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ll sogno di Nesbø sembra benevolo (ma forse mente e pensa al padre)

Lo psicoterapeuta Giancarlo Dimaggio interpreta un sogno ricorrente dello scrittore Jo Nesbø, creatore dell'investigatore Harry Hole - Psicologia dei Sogni

Di Giancarlo Dimaggio

Pubblicato il 07 Apr. 2014

Di Giancarlo Dimaggio. Pubblicato sul Corriere della Sera di domenica 6 aprile 2014

 

 

Il sogno di Nesbo sembra benevolo (ma forse mente e pensa al padre)Il sogno di Jo Nesbø: il sogno non è un racconto compiuto, ma una fucina di associazioni, di emozioni, un generatore di storie.

In questi giorni ho in mano L’uomo di neve. Mi toglie ore di sonno, mi fa paura. La primavera mi conforta, vedessi un pupazzo di neve avrei incubi. Già per superare le prime pagine de Il leopardo ci avevo impiegato un anno. Volevo evitare cattivi sonni.

Leggo l’intervista a Jo Nesbø. Lo invidio. Ha giocato a calcio, suona in una band rock, scrive romanzi dal successo pazzesco. Nesbø racconta un sogno ricorrente, l’unico che fa mai, suggerisce. Penso che mente spudoratamente. Ricordo i sogni di Harry Hole, il suo protagonista. Harry beve, dorme male, si sveglia sudato e urlando da incubi atroci. Sono sicuro che uno che mette quei sogni nella mente del suo alter ego li fa davvero. Non te li puoi inventare. Magari li cambi, li colorisci, ma non emergono dal nulla.

Scettico, cerco di interpretare il sogno. Apparentemente è buono. La sua squadra ha fiducia in lui. Noi psicoterapeuti diremmo che il suo Altro interiorizzato ha qualità benevole. Nesbø desidera essere apprezzato, realizzare le sue fantasie. Ha dei dubbi su di sé. Ma l’Altro lo vuole, lo cerca, lo sostiene. Non solo. Gli dà un’attenzione speciale: le scarpe nuove, giuste per te. Tutto torna, Nesbø sta dannatamente bene e fa i sogni che ti aspetteresti da uno che nella vita ha osato, ha creato, ha avuto successo. Io non sono convinto. In parte è una questione di mestiere.

Il sogno non è un racconto compiuto, ma una fucina di associazioni, di emozioni, un generatore di storie.

Per interpretarlo davvero voglio il sognatore davanti a me. Devo porgli domande, fare eco alle le sue parole, chiedergli cosa gli evocano. Cosa ha provato quando le hanno chiesto di giocare? Ansia? Gioia? Stupore? Non usava da tanto le scarpe, ricorda momenti in cui le calzava?

Se cogliessi nel viso un’ombra di tristezza, penserei che ancora porta le cicatrici dell’infortunio che – per nostra fortuna – gli ha troncato la carriera di calciatore e ci ha regalato una belva del noir. Glielo farei notare. C’è cupezza nel suo viso, o nostalgia, sbaglio? Sì, ma non per quello che pensa lei, potrebbe dirmi. E magari mi parlerebbe di una partita in cui qualcuno nel pubblico mancava. Qualcuno a cui teneva molto. Oppure tutta un’altra storia. Scorgerei nel viso un guizzo di gioia. E da lì, ricordi di un paio di scarpini da calcio che gli fu comprato da bambino.

I sogni sono fatti così. Perché svelino l’essenza devi parlare con il sognatore, attivare network di memorie, catturare i guizzi dei muscoli facciali.

Nesbø non è qui. Ma io sono furbo, lo cerco sul suo sito. Incauto, si fa trovare. Parla de Il leopardo. La chiusura mi colpisce. Nel romanzo, la vita sentimentale di Harry Hole è a pezzi (come sempre) mentre fa i conti con il padre morente. Nesbø sorride ambiguo: “Tra un paio d’anni, ripensando a questa storia, probabilmente vedrò che ha molto a che fare con la mia vita. Per ora penso che riguardi Harry”. Non doveva scoprirsi così: persisto nell’illazione che i sogni di Harry siano i sogni di Jo. Che se fai un sogno in cui dicono: “Ok, ti vogliamo”, e scrivi di serial killer, nascondi qualcosa. L’uomo di neve mi aspetta, il romanzo voglio dire. Harry Hole avrà incubi. Io saprò a chi chiedere per interpretarli.

 

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Psichiatra e Psicoterapeuta - Socio Fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva-Interpersonale

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