazienza, lo ha invitato a pensare se davvero ritenesse impossibile intervenire volontariamente sui sintomi. Infatti generalmente la difficoltà con questi pazienti è la loro convinzione che gli stati emotivi siano incontrollabili e quindi impermeabile alla ristrutturazione cognitiva.

La risposta di Beck è in fondo metacognitiva: da dove nasce questa convinzione? E questa convinzione ti aiuta ad affrontare in maniera proattiva i sintomi? Una volta motivato il paziente a contrastare i suoi sintomi, Beck lo incoraggia a tenere maggiormente in mente gli obiettivi della terapia e la possibilità di cambiare e perseguire il processo di cura.

 

Foto di gruppo al Beck Institute di Philadelphia - Il corso sull’ansia al Beck Institute di Filadelfia
Core Anxiety Workshop 2017 – The Beck Institute
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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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