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Il burnout nei caregivers professionali

Il burnout consiste in uno stato di esaurimento emotivo caratterizzato da manifestazioni somatiche e psicologiche ed è tipico delle professioni di aiuto.

Di Guest

Pubblicato il 03 Dic. 2015

Sara Nicoli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

La sindrome da burnout viene definita da alcuni autori come lo stress lavorativo specifico delle helping profession, ossia professioni di aiuto che comprendono figure come medici, psicologi, infermieri, insegnanti o assistenti sociali.

 

Lo stato di disagio che porta al Burnout

Lo stato di disagio parte dalla visione dell’utente come di un postulante a cui viene elemosinata una prestazione di aiuto (G. Contessa, 1995). Questa ideologia, ancora molto diffusa in Italia, ha condotto gli operatori del sociale a sviluppare un forte spirito salvifico e sentimenti di onnipotenza nei riguardi degli utenti che non hanno poteri e sono identificati come “rappresentanti della malattia”, coloro che chiedono aiuto perché sono in uno stato di inferiorità (Lamanna, 2003). Ma, l’incontro dei bisogni dell’utenza porta l’operatore a trascurare inconsapevolmente i propri bisogni e le proprie motivazioni. Questo atteggiamento si trasforma gradualmente in un senso di impotenza, disagio che rede l’operatore, vittima del disagio stesso.

 

Sindrome da Burnout: definizione e sintomi

Maslach nel 1982 fornisce una definizione della sindrome da burnout che si esplica in stati di nervosismo, irrequietezza, apatia, indifferenza, cinismo, ostilità verso gli altri, differenziandosi però dalle varie tipologie di nevrosi in quanto disturbo riguardante il ruolo lavorativo.

Queste manifestazioni comportamentali e psicologiche possono essere raggruppate, secondo l’autore, in tre categorie:

  • Esaurimento emotivo: sentirsi emotivamente svuotato e annullato dal proprio lavoro, per effetto di un aridimento emotivo nel rapporto con gli altri;
  • Depersonalizzazione: atteggiamento di allontanamento e di rifiuto nel confronto di coloro che ricevono o richiedono la prestazione professionale, il servizio o la cura;
  • Ridotta realizzazione professionale: percezione della propria inadeguatezza al lavoro, caduta dell’autostima e sensazione di insuccesso lavorativo.

Il caregiver colpito da burnout può manifestare inoltre sintomi somatici e l’insorgenza di vere e proprie patologie (ulcere, cefalee, aumento o diminuzione ponderale, disturbi cardiovascolari, difficoltà nella sfera sessuale ecc..) o l’abuso di sostanze (alcool, psicofarmaci ecc..).

 

La fasi del burnout

Maslach descrive inoltre stadi progressivi del disagio che si caratterizzano per un progressivo aumento della demotivazione e frustrazione lavorativa.

La prima fase viene definita entusiasmo idealistico, e si risolve nelle motivazioni che hanno portato gli operatori a scegliere un lavoro di tipo assistenziale sia consce che inconsce. Tali motivazioni sono spesso accompagnate da aspettative di “onnipotenza”, di soluzioni semplici, di successo generalizzato ed immediato, di apprezzamento, di miglioramento del proprio status.

Nella fase successiva, quella di stagnazione, l’operatore continua a lavorare ma si rende conto che il lavoro non va a soddisfare del tutto i suoi bisogni. I risultati del forte impegno iniziale sono via via sempre più inconsistenti. Si passa così da un superinvestimento iniziale a un graduale disimpegno dove il sentimento di profonda delusione avanza, determinando nell’operatore una chiusura verso l’ambiente di lavoro e i colleghi.

Nella terza fase il pensiero dominante del caregiver è di non essere più in grado di aiutare nessuno. Questa fase è la più critica, il vissuto dell’operatore è un vissuto di perdita, svuotamento, di crisi di emozioni creative e di valori considerati fondamentali in quel momento. Come fattori di frustrazione intervengono inoltre lo scarso apprezzamento dei colleghi e degli utenti nonché una convinzione di un’ inadeguata formazione per il tipo di lavoro scelto. Il soggetto in questa fase può assumere atteggiamenti aggressivi o mettere in atto comportamenti di fuga (frequenti assenze per malattia, allontanamenti ingiustificati dal reparto, pause prolungate).

Il graduale disimpegno emozionale conseguente la frustrazione, con il passaggio dall’empatia all’apatia costituisce la quarta fase, durante la quale spesso si assiste a un’uscita dal mondo professionale prescelto.

Nella concretezza quotidiana, quindi, le capacità personali giocano un ruolo importantissimo almeno quanto le capacità tecnico-professionali. D. Goleman definisce l’intelligenza emotiva come la capacità delle persone di affrontare le difficoltà in modo efficace ed ottimale nelle difficoltà della vita, la possibilità di avere accesso alle proprie emozioni consente infatti all’individuo di sviluppare la propria personalità in modo flessibile e creativo. Tutto ciò nel rapporto medico-paziente consentirebbe al primo di essere empatico e sensibile alle esigenze reali del secondo. Nel burnout emerge la difficoltà nel misurarsi con le proprie emozioni e il non riconoscimento del problema con l’insorgenza di un sentimento di rassegnazione. Questa condizione non rappresenta soltanto un problema dell’individuo ma si propaga in maniera altalenante dall’utenza all’èquipe. L’influenza dello “stress” va ad intaccare quindi il servizio.

 

Il burnout colpisce gli aspetti relazionali

Alcuni studi effettuati su gruppi di operatori all’interno di strutture a lunga degenza, mostrano come il burnout vada a colpire maggiormente gli aspetti relazionali che si riducono ai minimi scambi in funzione dei bisogni strumentali dei singoli pazienti (Cronin-Stubbs, 1985). L’attenzione verso i bisogni individuali del singolo e il mantenimento della privacy e della dignità di quest’ultimo risultano essere fortemente minacciati (Norman, 1987). In particolar modo uno studio longitudinale di Amstrong- Esther & Browne affronta il cambiamento relazionale tra operatori ed assistiti concentrandosi sulla tipologia di ospiti. I dati ripotano una maggiore riduzione di interazione con i pazienti affetti da patologie psico-cognitive (5.6%) rispetto agli altri pazienti (15.6%). Inoltre gli autori riportano anche un maggior grado di inattività dei primi (88,5% del tempo) rispetto a quella dei secondi (30,5%).

 

Prevenzione del burnout

Come prevenire quindi l’insorgenza della sindrome da burnout all’interno dei professionisti della salute? Come migliorare la qualità dei servizi erogati?

Bisognerebbe tener conto delle variabili di tipo psicologico, relazionale ed emotivo all’interno delle attività di aiuto. Prevenire i fallimenti nel campo del lavoro sanitario vorrebbe dire pianificare, analizzare in modo realistico le proprie potenzialità in confronto attivo con gli altri. L’aspetto relazionale con i colleghi è un fattore fondamentale per un significativo incremento delle prestazioni lavorative. L’organizzazione del lavoro d’aiuto dovrebbe prevedere la creazione di un clima lavorativo positivo attraverso l’analisi delle motivazioni e delle prestazioni dell’èquipe e contemporaneamente un attento esame che tenga presenti realtà quali i cambiamenti culturali e strutturali dei servizi, le gerarchie e i relativi ruoli, i poteri e la responsabilità e le competenze e la formazione professionale.

Garantire un clima che sia gratificante per l’operatore significa gestire il suo carico emotivo personale a favore della promozione del benessere psicofisico e delle problematiche relative allo stress lavorativo (Lamanna, 2003). A qualsiasi livello agisca l’operatore esistono strategie di intervento per la prevenzione del burnout. Chermiss ne identifica diverse:

  • Sviluppo dello staff: portare l’operatore ad adottare aspettative più realistiche e obiettivi che forniscano alternative di gratificazione; aiutare gli operatori a sviluppare meccanismi di controllo e feed-back sensibili a vantaggi a breve termine; fornire frequenti possibilità di training per incrementare l’efficienza del ruolo; incoraggiare lo sviluppo di gruppi di sostegno e/o sistemi di scambio di risorse; fornire consulenza centrata sul lavoro o incontri per gli staff che stanno sperimentando elevati livelli di stress lavorativo;
  • Cambiamenti di lavoro e strutture di ruolo: limitare il numero di pazienti di cui lo staff è responsabile; distribuire tra i membri dello staff i compiti più difficili e meno gratificanti esigendo il lavoro in più di un programma; utilizzare personale ausiliario; garantire periodi di riposo alla necessità; dare la possibilità ad ogni membro di proporre nuovi programmi; costituire varie fasi di carriera per uno staff;
  • Sviluppo della gestione: creare programmi di training e sviluppo per il personale attuale e futuro che si dedica alla supervisione; creare sistemi di controllo per la supervisione (indagini dello staff, feed-back regolari); controllare la tensione di ruolo nei supervisori;
  • Soluzione del problema organizzativo e modello decisionale: creare meccanismi formali di gruppo per la soluzione del problema organizzativo e la risoluzione del conflitto; organizzare training per la risoluzione del conflitto; accettare l’autonomia dello staff e la partecipazione alle decisioni;
  • Obiettivi del centro e modelli di gestione: rendere gli obiettivi chiari e compatibili per quanto possibile; rendere la formazione e la ricerca i maggiori obiettivi del programma; condividere la responsabilità delle cure e della terapia con i pazienti, le loro famiglie e la comunità.

 

In conclusione, al fine di un efficace prevenzione della sindrome da burnout, possiamo sottolineare l’importanza quindi di un intervento multi-sfaccettato che miri a modificare lo stile organizzativo dello staff e i modelli di gestione di quest’ultimo al fine di arrivare ad avere un maggiore supporto tra i vari operatori e un aumento della qualità del lavoro di tipo assistenziale e della vita stessa del caregiver professionale.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Contessa G. (1982) L'operatore sociale in cortocircuito: il burning-out sindrome italiana. Animazione sociale, n.4243;
  • Goleman D. (2000) Lavorare con l'intelligenza emotiva, BUR, Milano.
  • Lamanna F. Burnout in sanità: sindrome o malattia professionale? dal concetto di burn-out alla diagnosi, dalla prevenzione al trattamento. SRM Psicologia Rivista Roma 11 settembre 2003;
  • Maslach C. Leiter P. (2000) Burnout e organizzazione. Modificare i fattori strutturali della motivazione al lavoro. Feltrinelli.
  • Di Martino V. (1994), Stress lavorativo:un approccio per la prevenzione. Organizzazione internazionale del lavoro-stress at work "la ricerca comparativa internazionale". Ed. Italiana a cura di La Rosa M. Bonzagni M. Grazioli P. ED. Francoangeli, Milano
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