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Elogio della sobrietà: raggiungere il benessere psicologico attraverso la semplicità

E' necessario ritrovare la semplicità in un percorso di vita teso al raggiungimento del benessere psicologico, contro uno stile di vita basato sul possesso

Di Vincenzo Amendolagine

Pubblicato il 15 Set. 2014

 

 

Probabilmente l’intrigo della vita è da ricercarsi nelle potenzialità possibili e nei diversi sentieri inesplorati che essa permette di percorrere. Perché tutto questo possa divenire il valore euristico dell’esistenza, è necessario ritrovare la sobrietà e la semplicità in un percorso di vita orientato al raggiungimento del benessere psicologico.

Abstract

Un concetto radicato nella nostra cultura è che il valore di un individuo si misura dalle cose che possiede. Questo costrutto alimenta un’ideologia del vivere che ha come archetipo il volere sempre di più. Ciò si palesa nella “smania del nuovo”, che diventa un bisogno essenziale e paradigmatico di ogni esistenza.

Probabilmente l’intrigo della vita è da ricercarsi nelle potenzialità possibili e nei diversi sentieri inesplorati che essa permette di percorrere. Perché tutto questo possa divenire il valore euristico dell’esistenza, è necessario ritrovare la sobrietà e la semplicità in un percorso di vita orientato al raggiungimento del benessere psicologico.

Il possedere come sinonimo del valere

L’incremento delle sovrastrutture di marxiana memoria per lungo tempo è stato considerato sinonimo di soddisfazione, ovvero la strada maestra per giungere al benessere. Nella follia consumistica di questi ultimi anni si sono percorsi sentieri alla ricerca della felicità in anfratti dove essa non si è mai annidata. Il preconcetto che ha alimentato la percezione antropologica è stato quello che il possesso delle merci – feticci promuovesse il benessere psicologico, ritenuto il fine ultimo di ogni esistenza.

Dave Eggers (2001, pag. 40) esprime questo vissuto “… Ci spetta tutto quello che vogliamo, un esemplare per ogni articolo, qualunque cosa ci sia nel negozio, un’ubriacatura di shopping di ore e ore, del colore che vogliamo, delle marche e nella quantità che vogliamo…”. Il possedere il tutto ha fugato i fantasmi legati al confronto con una realtà incommensurabile per le nostre forze, un titanico contesto nel quale sovente ci si sente piccoli e inferiori, alla mercé di un’inadeguatezza probabilmente endemica alla natura umana, come sottolineato da Adler (1975, pag. 71) “…dobbiamo concludere che un sentimento di inferiorità più o meno radicato sussiste sempre alla base di ogni esistenza psichica…”.

L’avere, come valenza fenotipica del valere, alimenta la strana equazione che si è in base a quello che si possiede. In questa ideologia della vita si perde il concetto di misura, ovvero ogni persona possiede le cose al di là di quella che può essere la sintonia con la propria natura.

In altre parole, ogni individuo deve essere in base a quella che è la sua personalità e questo permette di trovare la dimensione giusta per raggiungere il proprio benessere. In un romanzo degli anni Sessanta la Christie faceva dire ad uno dei suoi poliziotti “…Se è della giusta grandezza avrà successo…Tutto ha una sua misura…” (1967, pag. 33).

L’intrigo dell’esistenza

Che la vita nel suo complesso non sia facile da vivere non è un mistero, quello che sostiene nella gran parte dei casi è la potenzialità insita in ogni processo vitale, ovvero quel dispiegarsi secondo varie direzioni, spesso le più disparate possibili. Ed è proprio in questo, piuttosto che nel possesso, l’intrigo dell’esistenza. “…La tua vita è un bambino ancor non nato…” ribadisce Maria Luisa Spaziani in un sua poesia (1979, pag. 105). Ogni vita merita di essere vissuta, ogni vita ha un suo fascino che è sintonico con la personalità di chi la vive, ogni vita è uno specchio di una vicenda umana sempre intrigante. Da questo punto di vista non esistono delle esistenze che siano più affascinanti di altre o delle ideologie che insegnano a vivere bene. Semplicemente esistono degli individui, ognuno con la sua caleidoscopica personalità, che indirizzano le loro vite. “…Potete lavorare dieci anni con un maestro cercando di capire…Ma ciò che imparerete è solo questo: che ognuno deve vivere la propria vita…” afferma Deng Ming – Dao (1998, pag. 97).

La strutturazione della vita si crea attraverso una serie di vicende che si accavallano nel tempo e che affollano di eventi positivi e negativi ogni ciclo vitale. Sono proprio questi episodi che plasmano la forza di ogni singola persona, la sua unicità, certamente non omologabile alle variabili che entrano a far parte del patrimonio materiale.

Ugo Riccarelli (2005, pag. 62 – 63) ci avverte “…La mentalità, la durezza della vita, la conoscenza… gettavano i fanciulli nel mezzo di un’esistenza che era difficile e faticosa… Avrebbero dovuto guadagnarsi rispetto e voce negli anni, per essere uomini e donne fatte, ma prima erano foglie al vento, fragili cose in balia del mondo…”.

L’avere come simbolo di potere

L’accumulo di merci – feticci comporta una forma di pseudosoddisfazione che si palesa nel guardarli, nell’elencarli, nel farne oggetto continuo della propria attenzione. Tutto questo sembra dare un senso alla propria esistenza, come se fosse un diario materiale nel quale si scrivono le tappe fondamentali del proprio ciclo vitale, testimoniate dagli oggetti posseduti. Ed è sempre la stessa storia al di là dell’evoluzione delle singole civiltà. La medesima ideologia si trova nelle culture di popolazioni non ancora contaminate dal modernismo e dal post – modernismo della civiltà occidentale.

L’etnologo Marcel Mauss in un saggio degli anni Cinquanta (2011, pag. 100), descrivendo la cultura di una popolazione tribale, ci spiega “…Ciascuno di questi oggetti preziosi, ciascuno di questi contrassegni di ricchezza… possiede una individualità, un nome, delle qualità, un potere…”. Che tutto questo possa essere in rapporto a qualche bisogno fondamentale che nel corso dell’evoluzione è andato perso? In tal senso sembra coinvolgente l’ipotesi elaborata, seppure ironicamente, da Bruce Chatwin (1997, pag. 27) “l’uomo… aveva acquisito insieme alle gambe un istinto migratorio… e quando era tarpato trovava sfogo… nell’avidità… nella smania del nuovo…”.

La smania del nuovo

“La smania del nuovo” è quella che spinge a voler ricercare qualcosa che non si sa che cosa sia, a non accontentarsi mai di quello che si ha già, a non godere fermamente delle cose fatte. Tutto ciò contiene i semi dell’infelicità e rende estremamente complesso il vivere quotidiano.

Probabilmente la ragione è ascrivibile al fatto che, profondamente, aspiriamo al malessere piuttosto che al benessere. La poetessa Saffo (1996, pag. 29) ha il coraggio di ammetterlo “…Non spero mai / di sfiorare il cielo con un dito…”.
Un’altra ipotesi potrebbe essere il continuo bombardamento sensoriale, che la società dei consumi effettua, e che rende dipendenti dalle novità. Presumibilmente bisognerebbe rieducare i sensi con le strategie pedagogiche della Montessori (1973, pag. 158) “… Noi dunque possiamo aiutare lo sviluppo dei sensi… graduando e adattando gli stimoli…”.

D’altra parte, il volere più di quello che si ha è un’esigenza legittima dell’essere umano, laddove essa è paradigmatica di un miglioramento della qualità della vita. La mistificazione è insita nel continuo processo di desiderare di più senza godere appieno di quello che nel frattempo si è raggiunto. In tal senso Carlson (1998, pag. 224 – 225) osserva “…Se pensi che di più sia meglio, non sarai mai soddisfatto… ricordati che anche se ottieni quello a cui stai pensando, non sarai… più soddisfatto di prima, perché continuerai a desiderare sempre di più…”.

Alla luce di ciò, il reperimento del proprio benessere passa attraverso una riscoperta della sobrietà e della semplicità, che consentono di apprezzare quello che si è, quello che si ha e quello che si fa. Si scopre così nella frugalità l’origine delle propria grandezza. “Temo un uomo dal discorso frugale- /…temo che egli sia grande…” (Dickinson, 1996, pag. 37).

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Adler, A. (1975). La conoscenza dell’uomo nella psicologia individuale (F. Parenti trad.). Roma: Newton Compton Editori.
  • Carlson, R. (1998). Non perderti in un bicchier d’acqua (T. Riva trad.). Milano: Bompiani.
  • Chatwin, B. (1997). Anatomia dell’irrequietezza (F. Salvatorelli trad.). Milano: Adelphi.
  • Christie, A. (1967). Miss Marple al Bertram Hotel (M. Mammana Gislon trad.). Milano: Mondadori.
  • Dickinson, E. (1996). 51 Poesie (M. Bacigalupo trad.). Milano: Mondadori.
  • Eggers, D. (2001). L’opera struggente di un formidabile genio. (G. Strazzeri trad.). Milano: Mondadori.
  • Mauss, M. (2011). Saggio sul dono (F. Zannino trad.). Milano: R. C. S. Libri.
  • Ming – Dao, D. (1998). Il Tao per un anno (A. Rusconi trad.). Milano: R. L. Libri.
  • Montessori, M. (1973). La scoperta del bambino. Milano: Garzanti.
  • Riccarelli, U. (2005). Il dolore perfetto. Milano: Mondadori.
  • Saffo (1996). Poesie. Milano: Mondadori.
  • Spaziani, M. L. (1979). Poesie. Milano: Mondadori.
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Vincenzo Amendolagine
Vincenzo Amendolagine

Medico, psicoterapeuta psicopedagogista. Insegna come Professore a contratto presso la Facoltà/Scuola di Medicina dell’Università di Bari Aldo Moro.

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