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Una famiglia perfetta. Un film sul perfezionismo ma anche sul cinismo, sulla solitudine, sull’accettazione. Un film di Paolo Genovese che ha il sapore di commedia con retrogusto agrodolce. E così gradualmente il sapore accompagna un filo rosso della trama, che ondeggia e gioca e si muove continuamente tra finzione e realtà.
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Il film inizia in una bellissima villa di campagna, il giorno di natale, dove un solitario e ricco cinquantenne decide di affittare una compagnia di attori perché interpretino la sua famiglia, esattamente come la desidera. Per un’intera giornata questa compagnia di attori avrà il compito di interpretare la sua famiglia ‘perfetta’ nonostante l’ansia di dover rappresentare un meticoloso copione, dove non sono possibili molte pause e dove è sempre buona la prima. Una compagnia che si trova a recitare per un solo spettatore che si mostra ossessivo, provocatore e maltrattante.
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Lo spettatore e sceneggiatore è Leone, l’uomo ricco e solo, interpretato da Sergio Castellitto. Un uomo dal fine intelletto, un manipolatore che conosce (o pensa di conoscere) come si muove l’animo umano.
Gli attori pensano si tratti di un eccentrico che desidera trovare una sorta di conforto anche solo nella finzione di una famiglia. In realtà lo scopo è più alto, più esistenziale. Leone sta costruendo un grande esperimento il cui scopo è mostrare l’infondatezza della perfezione.Leone cerca la conferma pessimistica della sua visione dell’esistenza umana e delle relazioni affettive tanche che anche quando il copione della perfezione è già scritto e solo da interpretare, l’animo umano non può evitare per sua natura di distruggerlo.
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Insomma l’essere umano è misero, ferisce, distrugge, non è capace di resistere agli impulsi o di curarsi realmente degli altri. Ogni sforzo, impegno o valore sono destinati a essere frustrati. Per questo è inutile, nella mente di Leone, impegnarsi in qualcosa e in questa deduzione sta l’errore di Leone.
Lo spettatore può anche immaginarsi un Leone adolescente perfezionista, rimuginatore e iperresponsabile (e qualche tratto lo si nota ancora), impegnato ad amare come pensa che sia l’amore ideale. E come a tutti succede anche il Leone adolescente deve aver battuto la testa contro la durezza della vita, le sue sofferenze e le sue frustrazioni. Però la sua via d’uscita negli anni è stato dedurne l’insensatezza dell’esistenza e degli affetti e costruirsi un piano opposto: mollare tutto.
Se niente di perfetto può essere allora nulla vale la pena di un investimento, rischio o sforzo. Perché costruire la famiglia se questa porta con sé solo nuove opportunità di dolore e frustrazione?
Leone sceglie la solitudine e il cinico del disinvestimento e del ritiro. Ora, a circa cinquant’anni, è come se volesse dare prova a sé (e non solo) che questa scelta era l’unica possibile, la prova tangibile di non aver commesso in fondo un errore. E il motore presumibilmente è proprio la solitudine che sente e il vedere che le altre persone, coloro che non si ritirano nonostante le imperfezioni, alla fine sopravvivono gratificandosi del valore che attribuiscono alle proprie scelte.
E così procede l’esperimento della famiglia perfetta dove Leone riesce parzialmente. Perché sì, nulla purtroppo è perfetto. Tuttavia l’esperienza può offrire una forma nuova di conoscenza, più flessibile, che apre le porte a nuove possibilità. E in fondo ciascuno di noi è un Leone che cerca la sua strada tra due poli opposti, la strada capace di attribuire un valore anche e nonostante l’imperfezione.
L’esperimento della famiglia perfetta nasce per confermare le proprie ipotesi ma si rivela più utile per verificare che nell’imperfezione si può reggere e trovare soddisfazione. E forse, ne vale anche la pena.
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