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Coprofagia: spesso associata a demenza neurodegenerativa

In un recente studio è stato osservato come in metà del campione di pazienti con coprofagia vi sia presenza di demenza neurodegenerativa. 

Di Claudio Nuzzo

Pubblicato il 23 Giu. 2016

Tra gli esseri umani la coprofagia è stata descritta per la prima volta nel 1897 all’interno dei manicomi. Ancora oggi però è difficile stimarne l’incidenza, considerata la difficoltà dei pazienti a parlarne con il proprio terapeuta data dalla stigmatizzazione del comportamento.

 

Cosa si intende per coprofagia

La coprofagia, ossia la pratica di ingerire escrementi, è piuttosto comune nel mondo animale, ma raramente viene riscontrata tra gli esseri umani.

Tra conigli e roditori, ad esempio, ricorre principalmente a scopo nutritivo, mentre in altre specie trascende questo obiettivo; i cani, ad esempio, possono mangiare i loro stessi escrementi come una sorta di punizione alternativa a quella che verrebbe loro inflitta dal padrone.

Tra gli esseri umani la coprofagia è stata descritta per la prima volta nel 1897 all’interno dei manicomi. Ancora oggi però è difficile stimarne l’incidenza, considerata la difficoltà dei pazienti a parlarne con il proprio terapeuta data dalla stigmatizzazione del comportamento.

 

Coprofagia: quando si manifesta

La coprofagia solitamente si associa alla presenza di ritardo mentale, tumori al lobo frontale, disturbo ossessivo-compulsivo, schizofrenia, epilessia, demenza e feticismo. Le cause di questo comportamento non sono ad oggi chiare; alcuni studi di lesione effettuati sulle scimmie comunque suggeriscono il coinvolgimento dell’amigdala.

Nel tentativo di esaminare lo spettro dei disturbi psichiatrici e neurologici associati alla coprofagia, i ricercatori della Mayo Clinic, esaminando le cartelle cliniche di 12 pazienti ricevuti tra il 1995 e il 2015 che avevano mostrato questi comportamenti, hanno osservato nella metà la presenza di demenza neurodegenerativa e, più in generale, la comorbilità tra questa pratica e svariati disturbi psichiatrici.

Dopo aver selezionato i pazienti (età media 55 anni, range da 20 ad 88 anni) dal database della clinica sulla base di alcune keywords presenti nelle cartelle cliniche (ad es., poop, feces eat), sono state esaminate tutte le scansioni di neuro-imaging condotte al tempo. Dall’analisi di queste ultime, tra i pazienti coprofagi e dementi si rilevava un’atrofia da moderata a severa al lobo temporale mediale e un’atrofia lieve nel lobo frontale.

Tra i comportamenti frequentemente riscontrati tra i coprofagi in esame vi erano: scatolia (pratica di annusare le feci), ipersessualità, aggressività e tendenza ad ingerire oggetti di ogni tipo.

Per ciò che riguarda i trattamenti farmacologici impiegati per la risoluzione della coprofagia, stando allo studio del team della Mayo Clinic, l’aloperidolo (antipsicotico) era l’unico farmaco in grado di sortire effetti significativi. Invece, le modificazioni comportamentali e l’uso di antiepilettici e antidepressivi non avevano prodotto risultati significativi.

Poiché la coprofagia si accompagna al rischio di infezioni e persino di morte è importante indagarne la natura, i correlati neurofisiologici e valutare i migliori trattamenti possibili.

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