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Animato, inanimato, trasformato…semplicemente cibo: come si rappresentano gli alimenti nel cervello?

I ricercatori della SISSA propongono una categorizzazione semantica del cibo che deriva direttamente dalle teorie dell’embodied cognition.

Di Redazione

Pubblicato il 15 Lug. 2016

Nonostante la centralità di questo “concetto” nelle nostre vite, la ricerca ha fatto poco per scoprire l’organizzazione semantica del cibo nel nostro cervello. Una rassegna della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste mette in ordine la conoscenza finora acquisita, inserendola nelle teorie attualmente usate per spiegare la categorizzazione semantica.

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

 

 

L’approfondimento offre un inquadramento concettuale utile alla ricerca futura, anche per mettere alla prova le diverse teorie. Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista Psychonomic Bulletin Review.

È sorprendente che, nonostante il cibo sia un elemento centrale delle nostre vite, le neuroscienze abbiano dedicato finora pochi sforzi nel comprendere come questo venga rappresentato nel cervello. Consci di questa mancanza, Raffaella Rumiati, professoressa della SISSA dove dirige il laboratorio INSuLa, e Francesco Foroni, ricercatore della SISSA, hanno compilato una rassegna, che ha analizzato i lavori disponibili.

Una delle novità della ricerca è di aver preso in considerazione anche i lavori su pazienti con lesioni cerebrali. Sono infatti purtroppo pochissime le ricerche di questo genere e Rumiati e Foroni hanno dunque cercato fra quelle ricerche che hanno usato fra gli stimoli oggetti nella categoria alimentare, filtrando poi i risultati attraverso la lente delle teorie più diffuse di categorizzazione semantica.

La prima teoria, l’ipotesi sensoriale-funzionale fu proposta da Elizabeth Warrington, Rosaleen McCarthy e Tim Shallice negli anni ‘80 del secolo scorso. Secondo questa teoria gli oggetti sono divisi in base al tipo di analisi che viene fatta sullo stimolo. In pratica secondo questa teoria, gli oggetti animati sono esaminati principalmente in base alle loro caratteristiche sensoriali (colore, granulosità superficiale, sapore, odore, ecc.) mentre i manufatti sono analizzati in base alla loro funzione. Questa teoria ha ricadute interessanti sul cibo, perché fa supporre che i cibi non processati (non cotti o elaborati dell’uomo in qualche modo) ricadrebbero nella seconda categoria (insieme agli oggetti inanimati) mentre i cibi “naturali” (una mela per esempio) in quella degli oggetti animati.

Una seconda teoria (dominio-specifica) è stata formulata più recentemente da Alfonso Caramazza e sostiene che i nostri meccanismi di categorizzazione semantica sono stati plasmati dalla selezione naturale. Per questo motivo raggruppiamo gli oggetti in categorie importanti per la nostra sopravvivenza (animali, piante, conspecifici, ecc.). Questa teoria non divide gli oggetti in categorie rigide (come la precedente) e per il cibo, una categoria fondamentale per la sopravvivenza, fa supporre che le caratteristiche rilevanti possano essere tanto funzionali quanto di natura sensoriale.

Rumiati e Foroni hanno inoltre esaminato i dati alla luce di un’altra visione della categorizzazione semantica che deriva direttamente dalle teorie dell’embodied cognition. Secondo questa posizione la categorizzazione degli oggetti è fondata sull’attivazione del sistema sensoriale e motorio.

Per capire meglio può essere utile un esempio: udire la parola rosso attiverebbe anche le aree del cervello dedicate alla percezione del colore, nonostante questo non sia stato direttamente osservato. L’esposizione a un certo oggetto (in questo caso di natura visiva ma evocato in modalità udiva) mette in funzione le aree sensoriali anche quando non stimolate, e questa attivazione serve a comprendere e riconoscere l’oggetto di cui si sta facendo esperienza. L’osservazione di un utensile, per esempio un martello, provocherà l’attivazione delle aree che controllano la muscolatura della mano, e via dicendo. Secondo questa visione l’esposizione a stimoli alimentari porterà all’attivazione delle aree del gusto, per esempio, anche se queste non vengono attivate in maniera diretta con l’assaggio.

La rassegna mostra che il quadro è ancora troppo frammentario per far prevalere un’impostazione teorica sull’altra.

La ricerca legata al cibo nell’ambito alla categorizzazione semantica è ancora troppo scarsa – spiega Rumiati. – Quello che osserviamo però di importante è che è proprio la categoria ‘cibo’ che può aiutare la ricerca a disambiguare fra le varie impostazioni anche nel quadro più generale: il cibo infatti è uno stimolo trasversale, che possiede caratteristiche degli oggetti animati e anche di quelli inanimati, in più è fondamentale per la sopravvivenza e quindi ha un valore importante a livello evolutivo.

Nella rassegna gli autori hanno fornito una visone schematica delle previsioni coerenti con ciascuna delle teorie indicate.

In questo modo chi farà ricerca in futuro avrà un riferimento da utilizzare nel progettare esperimenti e stimoli – aggiunge Rumiati.

Una raccomandazione importante che emerge nella rassegna è sul fronte degli stimoli sperimentali: serve maggior attenzione sulle variabili che si mettono in gioco quando si presenta un alimento.

Ci sono molte dimensioni implicate: le caratteristiche sensoriali (il colore per esempio), ma anche il grado di ‘trasformazione’ dell’alimento (è un alimento naturale, o cucinato?), e le calorie percepite (quanto nutriente è?). Tutte cose da tenere sotto controllo – conclude la scienziata.

Il gruppo di Rumiati alla SISSA ha infatti messo a punto un database, gratuito e aperto a tutti, dove sono disponibili immagini di cibo standardizzate rispetto a queste variabili, che può essere molto utile a chi fa ricerca in questo campo. Il database si chiama FRIDA ed è disponibile alla pagina http://foodcast.sissa.it.

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