Negli ultimi anni si sente sempre più spesso parlare di alimentazione scorretta e cibi dannosi, ma anche e soprattutto di pratiche alimentari alternative. In particolare, si assiste alla diffusione di diverse correnti di pensiero che, inscritte in vere e proprie filosofie di vita, promuovono uno specifico stile alimentare.
Il vegetarianismo e il veganismo
L’esempio più noto è quello del vegetarianismo, una scelta alimentare caratterizzata dall’esclusione delle carni di qualsiasi animale e che può avere alla base motivazioni etiche, principi religiosi, attenzione all’ambiente e alla salute. All’interno di questa pratica si distinguono poi delle sottocategorie, come il veganismo, il crudismo vegano e il fruttarismo. Hanno in comune l’esclusione di alcuni alimenti dalla dieta alimentare, differenziandosi però nella scelta di quali includere e quali no: il veganismo rifiuta qualsiasi forma di sfruttamento animale, dunque non comprende nella dieta alimentare né la carne, né i prodotti di origine animale; il crudismo vegano aggiunge al veganismo la limitazione ai soli cibi crudi, o cotti al di sotto dei 42°, perché più ecologici, più sani e più facilmente digeribili; il fruttarismo, invece, prevede un’alimentazione di sola frutta (dolce, ortaggio e grassa).
Quest’ultimo stile alimentare è associato, ancora più frequentemente dei precedenti, ad una vera e propria filosofia di vita connessa con un ritorno alle origini, una maggiore attenzione alle richieste del corpo e la valorizzazione dell’istintualità. Quelle citate sono pratiche oggigiorno del tutto riconosciute e socialmente accettate, sempre più supportate da studi che ne dimostrano la sostenibilità.
Ciò su cui ci si intende soffermare è la possibilità che dietro a stili alimentari legittimati dal contesto socio-culturale si possano nascondere situazioni che esulano da uno stile di vita consapevole e che piuttosto riguardano un rapporto problematico con il cibo. Si intende qui proporre una riflessione sulla linea sottile esistente tra una scelta sana e un utilizzo “punitivo” del cibo. Ci si chiede, dunque, se stili alimentari restrittivi possano essere lo specchio per allodole di disturbi del comportamento alimentare.
L’ortoressia
Uno tra questi, ad esempio, è l’ortoressia, termine comparso per la prima volta nel 1997 e utilizzato negli ultimi anni dagli esperti dell’alimentazione per segnalare un’attenzione eccessiva rispetto al consumo di cibi sani e naturali. A rendere problematico tale atteggiamento sono le caratteristiche ossessive di ruminazione mentale sul cibo e di ricerca, selezione e consumo degli alimenti. È una patologia inclusa nel DSM-5 nel “Disturbo Evitante/Restrittivo dell’assunzione di cibo” e rimanda ad uno stile di vita che ruota completamente e persistentemente intorno ad una corretta alimentazione, tanto da influenzare la quotidianità dell’individuo. La focalizzazione è sulla qualità del cibo, sulle norme di controllo, con conseguente evitamento di tutte quelle situazioni sociali che non lo consentono. Così accade che una pratica alimentare salutista finisca per avere esiti problematici come l’isolamento sociale o la carenza nutrizionale.
Dunque, come è possibile discriminare una filosofia di vita da un disturbo del comportamento alimentare, quale l’ortoressia? A rendere difficile questa distinzione è la sovrapposizione, parziale o totale, degli aspetti fenomenici e direttamente osservabili, poiché una scelta accurata e selettiva degli alimenti può avere a che fare con l’adesione ad alcune pratiche culturali, ma può anche riguardare un rapporto di dipendenza dal cibo.
Esistono indicatori per cogliere la differenza? L’utilizzo dell’etichetta ortoressia, adatto più che altro nella comunicazione tra professionisti, non deve indurre a credere che sia possibile fare generalizzazioni. Infatti, la complessità di ciascun individuo non può essere ricondotta a criteri standardizzati né ridotta alla descrizione di un sintomo. È comunque possibile fare riferimento a criteri psicologici che consentano di cogliere i campanelli d’allarme di uno stile alimentare patologico. Nel caso specifico, alla base dell’ortoressia può esserci la paura di ingrassare o di non essere in perfetta salute, talvolta connesse ad una percezione distorta della propria immagine corporea: la paura assume le caratteristiche di un’ossessione per il cibo, il quale perde spesso la sua funzione di appagamento e diventa un veicolo per esercitare controllo e alleviare la tensione.
A ciò si associa un allontanamento dalla dimensione del piacere che viene sostituita da quella del sollievo, possibile grazie alla rigidità delle regole e all’accuratezza della pianificazione alimentare. Comportamenti di questo tipo necessitano di una particolare attenzione agli ingredienti di ciascun cibo, di un’ispezione dettagliata delle etichette. Interviene inoltre una componente psicologica importante: entro una simbolizzazione del contesto del tipo “buono-cattivo”, gli alimenti non conosciuti o non accettati vengono vissuti come cattivi e in quanto tali minacciosi. Così, chi soffre di ortoressia arriva a privarsi di qualsiasi situazione sociale che possa ostacolare la conoscenza dei cibi e la ricerca di un’alimentazione sana e, sostanzialmente, quella che sembrerebbe una scelta finisce per diventare una gabbia, una torre di controllo e di rinuncia al confronto e allo scambio, a garanzia della propria sicurezza.
Altri movimenti filosofici associati all’alimentazione: il breatharianismo e il sungazing
È bene evidenziare che non soltanto l’attenzione al cibo sano può avere alla base un disturbo del comportamento alimentare. Esistono infatti altre pratiche, sempre più condivise, che possono nascondere un disturbo pur non avendo nulla a che fare con una dimensione patologica. È il caso, ad esempio, del breatharianismo (o respirarianesimo), una pratica collegata all’ascetismo orientale e secondo la quale è possibile nutrirsi di solo “prana”, una specie di nettare prodotto dalla respirazione che consente di apportare al corpo le necessarie energie senza bisogno di mangiare e, in alcuni casi, di bere.
Ancora, chi pratica sungazing (o HRM) riferisce la possibilità di nutrirsi esclusivamente di “sole”, attraverso l’osservazione diretta di quest’ultimo. Entrambe le pratiche prevedono il digiuno o una forte limitazione nell’assunzione di cibo e liquidi. Le conseguenze fisiche correlate possono essere la disidratazione, la perdita di peso e, nelle donne, l’amenorrea, condizioni riscontrabili anche nell’anoressia nervosa. Si potrebbe affermare che queste pratiche si differenziano dall’ultima perché rimandano ad uno specifico movimento filosofico, eppure anche l’anoressia viene vissuta come tale da chi ne soffre. Nei blog Pro-Ana, infatti, si parla di “Ana” come di una dottrina, una filosofia attorno alla quale ruota la propria vita, e vengono proposti dieci comandamenti da rispettare, perché Ana non è solo il diminutivo di anoressia, ma anche una dea da venerare. Dunque l’adesione ad una filosofia non sembra essere un discriminante.
Ma, allora, i breathariani e i sungazers soffrono di anoressia? In generale, è possibile distinguere una scelta alimentare sana da una invece patologica? Quando uno stile alimentare può essere considerato “normale”?
Se si pensa alla patologia secondo un modello dimensionale è impossibile parlare di normalità, dunque è impossibile discriminare in modo dicotomico sanità e patologia. È però possibile cogliere la problematicità e la disfunzionalità di alcune situazioni in base al grado di flessibilità che propongono e, in altre parole, un comportamento alimentare può essere considerato patologico quanto più assume caratteristiche di rigidità. Ecco allora che la stessa pratica alimentare può essere sana o patologica: la differenza starà nella modalità con cui viene messa in atto, nel significato che le si attribuisce, nei simboli che il cibo veicola. È importante quindi interrogarsi sulla funzione specifica che il cibo ricopre e porre attenzione a quei comportamenti che, seppure comuni o condivisi, possono essere importanti segnali se colti in tempo.
Nei disturbi del comportamento alimentare il cibo viene infatti utilizzato per comunicare un disagio difficile da esprimere altrimenti e in questo senso la riflessione proposta non ha il fine di demonizzare alcune pratiche alimentari piuttosto che altre, ma quello di accendere una luce sulla possibilità che alcuni disagi possano trovare nascondiglio e rifugio dietro un’appartenenza culturale legittimante e al tempo stesso rassicurante.