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La terapia cognitivo comportamentale migliorata (CBT-E) è più efficace della terapia interpersonale nel trattamento dei disturbi alimentari

Uno studio confrontando la CBT migliorata e la IPT nel trattamento dei disturbi alimentari ha dimostrato la maggiore efficacia della CBT-E - Psicoterapia

Di Guest, Riccardo Dalle Grave

Pubblicato il 17 Giu. 2015

Aggiornato il 16 Dic. 2015 11:43

La terapia cognitivo comportamentale migliorata (CBT-E) è più efficace della terapia interpersonale nel trattamento dei disturbi alimentari

Massimiliano Sartirana (1) e Riccardo Dalle Grave (2)

1 Psicologo, psicoterapeuta, dottore di ricerca in scienze mediche generali e scienze dei servizi.
2 Medico, psicoterapeuta, specialista in scienza dell’alimentazione ed endocrinologia.


 

I dati dello studio indicano che la CBT-E è un trattamento potente per i pazienti ambulatoriali non marcatamente sottopeso affetti da disturbi dell’alimentazione e che l’IPT rimane un’alternativa alla CBT-E, ma la sua risposta è meno pronunciata e più lenta.

Studi controllati eseguiti in Inghilterra e negli Stati Uniti d’America hanno evidenziato che la terapia interpersonale (IPT) alla fine del trattamento è meno efficace rispetto alla terapia cognitivo comportamentale per la bulimia nervosa (CBT-BN), ma a distanza di un anno ottiene i medesimi risultati (1-2). La IPT non è mai stata però testata in un campione allargato trasdiagnostico di pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione e non è stata confrontata con la più recente versione di CBT “migliorata” (CBT-E; E = “enhanced”). La CBT-E è derivata dalla CBT-BN, ma è stata ideata per essere più efficace e adatta per curare tutte le categorie diagnostiche dei disturbi dell’alimentazione (approccio transdiagnostico) affrontando, con un approccio individualizzato e flessibile, i meccanismi cognitivo comportamentali comuni di mantenimento della psicopatologia condivisa ed evolvente dei disturbi dell’alimentazione (non la diagnosi DSM) (3-4).

Uno studio eseguito presso il Center of Research on Eating Disorders dell’Università di Oxford e recentemente pubblicato su Behaviour Research and Therapy (5), si è posto due obiettivi principali: confrontare la CBT-E con l’IPT; valutare se l’efficacia della CBT-E, verificata nell’originale e ampio trial randomizzato e controllato pubblicato nel 2009 ed eseguito in pazienti con bulimia nervosa e disturbi dell’alimentazione non altrimenti specificati non sottopeso, può essere replicata quando è reclutato un equivalente campione di pazienti e la CBT-E è stata somministrata allo stesso modo.

Il disegno dello studio è stato quello di un trial randomizzato e controllato eseguito in un campione transdiagnostico di pazienti con disturbo dell’alimentazione e con indice di massa corporea (IMC) >17,5 e <40,0. I pazienti eleggibili sono stati randomizzati alla CBT-E o all’IPT, due trattamenti che prevedono 20 sedute da eseguirsi in 20 settimane.

La valutazione dell’efficacia dei trattamenti è stata misurata con l’Eating Disorder Examination Interview (EDE.16.0D) e l’Eating Disorder Examination-Questionnaire (EDE-Q), per valutare la psicopatologia specifica del disturbo dell’alimentazione, il Clinical Impairment Assessment (CIA), per valutare il danno psicosociale derivante dal disturbo dell’alimentazione, la SCID-DSM-IV (Intervista Clinica Strutturata) e il Beck Depression Inventory (BDI), per valutare la comorbidità psichiatrica e la depressione clinica coesistente, rispettivamente. Le valutazioni sono state eseguite all’inizio, alla fine del trattamento e a 20, 40 e 60 settimane di follow-up da valutatori che erano all’oscuro della condizione di trattamento del partecipante e non erano coinvolti nel trattamento.

Il campione è stato reclutato da pazienti inviati da medici di famiglia e da altri clinici al servizio clinico di Oxfordshire nel Regno Unito. I criteri di esclusione sono stati i seguenti: l’aver già eseguito un trattamento simile alla CBT-E e IPT (13 soggetti esclusi); la presenza di un disturbo psichiatrico generale coesistente che preclude un trattamento focalizzato sul disturbo dell’alimentazione come, per esempio, la depressione clinica grave, il disturbo bipolare e l’agorafobia grave (16 pazienti esclusi); la presenza di instabilità medica o di gravidanza (13 pazienti esclusi); il non essere disponibili a partecipare al trattamento (13 pazienti esclusi). Prima di entrare nello studio i pazienti hanno sospeso un eventuale trattamento psichiatrico, fatta eccezione del trattamento farmacologico per la depressione clinica che è stato mantenuto durante l’intero trial.

I terapeuti che hanno preso parte allo studio avevano un’esperienza clinica nel trattamento dei pazienti con disturbo dell’alimentazione. Durante lo studio sono stati condotti incontri di supervisione settimanale condotti da Christopher Fairburn e Zafra Cooper. Tutte le sedute del trattamento sono state registrate e ogni settimana alcune sedute a caso sono state scelte e ascoltate dai due supervisori. La qualità della conduzione dei due trattamenti è stata anche valutata da un valutatore indipendente usando l’adattamento di uno strumento sviluppato per il precedente trial che aveva confrontato la CBT-E con l’IPT.

65 partecipanti sono stati assegnati random alle due condizioni di trattamento. Di questi 130, 53 (40,8%) avevano una diagnosi di bulimia nervosa, 8 di disturbo da binge-eating (6,2%) e 69 (53,1%) di disturbo dell’alimentazione non altrimenti specificato.
I punteggi riguardanti le aspettative, l’idoneità e la fedeltà al trattamento sono stati elevati, non diversi tra i due trattamenti e oltre i due terzi delle sedute sono state valutate come eccellenti.
29 partecipanti (22,3%) non hanno completato le 20 sedute di trattamento (bulimia nervosa 32,1%, disturbo da binge-eating  0% e disturbo dell’alimentazione non altrimenti specificato 17,4%).

Alla fine del trattamento, i livelli di psicopatologia specifica del disturbo dell’alimentazione e generale sono diminuiti significativamente in entrambi i bracci, ma i cambiamenti sono stati significativamente maggiori nei partecipanti allocati alla CBT-E. La percentuale di partecipanti trattati con la CBT-E che ha raggiunto la remissione, ovvero un punteggio all’EDE globale inferiore a 1,74 (corrispondente al punteggio medio della comunità più una deviazione standard), alla valutazione intent to treat è stata quasi due volte superiore a quella dei partecipanti trattati con l’IPT.  Quasi la metà dei partecipanti trattati con la CBT-E (44,8%, 26/58) non riportava episodi bulimici, vomito autoindotto o uso improprio di lassativi alla fine del trattamento, rispetto a solo il 21,7% (13/60) dei partecipanti trattati con l’IPT.

I cambiamenti osservati sono stati maggiori tra i partecipanti che hanno concluso il trattamento e il tasso di remissione è stato raggiunto in circa 3/4 di partecipanti trattati con la CBT-E rispetto a solo poco più di un terzo in quelli trattati con l’IPT. Al follow-up di 60 settimane il tasso di remissione è rimasto significativamente superiore nei partecipanti trattati con la CBT-E rispetto a quelli trattati con l’IPT (CBT- E 69.4%, IPT 49.0%; p=0.028).
Per quanto riguarda il secondo obiettivo dello studio, il tasso di remissione ottenuto dai partecipanti trattati con la CBT-E è stato simile a quello dello studio del 2009 (6) (67% e 66% alla fine del trattamento e 69% e 63%, rispettivamente).

Commenti

I dati dello studio indicano che la CBT-E è un trattamento potente per i pazienti ambulatoriali non marcatamente sottopeso affetti da disturbi dell’alimentazione e che l’IPT rimane un’alternativa alla CBT-E, ma la sua risposta è meno pronunciata e più lenta. La capacità della CBT di operare rapidamente non è sorprendente, perché è stata ideata per affrontare direttamente la psicopatologia del disturbo dell’alimentazione, mentre l’IPT probabilmente agisce indirettamente sui processi interpersonali nel determinare il cambiamento.

Lo studio è metodologicamente ineccepibile e per questo presenta tre punti di forza. Il primo è che ha reclutato un campione clinicamente rilevante con pochi criteri di esclusione. Il secondo è che il campione trattato è transdiagnostico. Il terzo è che sono state prese tutte le cautele per fare in modo che i due trattamenti fossero ben eseguiti in accordo ai loro protocolli all’interno di un setting ambulatoriale.

Lo studio presenta alcuni limiti. Il primo è che si tratta di uno studio condotto su soggetti adulti con disturbo dell’alimentazione e per questo i suoi risultati non sono generalizzabili a pazienti più giovani. Il secondo è che è stato valutato un campione con IMC compreso tra 17,5 e 40,0 e quindi non si possono generalizzare risultati a soggetti con un IMC diverso da questo. Per ultimo non sono stati riportati risultati sui mediatori o i moderatori della risposta ai due trattamenti. C’è, comunque, da parte del gruppo di Oxford l’intenzione di esaminare la presenza di moderatori di risposta alla CBT-E e all’IPT e di verificare specifiche ipotesi mediazionali rispetto a come operano i due trattamenti.

In conclusione, i risultati dello studio, oltre a dimostrare la maggiore efficacia della CBT-E rispetto all’IPT nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione non marcatamente sottopeso, sottolineano il valore della ricerca in campioni transdiagnostici di partecipanti, come sostenuto dall’iniziativa RDoC (7-8), perché  risultati come quelli ottenuti da questo studio difficilmente possono emergere da ricerche che includono partecipanti con una singola categoria diagnostica.

 

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BIBLIOGRAFIA: 

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