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Trame di vita intrecciate: il nuovo libro di Roberto Lorenzini in uscita nel 2016

Il libro in uscita nel 2016 costituisce il sequel di "Storie di terapie" del 2013 e racconta di storie che hanno come protagonisti operatori e pazienti

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 20 Ott. 2015

Nel 2013 ho pubblicato “Storie di Terapie”, un volume di casi clinici trattati con la terapia cognitivo comportamentale, storie reali di difficoltà e inciampi e non casi esemplificati puliti come esempio per gli studenti. Questo volume ne è il seguito ideale o forse il prequel. Queste storie non hanno la pretesa di insegnare le tecniche della psichiatria territoriale, straordinaria peculiarità italiana all’interno della quale i cognitivisti hanno portato un prezioso contributo di concretezza anche in ambito riabilitativo.

Non sono dei modelli anzi, spesso ci sono errori grossolani con conseguenze drammatiche.
Quello che vogliono raccontare è lo spirito con cui, negli anni successivi alla riforma psichiatrica, numerosi generosissimi operatori hanno intrecciato per decenni le loro vite con quelle dei pazienti per cercare di inventare insieme un modo inesplorato di fare salute mentale senza i manicomi e utilizzando, come principale cura, la vita stessa e un’ enorme reciproca compassionevole accettazione delle rispettive miserie.

In primo luogo il libro è dedicato a tutti gli operatori che hanno lavorato con me e che, spero, non si offenderanno, riscoprendo tra le righe le loro caricature goffamente mascherate (riesco a prendere in giro solo coloro che stimo intelligenti e verso cui provo affetto).
In secondo luogo è dedicato ai veri protagonisti, i miei carissimi compagni matti, svitati, lunatici, dementi, scervellati, pazzerelli, insensati.
Dopo trent’anni di lavoro a contatto con le vostre sofferenze, intrecciatesi indissolubilmente con le mie, sento il desiderio di rivelarvi alcune cose che non ho raccontato a tutti, perché non le avevo ancora capite o non c’è stato tempo, o me ne vergognavo ancora.

Mi rivolgo dunque ai vari ansiosi, agli spaventati in logorante attesa di un abisso senza fondo dove si perderanno definitivamente; aggrappati ad un sostegno qualsiasi mentre la vita scorre senza che mai l’afferrino, le mani serrate sull’ appiglio.
Per non morire non vivono.
A quelli rattrappiti dall’attesa della sentenza inappellabile di condanna alla solitudine e al disprezzo che, per non sbagliare, somigliano a cadaveri di ineffabile perfezione.
Ai fuggiaschi dalla derisione, vergognosi di un esistere e ingombrare spazio nel mondo, impegnati a scomparire ad occhi severi che non li lasciano mai.

Alla grande schiera degli accerchiati da onde di minaccia, striscianti e inaspettati pericoli, malattie, rovesci e perdite che, come minuscoli moscerini nel lavandino, li trascineranno vorticosamente nello scarico; in loro mai nessun potere, piccoli e tremanti, prima, o malfermi e stanchi poi, Cappuccetti rossi nel bosco degli orrori o nonne divorate dal lupo.
Lo dedico ai fratelli depressi, agli affaticati ogni mattina davanti alla grigia montagna brulla da scalare, subito, ai piedi del letto insonne: tale è la nausea dei sapori e dei profumi della vita che hanno smorzato i sensi, non provano mai nulla tranne la noia. Non mancano di nulla, rimprovera il coro, eccetto forse se stessi, tutto è parimenti insensato, ripetitivo, già visto, in attesa di finirla vorrebbero solo dormire.
Non hanno chiesto di esserci e, offesi, non sono mai entrati in gioco.

Senza ricordi nè orizzonti annaspano in un livido dolente presente, per giunta sono arrabbiati, convinti di aver firmato un contratto differente con Dio o un suo delegato. Somari svogliati alla scuola della vita, deserti inariditi, con una pozza asciutta e screpolata nel luogo dell’anima.
Infine anche a quelli che chiamiamo psicotici, a loro soprattutto, che mi fanno sempre battere il cuore e mai ciò finirà.
Ai diversi, quelli strani, fatti male, mancanti del software per gli incontri, che decidono con la testa ogni mossa per sembrare normali.
Non capiscono le bizzarre tradizioni degli umani, come appena scesi dall’astronave senza il manuale di istruzioni per la terra.
Ma ognuno è diverso a modo suo, appunto, non sono un’unica tribù.
Alcuni si avventurano in mondi privati senza altri condomini e vicini, cancellano le tracce, borbottando in compagnia di se stessi e smarriscono la strada del senso comune.

Altri, costretti alla ribalta per riempire lo specchio come attori ergastolani, non possono scendere dal palco per fuggire in un camerino vuoto, freddo con i fiori appassiti.
Certi stanno assediati tra gli agguati di inganni e tradimenti, sentinelle di tartari in perenne ritardo, le braccia indolenzite dalla guardia sempre alta, in servizio permanente effettivo, impacciati dalla corazza, sono i guerrieri professionisti che temono le conseguenze dell’amore.
Taluni, eterni orfani, si perdono alla vista delle spalle di chi va altrove, mai rassegnati alla cacciata dall’ originario utero.
Strani tra gli strani quelli che graffiano per abbracciare e s’imbrattano di sangue.

La terra intorno sismicamente sobbalza. Pronti ad eruttare da un istante all’altro, sono gli inghiottitoi carsici incolmabili dove tutto affonda e mai riempie il vuoto straziante e rabbioso della perduta perfezione unitaria.
All’orecchio di tutti questi pellegrini della sofferenza sussurro che non siete soli, vi sembra soltanto di esserlo guardando voi stessi da dentro e tutti gli altri dall’ esterno rivestito di carta colorata e fiocchi, mentre dentro anche i sorridenti pulsano dolore.
Siamo identici per oltre il 99% sia nei geni che nelle esperienze vissute, tutto il vostro dolore è propriamente umano, l’essenza stessa dell’umanità che ci accomuna.

Diluite l’orgoglio ferito dell’ “io” nella quiete comunitaria del “noi”, immaginate la vostra vita come una dolorosa marcia dal nulla al nulla, immersi in un popolo di ugualmente dolenti in faticoso cammino.
Nessuno impegnato a trascinarsi avanti ha tempo, o voglia, di darvi la pagella.
Talvolta ci si appoggia l’un l’altro e si mischia fiato e sudore, ogni tanto brilla una stella, il gelo si scioglie un po’, il terreno si ammorbidisce, rari momenti da collezionare, assaporare e conservare nella memoria.

Per tutti gli altri, raccontatevi una storia epica che dia, ingannandovi, un senso a questa esistenza. Che la fantasia benevola addolcisca la realtà quando si fa più aspra; io non lo chiamerò più delirio.
Per quanti errori vi riconosciate non avete combinato nulla di grave, siamo troppo ininfluenti per essere dannosi.
I vostri nipoti stenteranno a rammentare il vostro nome.
Viziatevi di coccole come una madre che assiste il figlioletto leucemico agli ultimi giorni, acchiappate tutto senza rinunce che, questa, non è la prova generale, ma l’unica nostra vita e quando il dolore si fa più acuto pensate che non dura e tutto passa e, dopo, sarà pressappoco come prima di nascere, che non era poi male.
Naturalmente continuate a venire da noi terapeuti per darci da mangiare, farci sentire sani e non lasciarci soli sul nastro trasportatore, in attesa della caduta a fine corsa. Nel saltare ci stringeremo per mano.

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