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Salute e carcere: le condizioni di salute dei carcerati – Un convegno di studi a Palermo

Il 18 marzo a Palermo si è tenuto un convegno sulle condizioni di salute sia fisiche che psicologiche dei carcerati e sulle possibilità di rieducazione.

Di Angela Ganci

Pubblicato il 29 Mar. 2017

Con lo scopo di inquadrare le “condizioni di salute” delle carceri italiane, operatori della giustizia, avvocati e testimoni diretti dell’esperienza carceraria si sono riuniti lo scorso 18 marzo a Palermo in un dibattito dal titolo suggestivo “Diritti-sicurezza-rieducazione. Quale lo stato di salute delle carceri italiane?” che ha affrontato temi spinosi, quali il sovraffollamento e l’efficacia delle misure riparative, proponendo interventi mirati in un’ottica di miglioramento.

 

Privazione della libertà e autonomia limitata: quali effetti hanno sui carcerati?

La privazione della libertà personale è una condizione costrittiva che genera una vasta gamma di sintomi di natura fisica (problemi cardiovascolari e metabolici, fino a malattie contagiose come la tubercolosi) e psicologica, che probabilmente rappresentano gli esiti più subdoli e devastanti della carcerazione.

Sintomi che la letteratura sull’argomento ascrive al rapporto con un’identità in cambiamento, con un “prima” sempre più lontano, paragonato a un “adesso” cristallizzato, spesso caratterizzato dal drastico scemare dell’autonomia, in un rapporto di dipendenza quasi totale dall’istituzione carceraria.

Un’autonomia limitata certamente da spazi angusti e dalle molteplici restrizioni dovute a chiare esigenze di sicurezza sociale, e resa ancora più problematica dalla mancata attivazione di esperienze produttive/professionali che contrastino sensazioni di inutilità, vuoto e disimpegno. Da qui l’invasione del male di vivere e delle patologie tipiche collegate (depressione, irritabilità, apatia, deterioramento della personalità, distacco dalla realtà, suicidio). Una cornice teorica che sembra lasciare poco spazio all’ottimismo, e che risulta utile confrontare con la concretezza della realtà carceraria, così da rilevare l’attuale livello di salute detentiva e tutela dei diritti inviolabili della persona, in particolare sotto gli aspetti della vivibilità degli spazi e del senso di autoefficacia, quest’ultimo esito primario di fattive occasioni di recupero sociale.

 

Il convegno a Palermo sulla salute dei carcerati

Con lo scopo di inquadrare le “condizioni di salute” delle carceri italiane operatori della giustizia, avvocati e testimoni diretti dell’esperienza carceraria si sono riuniti lo scorso 18 marzo a Palermo in un dibattito dal titolo suggestivo “Diritti-sicurezza-rieducazione. Quale lo stato di salute delle carceri italiane?” che ha affrontato temi spinosi, quali il sovraffollamento e l’efficacia delle misure riparative, proponendo interventi mirati in un’ottica di miglioramento.

Lo Stato deve garantire il diritto alla salute, all’istruzione e al lavoro, finalizzati al recupero e alla risocializzazione poiché solo in questa maniera il detenuto potrà mettersi in pari con la societàapre i lavori l’avvocato Antonietta Cocchiara – Tuttavia bisogna tristemente constatare che tali diritti basilari non sono garantiti dalle attuali istituzioni carcerarie. Parlando di sovraffollamento i numeri sono chiari: a fronte di una capienza regolamentare di 49.000 posti, nel 2016 le carceri italiane contavano più di 54.000 unità e tale fatto, unito alla carenza di esperienze costruttive, porta il 90% dei detenuti alla recidiva”.

Questo seminario nasce dall’esigenza di mantenere sempre attuale il problema del sovraffollamento. Un problema che viola apertamente l’articolo 27 della Costituzione secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e che ha costretto l’Italia a pagare ingenti somme alla Corte europea per il limite minimo non rispettato di 3 metri quadrati di spazio vitale che spetta a ogni detenuto. Consideriamo che già la privazione della libertà, la segregazione in una cella, è la pena in se stessa: non è pertanto ammissibile fare scontare tale pena ai limiti della sopravvivenza, con le strutture che mancano delle cose essenziali – commenta Silvano Bartolomei, responsabile dell’Associazione Diritti Umani Contro Tutte Le Violenze di Palermo e organizzatore del convegno – Il problema è allarmante: stiamo parlando di quattro o cinque detenuti in tre metri quadrati con il rischio non trascurabile di arrivare ad atti di autolesionismo o al suicidio vero e proprio”.

Un problema scottante quello degli spazi di vivibilità e del sovraffollamento da contrastare con precise misure giuridiche. “Un elemento di criticità è sicuramente il fatto che le carceri sono strutture di sfiducia, già a livello architettonico. Esistono pochi spazi fruibili, con una sorveglianza talmente serrata da limitare le possibilità di libertà all’aperto – denuncia il Prof. Fiandaca, Garante dei diritti dei detenuti della regione Sicilia – Ecco che quando la delimitazione degli spazi vitali si traduce in condizioni di vita irrispettose dei detenuti e del diritto alla salute (mancanza di acqua calda, docce, bagni ubicati negli stessi spazi in cui il detenuto vive) la sensazione di disperazione e annullamento del sé è immediata; peraltro le stesse proposte rieducative, a compensazione talvolta di tali difficoltà, risultano di difficile attuazione per tutti i detenuti, a fronte del loro numero elevato. Parliamo di condizioni di sopravvivenza durissime, che significa essere costretti a vivere, per ciascun detenuto, in non più di 3 metri quadri di spazio, situazione che è valsa all’Italia la condanna per la violazione dei diritti umani e che sempre più si contrasterebbe riducendo il ricorso al carcere almeno per i reati meno gravi. In alcuni casi il carcere non è davvero necessario e ritengo che si debba aumentare il ricorso alle misure alternative, organizzate in attività lavorative in favore della comunità”.

Rispetto per la salute e per la dignità umana, un nervo scoperto nel sistema delle carceri italiane, anche se non l’unico: il destino delle misure rieducative, in direzione della garanzia dei basilari diritti di istruzione e lavoro, sembra infatti non essere differente. “È da rilevare che in carcere non ci sono molte possibilità rieducative, ciò vale per il lavoro, da considerarsi un deterrente rispetto alla delinquenza perché se insegni un mestiere è più difficile diventare manodopera della delinquenza, come spesso avviene per gli immigrati – riprende Bartolomei – Ecco perché ritengo necessario incentivare il volontariato nelle carceri e aumentare il personale, innanzitutto psicologi e psichiatri. In più i detenuti meno pericolosi potrebbero essere stimolati a seguire corsi, ad esempio come cuoco ed elettricista. Eppure il lavoro non basta nell’ottica di garantire quella salute utile al corretto reinserimento sociale: dobbiamo altresì garantire ai detenuti la continuità affettiva. Esemplificando non puoi inviare un detenuto a Brescia se la famiglia vive a Palermo perché esistono esigenze sanitarie ed esigenze lavorative, ma non meno importanti risultano le esigenze familiari per una corretta risocializzazione”.

Parere amaro, crudo, infine quello proveniente dall’esperienza più che trentennale della dottoressa Rita Barbera, direttore dell’istituto di rieducazione Ucciardone di Palermo, il cui intervento illustra la realtà del penitenziario palermitano. “La realtà carceraria porta inevitabilmente alla frustrazione del detenuto. Frustrazione significa non veder considerati l’autonomia e le esigenze basilari. Frustrazione significa dover chiamare per ogni necessità o vedersi negato un colloquio familiare. Ecco perché secondo me il carcere, per come è stato finora, non può essere un luogo di rieducazione, al punto che potrei definire la risocializzazione una menzogna istituzionale. Non ha senso peraltro trattenere in carcere persone per reati minori quali contraffazione o alimenti non versati, fenomeno che aumenta solo il sovraffollamento e la disperazione di chi è recluso. Per tale organizzazione e le inadeguatezze di tipo sanitario e territoriale gli esiti della carcerazione spesso si sostanziano in disturbi a carattere psichiatrico a lungo termine non sempre risolvibili”.

E se, da ciò che emerge, non sembrano totalmente tramontati gli anni della pena afflittiva, di quel carcere che “sanziona e punisce”, la speranza è che l’umanità alberghi pienamente in chi dovrebbe riabilitare chi l’umanità l’ha persa (o non l’ha mai acquisita nel processo di sviluppo). E insieme a questo aspetto quasi scontato va un ulteriore monito, affinché l’occhio saggio della giustizia non abbandoni le vittime, troppo spesso lasciate a se stesse, con il rischio di fomentare una rabbia collettiva e un accanimento punitivo verso il carnefice che, da una parte, non restituiscono alla vittima ciò che a questa è stato tolto con crudeltà e che, dall’altro deumanizzano il soggetto che si intende rieducare, vanificando gli sforzi di una pena non afflittiva e pienamente umanizzante.

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Angela Ganci
Angela Ganci

Psicologia & Psicoterapeuta, Ricercatrice, Giornalista Pubblicista.

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