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Psicologia della satira e del riso: mostrare le zanne per attacco o per divertimento?

Nelle espressioni animali i denti si mostrano prima di aggredire, ma anche mentre si sorride. Si nasconde aggressività nelle risa? E' il caso della satira.

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 10 Set. 2015

Articolo pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta Domenica 06 settembre 2015

La satira forse è davvero troppo per un animale. Eppure gli animali qualcosa fanno che somiglia al riso: essi scoprono i denti. Come ha potuto un atto minaccioso come l’esibizione dei denti diventare un atto così (apparentemente) innocente e fraterno come ridere? Forse ridere non è del tutto innocente, forse non è un atto che non vuole nuocere e per il quale i denti non servono. Del resto oggi si parla di satira, che non è un riso innocente.

Gli uomini fanno satira e ridendo, castigano le abitudini e i comportamenti. Quando gli etologi, a cominciare da Lorenz, osservarono che gli animali non ridono ritennero anche che essi non fossero capaci di un’acrobatica operazione mentale: essere consapevoli di un certo modo di fare e di comportarsi e metterlo in ridicolo, satireggiarlo.

Vero, la satira forse è davvero troppo per un animale. Eppure, sarà altrettanto vero che gli animali non ridono? Vediamo meglio. La mimica della faccia umana, controllata da un elevatissimo numero di muscoli, è molto più complessa di quella degli animali non primati, privi di questa sofisticata strumentazione motoria. Un cane può essere espressivo con gli occhi, ma ha un potere limitato su quel che accade più in basso, sulle guance e intorno alla bocca e non mette in atto le mille sfumature del riso umano estese dal dolce sorriso alla risata rabbiosa e sprezzante, dal sorriso sardonico all’ilarità conviviale.

Eppure gli animali qualcosa fanno che somiglia al riso, qualcosa che porta diritto alla satira. E cosa fanno? Essi scoprono i denti. Secondo Konrad Lorenz, l’etologo entrato nell’immaginario per le sue passeggiate con gli anatroccoli, l’atto animale più vicino al riso umano è la rivelazione della dentatura, della chiostra di zanne. Un atto minaccioso e proprio dei carnivori. Gli erbivori non scoprono i denti, sarebbe –è il caso di dirlo- ridicolo per loro che li usano per nutrirsi e non per aggredire. Gli erbivori non ridono.

Come ha potuto un atto minaccioso come l’esibizione dei denti diventare un atto così (apparentemente) innocente e fraterno come ridere? Forse ridere non è del tutto innocente, forse non è un atto che non vuole nuocere e per il quale i denti non servono. Del resto oggi si parla di satira, che non è un riso innocente.

Per un animale mostrare i denti è una minaccia, indubbiamente. È un segnale di attacco, ti dico che voglio usare i denti su di te per mordere. Però, attenzione, la comunicazione è qualcosa di sofisticato in tutti gli animali sociali, non solo nei primati.

Nei predatori che operano in gruppo, in branchi organizzati socialmente, mostrare i denti è un segnale ricco d’informazione la cui complessità è necessaria per comunicare durante la caccia, un’impresa collaborativa non banale. Cacciare non è forza bruta; è esplorazione del territorio, ricerca della preda e comunicazione ai compagni di branco della presenza e della possibilità di attaccare. I predatori comunicano socialmente per indicare la preda.

Indicare è l’atto di nascita della comunicazione e del linguaggio (Liotti, 2001). Indicando attiriamo l’attenzione dei nostri compagni di branco su un oggetto e proponiamo delle intenzioni, dei progetti, degli scopi. Insomma comunichiamo e quindi parliamo, creiamo un linguaggio. Linguaggio mimico e impreciso, ma che un giorno diventa –nelle specie evolute- linguaggio vocale e poi verbale e concettuale, e quindi preciso.

Il predatore che mostra i denti vuole attirare l’attenzione dei compagni di branco per segnalare la presenza di una preda. Tra un po’, quando avrà ottenuto l’interesse dei compagni, unendo sonori versi animali all’esibizione dei denti, volgerà il muso verso la preda per indicarla e lo farà continuando a mostrare i denti. E lo farà continuando a tenere le labbra ritirate all’indietro e in alto e in basso in modo da tenere scoperto il bianco luccicare delle zanne e continuando a emettere sempre più sonoramente il verso della propria specie animale: l’ululato canino, il ruggito felino. Verso che ben presto si propagherà contagiosamente all’intero branco.

Denti scoperti, suoni vocali che si diffondono nel gruppo per imitazione contagiosa. Non vi ricorda nulla? Queste sono risate. Il branco ha trovato la sua preda e ride mentre si slancia all’attacco. C’è l’aggressività, ma anche la gioia dell’atto sociale, la felicità del sentirsi parte di un gruppo.

E c’è il sollievo: anche per oggi abbiamo guadagnato la pagnotta. È un po’ triste trovare nel riso questo fondo aggressivo verso la preda, verso il debole. A questo si riduce anche il riso umano, perfino nelle sue forme più sofisticate: la gioia dell’aggressività condivisa verso il nemico?

Non sempre. La civilizzazione ci permette di superare questo fondo pessimistico che troviamo nelle emozioni animali e umane. Si può depurare il riso della sua aggressività e filtrarne la componente fraterna, ridere assieme agli altri per esprimere solidarietà, condivisione, dolcezza. È quel che accade nel sorriso degli innamorati, degli amici e degli ospiti che ci accolgono nei viaggi verso paesi lontani.

Tuttavia nel riso rimane un triste fondo aggressivo che ci delude, che lo rende uno strumento da maneggiare con cura. Ridendo si castiga, com’è proprio della satira. Si crea comunicazione e solidarietà ai danni del satireggiato, ma un dubbio serpeggia tra i compagni di satira: quanto durerà questa solidarietà? Chi sarà il prossimo a essere deriso? Non possiamo rilassarci mentre ridiamo e già iniziamo le manovre per trovare la prossima preda, per volgere l’aggressività del gruppo su qualcuno: che sia un altro, che non sia io il prossimo.

Il giudizio e la condanna di una vittima purtroppo spesso avvelenano il piacere di ridere assieme. Si ride assieme, ma si ride di qualcuno. È inevitabile.

Siamo affascinati dal giudicare e dal castigare ridendo. È la forza della satira, e un riso troppo innocente alla lunga stucca. Sono orgasmi dell’anima che conferiscono dignità e senso ai propri troppo umani rancori.

Tuttavia, anche del sapore piccante della satira ci si stufa. Nella satira si cela il rischio della deriva rancorosa. Forse è quello che è accaduto in Italia dopo la grande abbuffata satiresca iniziata negli anni ’70 con Il Male -non so quanti ricordino quel giornale- e poi proseguita con Cuore negli anni ’80. Dopo un’abbuffata di satira si smette, è da un po’ abbiamo smesso di ridere con quella ferocia; ma è solo un pendolo destinato a tornare indietro. La tristezza seriosa che segue una serata tra amici eccessivamente ridanciana ben presto ci stanca, e ricominciamo a cercare qualcuno o qualcosa da deridere in compagnia degli amici. Fraternamente e ferocemente.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Liotti, G. (2001). Le Opere della Coscienza. Milano: Raffaello Cortina Editore
  • Lorenz, K. (2008). L’Aggressività. Milano: Il Saggiatore. Das sogenannte Böse zur Naturgeschichte der Aggression. Verlag Dr. G Borotha-Schoeler, 1963.
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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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