expand_lessAPRI WIDGET

Autostima: che ruolo gioca nelle condotte di bullismo?

Secondo varie ricerche l’essere vittima di bullismo correla con la bassa autostima, meno chiaro è il ruolo che gioca l’autostima nel comportamento del bullo

Di Chiara Carlucci

Pubblicato il 04 Mag. 2016

Pare che il valore e la stima che attribuiamo a noi stessi possano in qualche modo avere un suo peso nei fenomeni di bullismo, ma relativamente alla relazione tra autostima e bullismo, i dati forniti dalla letteratura appaiono in parte contraddittori.

Chiara Carlucci – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Cosa si intende per bullismo?

La parola bullismo viene utilizzata con una gran frequenza, soprattutto nel contesto scolastico.

In effetti si tratta di un termine che è stato anche un po’ sovraesteso. Per tale motivo sarebbe opportuno fare una distinzione tra le semplici prepotenze e le condotte bullistiche, dato che, queste ultime, hanno delle caratteristiche ben precise.

La parola bullismo è la traduzione del termine inglese bullying, usato per connotare il fenomeno delle prepotenze tra pari in un contesto di gruppo.

Tale terminologia è stata estesa nel 1978 da Olweus, il quale ha assunto l’idea che il fenomeno del bullismo fosse riferibile sia al gruppo, sia all’individuo.

Il bullismo è un comportamento antisociale, insidioso e pervasivo, con alcune peculiarità distintive:

  • L’ intenzionalità: il bullo mette in atto intenzionalmente dei comportamenti fisici o verbali con lo scopo di offendere l’altro, arrecandogli danno o disagio e di avere il controllo sugli altri (Gini, 2005);
  • La persistenza, ossia la ripetitività di comportamenti di prepotenza protratti nel tempo;
  • L’asimmetria di potere. La relazione tra bullo e vittima è infatti asimmetrica, fondata sul disequilibrio di forza tra il bullo che agisce e la vittima che non riesce a difendersi. La maggiore forza del bullo può presentarsi in diversi modi, ad esempio una maggiore forza fisica, abilità socio – cognitive, bravura nello scoprire i punti deboli della vittima (Gini, 2005).

 

 

Bullismo diretto e bullismo indiretto

Tale comportamento aggressivo può assumere forme differenti. È infatti importante fare una distinzione tra bullismo diretto e bullismo indiretto.

La prima forma può assumere modalità fisiche (colpire con pugni e calci, rubare o rovinare gli effetti personali di qualcuno), oppure modalità verbali (offendere, insultare, minacciare, umiliare, fare affermazioni discriminanti).

Per quanto riguarda invece le modalità di bullismo indiretto, queste sono rappresentate dall’esclusione sociale, la diffusione di pettegolezzi e calunnie e dall’isolamento della vittima dal gruppo di pari. Anche se meno visibile, è importante prestare molta attenzione anche alla seconda forma di bullismo, poiché comporta un attacco indiretto e molto più nascosto nei confronti della vittima (Menesini, 2008).

 

 

Perché si diventa bulli? Perché si diventa vittime?

Ma cosa induce un soggetto a comportarsi da bullo? E di contro, cosa determina che un soggetto sia vittima di episodi di bullismo?

Una serie di studi ha messo in luce che un buon concetto di sé aiuta bambini e ragazzi a ottenere dei successi, sia a livello relazionale che di rendimento scolastico (Marsh e all., cit. in Camodeca, 2008).

Per concetto di sé si intende la teoria che ognuno sviluppa riguardo a se stesso; si riferisce alla percezione e alla cognizione delle proprie caratteristiche, alle credenze riguardo se stessi, le capacità, le impressioni, le opinioni che ogni individuo pensa di avere  e che lo contraddistinguono dagli altri (Damon e Hart, 1982).

Il Concetto di sé è stato sovente affiancato al costrutto di Autostima, ma si tratta di due concetti ben diversi: il concetto di sé si focalizza sugli aspetti cognitivi del sé, su come ci si vede e ci si descrive nei vari ambiti della vita; l’autostima riguarda gli aspetti valutativi del sé, il valore che attribuiamo a noi stessi.

Tornando alla possibile relazione esistente tra condotte di bullismo e immagine di sé, una ricerca condotta nel 1998 ha messo in luce che un basso concetto di sé conduce alla vittimizzazione e che l’effetto di eventuali fattori di rischio è maggiore nei soggetti che hanno un basso concetto di sé e che si sentono inadeguati.

Ulteriori ricerche hanno indagato il concetto di sé in quei bambini e ragazzi che utilizzano condotte aggressive. E pare che questi mostrino un elevato concetto di sé, ma in realtà ciò non denota una buona immagine di sé, piuttosto un senso di narcisismo e un tentativo di sembrare ciò che non  si è. Nel caso dei bulli, per esempio, sembrerebbe che il comportamento prepotente da essi attuato sia efficace a fargli guadagnare potere, ammirazione e attenzione e, in questo modo, migliorare poi l’immagine di sé (Marsh e all, 2001).

 

Autostima e bullismo

Pare che anche il valore e la stima che attribuiamo a noi stessi possano in qualche modo avere un suo peso nei fenomeni di bullismo. Ma relativamente alla relazione tra autostima e bullismo, i dati forniti dalla letteratura appaiono in parte contraddittori.

La maggior parte degli studi condotti nel settore si trova concorde nel sostenere che i bambini vittime di bullismo soffrono di scarsa autostima, hanno un’opinione negativa di sé e delle proprie competenze (Menesini, 2000).

Capita infatti molto spesso che i bambini tiranneggiati dai compagni mettano in dubbio il proprio valore, precipitando in stati di ansia e frustrazione.

Essi talvolta diventano anche un obiettivo di attrazione per il bullo, in quanto non sanno come affrontarlo. Tendono a vedere sconfitte temporanee come permanenti e molto frequentemente accade che qualcun altro (psicologicamente più forte) prenda su di loro il sopravvento.

A differenza delle vittime, i bulli appaiono spesso caratterizzati da un’alta autostima. Sembrano molto ottimisti, e riescono quindi a gestire molto più facilmente i conflitti e le pressioni negative, ed è per questo motivo che riescono facilmente a coinvolgere dei seguaci nelle loro azioni di prepotenza (Menesini, 2000).

Una ricerca di Salmivalli del 1999 ha indagato l’autostima a 14 e 15 anni e i risultati hanno evidenziato che i bulli hanno un’autostima più alta della media, combinata a narcisismo e manie di grandezza.

Un ulteriore studio condotto da Caravita e Di Blasio ha evidenziato che i bulli sono solitamente dei soggetti popolari, e ciò ha portato le autrici a ipotizzare che la popolarità potrebbe condurre ad un innalzamento dell’autostima e all’adozione di condotte aggressive, in quanto il soggetto non avrebbe alcun timore di confrontarsi o di essere sanzionato dal gruppo di pari (Caravita, Di Balsio, 2009).

Comunque questi dati sono stati più volte smentiti, in quanto il fatto che i bulli percepiscono sé stessi come ben visti non vuol dire che essi realmente lo siano. Spesso accade che le persone che hanno un comportamento da bullo si mostrano come superiori e potenti, ma in realtà essi non pensano questo di sé stessi. Potrebbe accadere che i bulli usino il comportamento aggressivo solo al fine di spaventare gli altri bambini, e non perché vogliono essere rispettati (Randall, 1995).

Uno studio condotto su ragazzi di 12 e 13 anni ha messo in luce che in realtà i bulli non sono molto popolari, anche se sono sicuramente più popolari rispetto alle vittime (Salmivalli, 1996).

Luthar e McMahon (1996) pensano che la popolarità tra i pari sia collegata sia alla prosocialità che al comportamento aggressivo in adolescenza. I bambini aggressivi (bulli inclusi) tendono a sovrastimare le proprie competenze, e i bambini che sovrastimano la loro accettazione sociale sono spesso quelli più nominati dai loro pari come aggressivi.

I dati che supportano l’asserzione che i bulli hanno una positiva percezione di sé, ritengono che essa è spesso inconsistente. Per esempio Salmivalli (1998) ha trovato nei bulli un’alta autostima per quanto riguarda le relazioni interpersonali e l’attrazione fisica, ed una bassa autostima per quanto riguarda l’ambito scolastico, quello familiare, quello del comportamento e quello delle emozioni (Salmivalli, 2001). È ciò che si verifica ad esempio quando il bullo è grande e forte ma colleziona continui insuccessi scolastici (Oliverio Ferraris, 2006). Dal medesimo studio è emerso anche che le vittime hanno bassi punteggi in quasi tutti gli aspetti dell’autostima. Vi sono comunque soggetti vittimizzati che hanno dimostrato di possedere una buona stima di sé, soprattutto in ambito familiare.

Un ulteriore studio ha investigato due ipotesi: un’alta autostima porta i bambini a mettere in atto pensieri antisociali (ipotesi dell’attivazione); un’alta autostima porta i bambini a razionalizzare le condotte antisociali nei loro confronti (ipotesi della razionalizzazione). I risultati supportano pienamente la seconda ipotesi, e solo in parte la prima. Ciò appare da un lato positivo, in quanto emerge che quei bambini che presentano un’alta autostima, pur non essendo molto popolari, riescono bene a razionalizzare le condotte antisociali. D’altro canto però, per quei bambini che hanno una tendenza verso l’aggressività, l’avere un’alta autostima potrebbe presentare un problema, in quanto contribuirebbe ad aumentare le loro condotte antisociali (Corby, Hodges, Menon, Perry, Tobin, 2007).

Ciò comunque non sempre è vero. L’avere un’alta autostima in preadolescenza gioca un ruolo molto limitato nello sviluppo di comportamenti violenti in età adulta (Boden, Fergusson, Horwood, 2007).

Una ricerca condotta da Marsh nel 2001 ha messo in luce che i fattori di aggressività scolastica e quelli di vittimizzazione sono associati a tre componenti del sé: autostima generale, relazioni con lo stesso sesso e relazioni con l’altro sesso. Più nel dettaglio, la vittimizzazione correla negativamente con il concetto di sé ed ha effetti negativi sullo sviluppo dell’autostima. Per quanto riguarda l’aggressività, essa correla ugualmente in modo negativo con il concetto di sé, e ha pochi effetti positivi sullo sviluppo dell’autostima. Un basso concetto di sé può quindi condurre a un comportamento aggressivo e alla vittimizzazione, e può successivamente avere conseguenze sullo sviluppo dell’autostima. Tali esiti sono indipendenti dagli effetti di genere (Marsh et al. 2001).

 

 

Conclusioni

In conclusione, le ricerche sono concordi nel sostenere che l’essere vittima di bullismo correla con la bassa autostima e potrebbe condurre ad un ulteriore declino della stima di sé nel bambino.

Meno chiaro è il ruolo che gioca l’autostima nel comportamento antisociale del bullo. Le correlazioni emerse dalle varie ricerche tra autostima e comportamento aggressivo sono poco concordanti.

Forse andrebbe analizzata l’autostima in tutte le sue componenti, e non solo in quei contesti relativi all’ambiente scolastico e al rapporto tra i pari. Potrebbe essere utile considerare l’autostima legata all’ambiente familiare, all’aspetto estetico e alle emozioni,  ma sono poche le ricerche che finora lo hanno fatto.

L’autostima del bullo resta tuttora un costrutto che andrebbe esaminato più a fondo al fine di poter prevenire qualsiasi comportamento antisociale, ma soprattutto per separare le cause dalle conseguenze.

 

Si parla di:
Categorie
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Albiero P, Altoè G, Benelli B, Gini G (2007), “Does empathy  predict adolescents’ bullying and defending behavior?”, Aggressive Behavior 33, pp 467 – 476.
  • Augustyn M, Vanderbit D (2010), “The effect of bullying”, Paediatrics and Child Healt 20, pp 315 – 320.
  • Aureli T, Bascelli E, Camodeca M, Di Sano S (2008), “Il bambino in classe. Aspetti teorici e strumenti di valutazione”, Roma: Carocci.
  • Batini, F (2014). “Drop-out”. Fuori Onda Editore
  • Bell C. D, Horne A. M, Stoddard J. L (2007), “Group approaches to reducing aggression and bullying in school”, Group Dinamic: Theory Research and Practice 4, pp 262 – 271.
  • Berti A. E, Bombi A. S (2005), “Corso di Psicologia dello Sviluppo”, Bologna: Il Mulino.
  • Boden J, Fergusson D, Horwood J (2007), “Self-esteem and violence: testing links between adolescent self-steem and later hostility and violent behaviour”, Soc. Psychiatry Epidemiol 42, pp 881 – 891.
  • Bracken B. A (2003), “TMA. Test di Valutazione Multidimensionale dell’Autostima. Nuova edizione”, Trento: Erickson.
  • Camodeca M, Goossens  F. A (2005), “Children’s opinions on effective strategies to cope with bullying: The importance of bullying role and perspective”, Educational Research 47, pp 93 – 105.
  • Caravita S, Di Blasio P (2009), “Unique and interactive effect of empathy and social status on involvement in bullying”, Social Development 18, pp 140 – 163.
  • Damon W, Hart D (1982), “The development of self – understanding from infancy througr adolescence”, Child Development 53, pp 841 – 864.
  • Egan S. K, Perry D. G (1998), “Does low self – regarde invite victimization?”, Developmental Psichology 34, pp 299 – 309
  • Fonzi A (1997), “Il bullismo in Italia. Il fenomeno delle prepotenze a scuola dal Piemonte alla Sicilia: ricerche e prospettive di intervento”, Firenze: Giunti.
  • Gini G (2005), “Il bullismo. Le regole della prepotenza tra caratteristiche individuali e potere nel gruppo”, Roma: Edizioni Carlo Amore.
  • Gini G (2006), “Bullying as a social process: the role of group membership in students’ perception of inter – group aggression at school”, Journal of School Psychology 44, pp 51 – 65.
  • Graham S (2010), “What educators need to know about bullying behaviours”, Kappan Magazine 92, pp 66 –69.
  • Marsh H. W, Healey J, Yeung A. S, Parada R. H (2001), “Aggressive school tropumblemakers and victims: a longitudinal model examining the pivotl role of self – concept”, Journal of Educational Psychology 93, pp 441 – 419.
  • Menesini E (2000), “Bullismo che fare? Prevenzione e strategie di intervento nella scuola”, Firenze: Giunti.
  • Menesini E (2008), “Il bullismo a scuola: sviluppi recenti”, in Ragionamenti, pp 51 – 67.
  • Oliverio Ferraris A (2006), “Piccoli bulli crescono. Come impedire che la violenza rovini la vita ai nostri figli”, Milano: Rizzoli.
  • Olweus D (1996), “Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono”, Firenze: Giunti.
  • Perry D, Corby B, Hodges E, Menon M, Tobin D (2007), “The developmental costs of high self – esteem for antisocial children”, Child Development 78, pp 1627 – 1639.
  • Salmivalli C (1998), “Intelligent, attractive, weel – behaving unhappy: the structure of adolescents’ self – concept and its relations to their social behaviour”, Journal of Research on Adolescence 8, pp 333 – 354.
  • Salmivalli C, Kaukiainem A, Lagerspetz K, Maki H, Poskiparta E, Tamminen M, Vauras M (2002), “Learning  difficulties social intelligence, and self – concept: connection to bully – victim problems”, Scandinavian Journal of Psychology 43, pp 269 – 278.
  • Salmivalli C (2010), “Bullying and the peer group: a review”, Aggression and Violent Behavior 15,  pp 112 – 120.
  • Tonioni, F (2014). “Cyberbullismo. Come aiutare le vittime e i persecutori”, Mondadori, 2014.
  • Vivona M (2008), “Il bullo: quando l’affermazione di sé nuoce all’altro”, Psico – Pratika 19, pp 1 – 7.
CONSIGLIATO DALLA REDAZIONE
Fotolia_75195383_Il bullismo infantile gli effetti negativi a lungo termine in età adulta
Il bullismo infantile: gli effetti negativi a lungo termine in età adulta

Uno studio dimostra come l'aver vissuto atti di bullismo durante l'infanzia espone al rischio di sviluppare psicosi, depressione o dipendenze in età adulta.

ARTICOLI CORRELATI
cancel