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L’Employer Branding nel processo selettivo: perché è importante lavorare nella mia azienda

Con Employer Branding ci si riferisce ad azioni compiute dalle aziende per costruirsi un'immagine accattivante che attragga futuri lavoratori e talenti

Di Guest

Pubblicato il 06 Lug. 2016

Uno sguardo al processo di creazione di un’immagine aziendale che possa aiutare alla ricerca dei migliori candidati da assumere, attraverso il concetto di Employer Branding: un insieme di azioni intraprese dalle aziende per costruire intorno a sé un’immagine accattivante e positiva che possa attrarre i futuri lavoratori.

Andrea Caputo

 

Ci sono tanti motivi per i quali un individuo sceglie l’azienda alla quale fare domanda di lavoro: retribuzione, vicinanza geografica, tipo di impiego offerto… Certo, ci sono molti casi in cui non si può scegliere, nei quali il posto migliore è quello in cui ti assumono.

Ma, anche in quest’ultima circostanza, se per assurdo due diverse aziende fossero disposte ad assumermi e fossero equivalenti in quanto a paga, qualità del lavoro, tipo di impiego e collocazione geografica, quale sceglierei? Presumibilmente la più prestigiosa! È qui che rientra il concetto di Employer Branding, un insieme di azioni intraprese dalle aziende per costruire intorno a sé un’immagine accattivante e positiva che possa attrarre i futuri lavoratori.

 

Cosa si intende per Employer Branding

‘Il termine Employer Brand è stato coniato da Ambler e Barrow nel 1996′ e si riferisce all’ ‘insieme di benefici funzionali, economici e psicologici garantiti dall’impiego e identificati con l’azienda’.

Secondo questi autori, i benefici funzionali sono le attività che l’employer (datore di lavoro) offre all’employee (impiegato) per poter mostrare e sviluppare le proprie abilità; i benefici economici si riferiscono, ovviamente, all’aspetto retributivo; mentre i benefici psicologici si riferiscono al senso di appartenenza che gli impiegati provano nei confronti del proprio datore di lavoro.

Di fronte a questo scenario, dunque, appare chiaro come il processo selettivo possa essere inteso anche come il risultato di azioni che l’azienda ha portato avanti ancor prima di arrivare ad esso. Queste azioni riguardano per l’appunto la costruzione della propria immagine legata al brand, affinché risulti accattivante e positiva ai futuri candidati. La creazione di una immagine è utile all’azienda, in quanto può rappresentare una prima opzione di filtraggio (screening) dei candidati che si propongono per occupare una posizione all’interno dell’organizzazione rimasta vacante (vacanza). Infatti, si presuppone che parte dei candidati che fanno domanda di assunzione in un’azienda sia quella formata da quelle persone che credono nell’azienda, ovvero che la sentono vicina alle proprie aspettative, qualità e ambizioni. In questo modo, l’organizzazione avvicina a sé i candidati con caratteristiche a lei ideali, utili alla propria causa, scoraggiando, di conseguenza, quelli che invece non hanno delle caratteristiche in linea con l’immagine del brand.

 

Attrazione e ritenzione dei talenti

Ogni azienda punta a trovare gli impiegati migliori, i cosiddetti talenti. Molto spesso il talento può essere riscontrato all’interno delle competenze dell’individuo (skills). Per skills si intende molto spesso competenze di carattere tecnico, utili perciò a svolgere un determinato compito, cioè il saper fare. Accanto a queste ci sono le competenze di carattere psicologico dell’individuo che lavora sia come singolo sia come parte di un gruppo, cioè il suo saper essere. E quindi il talento, in questo senso, è inteso come quel candidato che ben si adatta alle caratteristiche del compito da svolgere, ma anche a quella che viene definita la cultura organizzativa dell’azienda: cioè tutte quelle caratteristiche psicologiche peculiari dell’azienda e anche del settore, che descrivono il clima dell’azienda, la qualità dei rapporti tra i colleghi, ma anche lo slang usato nel reparto, e i riti di iniziazione dei nuovi arrivati, che permettono al novizio di poter essere considerato uno di noi.

In questo senso, le strategie di Employer Branding riescono anche a far affrontare agilmente il processo di entrata e sistemazione del nuovo arrivato, che entra a far parte di un gruppo di persone qualificate (per skills e competenze psicologiche) al suo stesso livello; idealmente tutti saranno sulla stessa lunghezza d’onda.

 

Strategie di Employer Branding

Alla luce di questo, i pochi studi scientifici che riguardano l’Employer Branding hanno messo in evidenza come le strategie dell’azienda rivolte all’attrazione e ritenzione dei talenti debbano riguardare due aspetti:

  • Hard: ovvero caratteristiche tangibili come la retribuzione, le caratteristiche della posizione da ricoprire…;
  • Soft: ovvero caratteristiche del clima, della cultura, delle aspettative e delle ambizioni dell’azienda.

La creazione di un’immagine accattivante non è finalizzata solo a catturare i talenti, ma anche a trattenerli: far sì cioè che loro si identifichino talmente tanto con il brand, da non desiderare di andar via, e di continuare ad operare per il suo bene e il suo sviluppo, i quali, in un’ottica di identificazione con l’azienda, vanno a coincidere con il proprio bene e il proprio sviluppo. In questo modo, si può allontanare, se non rimuovere, la situazione di attrito che chiude il ciclo della permanenza del soggetto nell’organizzazione; il tutto a beneficio di quest’ultima e dei suoi impiegati.

 

Employer reale ed ideale

Per poter pianificare delle strategie efficaci di Employer Branding, Bonaiuto e colleghi (2010) hanno condotto uno studio su un campione di 1605 studenti universitari italiani, somministrando dei questionari contenenti item che riguardano le caratteristiche che dovrebbero possedere sia un employer reale sia un employer ideale:

  • Per employer reale si intendono tutte quelle organizzazioni che attualmente operano nel mercato (ad es. Coca-Cola, Adidas, Armani…);
  • Per employer ideale, invece, si intende un luogo di lavoro ipotetico che rispecchi in generale le preferenze dei candidati.

È ovvio che, dal punto di vista di un candidato, il fatto che l’employer reale coincida con il suo prototipo ideale sia un fattore a favore dell’azienda che lo assume, in quanto aumenta il legame psicologico del lavoratore nei suoi confronti, ed è un predittore di una performance di alto impegno.

Identificare le caratteristiche di un employer ideale comuni a molte persone è utile per elaborare delle strategie di Employer Branding per intercettare quei talenti utili all’employer reale, sottraendoli ai competitors. I risultati di questo studio hanno mostrato nove caratteristiche fondamentali che deve possedere un’azienda, secondo gli studenti universitari italiani: integrazione e valorizzazione del dipendente, reputazione e prestigio, creatività, internazionalità dell’impiego, merito, innovazione, sistema equo di ricompense, garantire una posizione permanente, responsabilità sociale (cioè, l’azienda contribuisce a migliorare la vita del consumatore); a questi va aggiunta anche la dimensione del teamwork.

 

Employer branding nella selezione del personale

Inoltre,  come messo in evidenza da Anderson (2009), nel processo selettivo intervengono due parti, che operano in maniera biunivoca: l’organizzazione e i candidati. Entrambe svolgono dei processi di valutazione della controparte:

  • L’organizzazione è attenta alle caratteristiche del candidato per decidere se fargli o meno una proposta di lavoro;
  • I candidati, a loro volta, valutano il modo in cui l’organizzazione si pone verso di loro attraverso la qualità del processo selettivo.

L’autore fa alcuni esempi, per far capire come entrambe le parti si influenzino a vicenda con le loro azioni, reali o mentali. In uno di questi ipotizza che il candidato si ritiri dalla selezione: in questo modo l’azienda sicuramente, dal proprio punto di vista, riduce i costi della selezione, ma potrebbe perdere un potenziale lavoratore dalle elevate performance a lungo termine.

Interessante è far notare come la qualità della selezione possa influire anche sulla prestazione in loco del candidato, e quindi nel caso in cui quest’ultimo abbia avuto una visione negativa del processo selettivo, e dunque dell’azienda, la performance attuata potrebbe subire dei cali. In questo modo sembra che il candidato, inconsciamente, spinga se stesso a non far parte di quella organizzazione, di cui ha avuto una brutta impressione, mettendo in atto una prestazione non sufficiente. Oppure, nel caso in cui venisse assunto, la prestazione a lungo termine potrebbe non essere delle migliori perché influenzata da quella immagine negativa che si è creata al momento della selezione.

Ancora, un candidato che ha avuto una percezione negativa di un employer può essere dannoso in quanto, soprattutto in caso di non assunzione, condividerà le sue impressione con amici, parenti, colleghi, ovvero potenziali candidati e clienti futuri.

Queste considerazioni mettono in evidenza come un’azienda, per puntare in alto, debba considerare anche quegli aspetti soft delle relazioni con gli stakeholders (consumatori, azionisti, impiegati…), che non sono da dare per scontati, in quanto possono rappresentare, a lungo termine, sia dei costi sia dei vantaggi.

Inoltre, questi studi fanno notare come si possa fare un passo avanti, facendo in modo che l’azienda si preoccupi di come venga considerata al suo interno (dai lavoratori) e all’esterno (dagli utenti), facendo attenzione ai minimi particolari di ogni sua azione, che sono significativi. In questo modo si può andare oltre la semplice considerazione dell’impiegato come unità lavoratrice, considerandola, invece, una risorsa umana a pieno titolo, il che significa gestirla, nei suo pro e nei suoi contro; una mossa che va nella sua direzione, ma che, inevitabilmente, si riflette sull’azienda stessa.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Ambler, T., Barrow, S. (1996) The employer brand. The Journal of Brand Management (Vol. 4,  n° 3)
  • Bonaiuto, M., Giacomantonio, M., Pugliese, E., Lizzani, G. (2010).  Employer Branding: how to measure its efficacy. Micro&Marco Marketing (Vol. 1).
  • Hulsheger, U. R., Anderson, N. (2009). Applicant Perspectives in Selection: Going beyond preference reactions. International Journal of Selection and Assessment (Vol. 17, n°4).
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