Il mito della soggettività sotto assedio
Su “ma la vita psichica non si spiega con i numeri”
Sul numero di lunedì 7 settembre di Repubblica, esce, con occhiello in prima pagina, un interessante articolo a riferire del Reproducibility Project, uno studio condotto a partire dal 2011 da un gruppo di 270 psicologi dell’Università della Virginia nel quale sono stati riprodotti 100 studi pubblicati da tre importanti riviste scientifiche per valutarne l’effettiva riproducibilità (elemento chiave di ciò che viene comunemente definito “scienza”).
Il risultato è che solo il 36 % degli esperimenti riprodotti ha dato risultati sovrapponibili agli originali. Dunque uno studio, che usa il metodo della scienza, mette in discussione i risultati di altri studi, anch’essi scientifici e dunque frutto dell’applicazione del metodo scientifico.
Così funziona la scienza, questo ci permette l’applicazione del rigore scientifico, e per questo, ci si augura, le siamo tutti grati.
Risultato assolutamente interessante, dunque, tanto da aprire immediatamente un vivace dibattito, portato avanti con gli strumenti stessi della scienza – sia in seno alla psicologia che nelle cosiddette “scienze dure” che di numeri ed esperimenti naturalmente vivono- sul significato da dare a questo risultato, e sui possibili rimedi da apportare nei disegni di ricerca per poter limitare ulteriormente la possibilità di risultati fallaci (forse a volte dovuti a contingenze economico-politiche più che a intrinseca debolezza del metodo stesso).
Il dibattito, insomma, è aperto.
Ciò che più colpisce, nelle due pagine di giornale, non è però tanto l’articolo in questione, quanto quello che dovrebbe esserne il “commento” (questa la dicitura sopra il titolo), a firma di Massimo Recalcati, commento che si dibatte tra l’essere l’ennesima apologia della psicoanalisi e la non certo ultima tirata contro un non meglio definito, se non nell’essere quanto di più sgradito all’Autore, “mito dell’oggettività”.
Il discorso di Recalcati si snoda attraverso quattro passaggi principali:
1) Assume l’esistenza di una stortura nel pensiero occidentale, figlio malato della scienza: il “mito dell’oggettività”, nelle righe seguenti confuso e scambiato a piacimento con la scienza tout court.
Aderire alla scienza significa essere oggettivi, non è un Mito, è un criterio del metodo, è il metodo stesso. Altrimenti, si fa altro dalla scienza, legittimo, ma altro.
2) Identifica alcune evenienze di tale fenomeno nella psicologia: il criteri di creazione del DSM, gli studi sugli effetti della dopamina durante l’innamoramento e l’esperienza dell’Autore durante un recente congresso scientifico internazionale sui disturbi dell’alimentazione nel quale “dati statistici, numeri, procedure e percentuali hanno letteralmente dissolto la soggettività del paziente”.
Ma la soggettività del paziente è nel paziente, al più nella stanza di terapia; lamentarne la mancanza in un convegno scientifico internazionale significa cercarla là dove non è richiesto si palesi. Dissolverla, ammesso sia possibile, è ben altra cosa.
3) Fa scivolare il concetto di oggettività su quello di media statistica (la prima però è un aspetto di metodo, la seconda una sintesi di risultati), a sua volta confuso con il concetto di “normalità” (un giudizio di valore confuso con la sintesi di risultati); poggiando su questo fallace doppio passaggio, il “mito dell’oggettività” pretenderebbe dunque che tutto ciò che ricade fuori dalla media sia stortura e anormalità.
Ma, si oppone Massimo Recalcati, “non è forse in questa devianza che dovremmo definire l’unicità irripetibile dell’esistenza come tale?”, scagliandosi contro un nemico immaginario appena costruito per l’occorrenza.
4) Giunge infine, al culmine di cotanta costruzione narrativa, come in ogni lieto fine che si rispetti, a identificare nella psicoanalisi l’ultimo baluardo a salvare l’unicità dell’essere umano in quanto tale, ponendosi come “modello di scienza che non può essere ridotto al furore scientista della quantificazione”.
Cosa ciò significhi esattamente non è detto, quale modello di scienza alternativo sia proposto rimane un mistero, ma ci sentiamo certamente tutti meglio sapendo che le nostre soggettività sono al sicuro dal mostro malefico dei numeri….
Per lo psicoanalista, conclude -a intendere sia diverso per chi anche con i numeri e le percentuali di uno studio cerca la maggior efficacia clinica possibile- per lo psicoanalista, dunque, “ogni caso è unico, non riproducibile, non comparabile”.
Ci congratuliamo.
A me pare serpeggi sotto questo para-ragionamento in 4 fasi uno strisciante gioco di parole, mai svelato del tutto, ma insinuato per tutto il testo, per cui l’obiettività della scienza sia in contrasto con la soggettività dell’umano.
A parte il suggestivo gioco di parole, che come ogni gioco di parole ha il potere di insinuarsi nella nostra mente con una carica di Verità gratuita e non guadagnata sul campo, c’è da chiedersi perché e in che modo la scienza in quanto tale, che è un paradigma con i suoi scopi, le sue proprie regole e i suoi definiti ambiti di applicabilità, debba o anche solo possa essere in opposizione con l’irripetibile unicità dell’esistenza, e tantomeno con la squisita irripetibilità di ogni essere umano.
Come dire, se si scopre che durante quel fenomeno tra due appartenenti alla specie umana denominato innamoramento i livelli di dopamina cerebrale hanno un certo andamento, questo non si spiega come possa avere a che vedere con la conturbante esperienza soggettiva dell’essere innamorati, con dita tremanti che si sfiorano o con la vibrante eccitazione dell’attesa dell’incontro con l’amato/a. Le mani intrecciate non conoscono dopamina.
La scienza scopre regolarità nel multiforme gioco del reale, identifica schemi generali che si ripetono; e con questo noi umani possiamo gettare lo sguardo al di là delle apparenze, possiamo conoscere, capire, prevedere. Conoscendo e prevedendo possiamo intervenire.
Intervenire, per noi clinici, significa che nella meravigliosa e irripetibile unicità dei nostri pazienti leniremo più rapidamente la sofferenza. Questo è il nostro scopo come conoscitori del funzionamento della mente, e se possiamo portare a termine il nostro compito è proprio grazie all’oggettività che ci consente di prevedere.
Dunque, prof. Recalcati, anche per chi utilizza la ricerca e i numeri come mezzo per conoscere, può starne certo, ogni caso è unico, non riproducibile, non comparabile.
BIBLIOGRAFIA:
- Nosek, B.A., Cohoon, J., Kidwell, M. (2015). Estimating the reproducibility of psychological science. Science, 349 (6251).
- Reproducibility Project: Psychology
- Recalcati, M. (2015). Ma la vita psichica non si spiega con i numeri. La Repubblica, 7 Settembre 2015 – consultabile online nella rassegna stampa FLP https://rassegnaflp.wordpress.com/2015/09/07/recalcati-ma-la-vita-psichica-non-si-spiega-con-i-numeri/
Repubblica 7.9.15 Ma la vita psichica non si spiega con i numeri – di Massimo Recalcati.
Il nostro tempo è assillato dal culto della cifra: tutto dovrebbe essere misurato, pesato, tradotto in numeri, quantificato. Il mito dell’oggettività al di là di ogni interpretazione non anima solo alcune recenti correnti filosofiche, ma sembra essere diventato una sorta di imperativo “morale” diffusosi in tutte le aree del sapere. Nemmeno la psicologia può sfuggire a questa tendenza. Anzi, essa sembra sposare con sempre più determinazione l’idea propria delle scienze “dure” — come la matematica o la fisica — che una ricerca per essere considerata degna di scientificità non solo debba galileianamente essere riproducibile in termini sperimentali ma, soprattutto, produrre numeri, percentuali, cifre attendibili. Nemmeno la dimensione labirintica della vita psichica deve costituire una eccezione al nuovo impero dell’oggettività. L’impeto della valutazione — oggi diffuso in tutti gli ambiti del sapere — sospinge gioco forza la psicologia verso la psicometria: misurare atteggiamenti, conoscenze, abilità, credenze, sentimenti, personalità. L’intera classificazione delle malattie mentali proposta dai vari Dsm, per esempio, si fonda su un principio descrittivo basato su ricorrenze statistiche. Nelle Università, non solo italiane, la psicologia tende sempre più ad abbandonare il campo delle cosiddette scienze umane per scivolare verso quello delle scienze obbiettive, ispirate al criterio della quantificazione dei risultati. Una tesi di laurea che non sia corredata da sequenze di numeri, grafici matematici, curve statistiche, oltre che da “inglesismi” di ogni genere, viene ormai considerata, a priori, come una tesi di serie B. Anche il fenomeno che più di tutti esalta la soggettività umana, com’è quello dell’innamoramento, viene spiegato dalle neuroscienze come un fenomeno determinato dall’effetto biochimico dell’azione della dopamina su alcune zone del cervello e destinato fatalmente a spegnersi tra i sei e gli otto mesi. In un recente congresso scientifico interazionale sui disturbi dell’alimentazione al quale ho partecipato ho ascoltato esterrefatto relazioni di colleghi nord-americani che avevano letteralmente dissolto la soggettività del paziente in dati statistici, numeri, procedure anonime, percentuali. Del paziente, della sua anamnesi, della sua storia clinica, delle sue particolarità più proprie, non restava più nulla. Il feticismo della cifra e della generalizzazione protocollare aveva semplicemente inghiottito quello che ogni scienza medica dovrebbe invece rispettare: l’incomparabilità assoluta del soggetto. Il problema è scottante: esiste davvero la possibilità di misurare la vita psichica? E come non vedere che questa domanda trascina con sé la tendenza insidiosa — segnalata con forza da Michel Foucault e da Franco Basaglia — di una medicalizzazione violenta della vita umana? La spinta feticistica alla misurazione vorrebbe, infatti, cancellare il carattere singolare e irripetibile della soggettività umana segregando come “vita malata” quella che si trova fuori dalla media statistica stabilita che definisce la normalità. È questa la dimensione più politica che è al fondo della riduzione della psicologia alla psicometria: quello che devia da una supposta normalità è una deviazione statistica che deve essere trattata affinché ritorni nel suo alveo mediano. E se allora si gettasse nel lazzaretto dell’anormalità anche il pensiero critico, non omologato, quello deviante dalla universalità della norma? Ma, ancora, non è forse in questa devianza che dovremmo definire l’unicità irripetibile dell’esistenza come tale? L’esistenza, in altre parole, non è sempre una deviazione dalla norma? La psicoanalisi offre alla psicologia un modello di scienza che non può essere ridotto al furore scientista della quantificazione. Ogni caso è per lo psicoanalista unico, non riproducibile, non comparabile. Eppure la pratica clinica della psicoanalisi non può essere senza principi, non è una improvvisazione irrazionale. Essa offre, piuttosto, il modello di una pratica epistemica che invita a diffidare di ogni generalizzazione per considerare l’”uno per uno”, la singolarità deviante della vita umana. “